Abrogazione dell'oltraggio e condanne irrevocabili: un ricorso per cassazione dal Foro di Genova (*)
ECC.MA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - ROMA
Ecc.mo Signor
Presidente,
il sottoscritto Avvocato, in qualità di difensore di Tizio, propone ricorso
per Cassazione avverso l'ordinanza (P.E. 81/99
- R.G. 713/94 P) pronunciata in data 13 agosto 1999 dalla Corte d'Appello di
Genova, Sezione Feriale, che ha respinto la richiesta della Procura Generale
di Genova, tesa in principalità ad ottenere la revoca, ai sensi dell'art.
673 c.p. della sentenza di condanna di Tizio per il reato di oltraggio a pubblico
ufficiale emessa in data 23 maggio 1997 dalla Corte genovese, in parziale riforma
della sentenza 11 gennaio 1994 del Pretore di Ventimiglia.
PREMESSE
In data 14 luglio
1999 il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Genova
- a seguito dell'abrogazione dell'art. 341 c.p. disposta con l'art. 18 della
l. 25 giugno 1999 nr. 205, norma di immediata applicazione - proponeva istanza
di revoca della sentenza di condanna inflitta al prevenuto per oltraggio a pubblico
ufficiale.
All'udienza camerale del 12 agosto 1999, il P.G. invertendo i termini della
propria richiesta principale, concludeva chiedendo che la sentenza non fosse
revocata.
In data 13 agosto 1999 la difesa presentava memoria ex art. 121 c.p.p.
Nella medesima data la Corte d'Appello pronunciava l'impugnata ordinanza con
cui respingeva la richiesta di revoca della sentenza per le ragioni indicate
nella parte motiva.
Secondo il giudice dell'esecuzione la condotta in relazione alla quale nel caso
di specie è intervenuta pronuncia di condanna non ha perduto ogni connotazione
criminosa a seguito dell'abolizione di tale norma, perché in detta condotta
continuano ad essere ravvisabili tutti gli elementi costitutivi del reato previsto
e punito dall'art. 594 c.p.
"Essendosi pertanto verificata una successione di leggi penali ai sensi
del terzo comma dell'art. 2 c.p." si assume testualmente in motivazione,
"osta all'applicazione della legge più favorevole sopravvenuta,
che comporta la punibilità come reato di ingiuria, procedibile a querela
dell'offesa a pubblico ufficiale, la preclusione della condanna passata in giudicato".
"La sentenza di condanna riportata da Tizio, già definitiva, non
può quindi essere oggetto di revoca ai sensi dell'art. 673 c.p.p. applicabile
solo quando il fatto non sia più previsto come reato e non quando il
fatto sia in astratto diversamente punibile".
Quanto sopra premesso, si enunciano i seguenti motivi di ricorso:
Il ragionamento
della Corte d'Appello di Genova parte da premesse errate e perviene alla sconcertante
conclusione in base alla quale l'art. 341 c.p. incontestabilmente abrogato continuerebbe
a produrre l'effetto di imporre l'espiazione della pena detentiva a suo tempo
comminata per quel reato.
E' come se si pretendesse di punire ai sensi dell'art. 650 c.p. tutti i condannati
per il reato di contravvenzione al foglio di via obbligatorio previsto dall'art.
152 T.U.L.P.S. ed abrogato con d.l. 30.12.89 nr. 416 e per di più non
già con le pene previste dall'art. 650 citato, bensì con quelle
indicate nella norma espunta dall'ordinamento. Anzi peggio, perché l'art.
650 c.p. è punibile d'ufficio, mentre l'art. 594 c.p. a querela, che
nel caso in esame difetta.
L'abnorme assunto è frutto della confusione che la Corte mostra di fare
tra la figura della semplice "abolitio criminis", che pur l'estensore
della motivazione ammette esplicitamente essersi verificata nella fattispecie,
ed il concetto di "norma più favorevole sopravvenuta", che
poi in concreto applica.
L'abrogazione travolge anche gli effetti del giudicato. La successione delle
leggi, invece, comporta l'introduzione di una diversa disciplina sanzionatoria
per quello stesso comportamento già noto come reato alla vecchia legge.
Non si può pertanto dire, come fa la Corte genovese, da un lato che si
è in presenza della abolizione del reato di oltraggio e, dall'altro,
che si è verificata una successione di leggi penali.
La disciplina circa l'applicazione della legge più favorevole non pare
affatto pertinente quando come nel caso in esame a seguito dell'abrogazione
di una norma di fatto ricade in una norma più generale in vigore già
in precedenza.
In tal caso non si realizza una successione di norma, bensì un concorso
apparente di norma (situazione giuridica statica), che rappresenta l'esatto
contrario della successione di precetti penali (situazione che per definizione
presuppone sempre uno "ius novum").
Il concorso apparente ricorre, come noto, quando più norme siano tutte
applicabili al medesimo fatto. Tipico esempio è quello del vilipendio
al Presidente della Repubblica astrattamente punibile oltre che ex art. 278
c.p. anche ai sensi dell'art. 341 c.p. e 594 c.p.
In tal caso non si realizza un concorso reale di norme nel senso che tutte devono
essere applicate bensì un concorso solo apparente e pertanto il reato
è unico.
E' fin troppo evidente, per restare all'esempio fatto, che, abolita la figura
di reato che ingloba le altre, debbano cessare gli effetti della condanna pronunciata
per quel reato. Questo è stabilito dal secondo comma dell'art. 2 c.p.,
nel quale l'elemento distintivo, rispetto al terzo comma, è identificato
dalla giurisprudenza nella abolitio criminis anche nella forma della depenalizzazione
sia del precetto penalmente sanzionato, sia, in alternativa, della sanzione
penale.
Ricade invece nella previsione del terzo comma, il quale fa salvi gli effetti
della sentenza irrevocabile di condanna, la successione di leggi che comporti
una diversa disciplina per una condotta già nota come reato alla vecchia
normativa, e come tale ancora previsto dalla nuova legge. Ma occorre pur sempre
una nuova legge.
Avverte infatti la Corte di Cassazione (15 maggio 1992, Sez. V Frossarello)
che quando viene abrogata una disposizione incriminatrice, dal solo dato dell'abrogazione
non può dedursi che tute la condotte precedentemente realizzate e rientranti
in quella disposizione sono ritenute non punibili ma occorre stabilire, ai sensi
dell'art. 2 c.p., se la condotta oggetto del giudizio continui a costituire
reato "anche per la legge posteriore".
Si veda ad es. la giurisprudenza richiamata anche nella memoria del Procuratore
Generale formatasi in occasione dell'abrogazione dell'art. 324 c.p. con legge
16.4.90 nr. 86. Nella specie la Corte Suprema ha giudicato esatta la valutazione
del giudice di merito che aveva ritenuto che la sentenza di condanna per il
reato di cui all'abrogato 324 c.p. non poteva essere revocata in quanto i fatti
per i quali si era proceduto rientravano nella previsione criminosa del secondo
comma del nuovo art. 323 c.p.
Nulla di simile si è
verificato nel caso in esame. L'art. 18 l. 205/1999 ha valenza puramente abrogativa
della norma per cui Tizio è stato condannato.
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Anche a voler
ritenere che al caso in esame sia applicabile la disciplina della successione
di leggi nel tempo, occorre verificare se tra la fattispecie abrogata e quella
di cui all'art. 594 c.p. ricorra o meno rapporto di specialità, poiché
sono nel primo caso si potrebbe avere una successione di leggi per riespansione
della fattispecie precedente. Nel secondo caso ricorrerebbe la semplice "abolitio
crminis" (si cita in tal senso ordinanza
29 luglio 1999 Tribunale di Arezzo, Giudice dell'esecuzione Borraccia).
Appare a tal fine decisivo il richiamo alle costanti pronunce della Corte Costituzionale
secondo cui con la fattispecie di cui agli artt. 341 e 594 c.p. "si è
inteso tutelare beni giuridici ben diversi, giacché nell'uno sono presi
in considerazione l'onore ed il decoro del privato cittadino, mentre nell'altra
è protetto il prestigio della Pubblica Amministrazione nel suo funzionamento
attraverso l'opera dei pubblici ufficiali (Sentenza nr. 22/19666; 109/1968;
51/1989; 20/1983).
Va pertanto disattesa l'opinione della Corte genovese secondo cui l'oltraggio
non sarebbe altro che una ingiuria aggravata dalla qualifica della persona offesa.
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Si ritiene in
dottrina e giurisprudenza che la dichiarazione di incostituzionalità
di una norma penale abbia un effetto identico, nella sua portata e nelle conseguenze,
a quello previsto dal secondo comma dell'art. 2 c.p. (Cass. 2.10.78, Sez. V,
Iammella).Ciò si ricava dalla equivalenza delle formule normative contenute
in detta disposizione e nell'art. 30 della legge 11.3.53 recante norme sul funzionamento
della Corte Costituzionale.
Proprio l'esame della norma citata, consente di comprendere come la rimozione
del precetto penale sia sempre assoluta e dotata dell'inderogabile effetto di
travolgere anche il giudicato. Recita infatti l'ultimo comma dell'art. 30: "Quando
in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata
sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti
penali".
A seguire la tesi della Corte di appello di Genova, invece, si produrrebbero
le seguenti irragionevoli conseguenze: mentre in caso di abolizione dell'art.
341 c.p. la condanna resterebbe eseguibile perché il fatto è pur
sempre previsto come reato (perseguibile a querela) dall'art. 594 c.p., al contrario,
in caso di dichiarazione di incostituzionalità dello stesso art. 341,
la condanna non sarebbe eseguibile in quanto la cessazione degli effetti penali
non è, dall'art. 30 citato, condizionata a nulla.
Ognuno vede come questo non abbia alcun apparente senso logico, e si determinerebbe
un'ingiustificata disparità di trattamento tra gli effetti dell'abrogazione
rispetto a quelli della dichiarazione di incostituzionalità.
Per tutto quanto sopra esposto si chiede che la Ecc.ma Corte di Cassazione voglia
annullare l'impugnato provvedimento con le conseguenze di legge.
Genova, 21 agosto 1999
Avvocato Giovanni Ricco
(*) Il suesteso ricorso è stato pubblicato con l'autorizzazione dell'estensore, l'avv. Giovanni Ricco del Foro di Genova, che si ringrazia per la collaborazione.