Tribunale
di Siena,
Ordinanza 23 maggio 2000
TRIBUNALE DI SIENA
Il tribunale di Siena, sezione penale, composto dai giudici:
dott. Giulio
Sica presidente
dott. Francesco Bagnai giudice
dott. Riccardo Guida giudice
quale giudice dell'esecuzione, ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sul ricorso promosso dall'avv. M. L. C., difensore di fiducia di G. C.
Con ricorso depositato l'11.4.2000 il predetto difensore, premesso che:
- la cancelleria
dell'esecuzione penale del tribunale di Siena, ufficio campione penale, il 23
marzo 2000 aveva chiesto al C. di pagare la somma di lire 1.260 mila per effetto
della sentenza n. 10/1999 emessa dal tribunale di Siena all'esito del processo
che vedeva il C. imputato dei reati di cui agli artt. 341, 651 CP, conclusosi
con il patteggiamento della pena nella misura di 18 giorni di reclusione, pena
determinata sul presupposto della sussistenza del delitto d'oltraggio punito
con la reclusione, essendo la contravvenzione di cui all'art. 651 CP punita
con pena alternativa;
- l'art. 18 I comma L. n. 205/1999 ha abrogato l'oltraggio;
chiedeva la revoca del menzionato ordine di pagamento e che fosse nuovamente determinata la pena in relazione alla sola sanzione prevista dall'art. 651 CP;
il presidente del collegio fissava l'udienza in camera di consiglio ex art. 666 CPP.
All'esito del
procedimento, ritiene il tribunale che le esaminate istanze non meritino accoglimento
in forza dei seguenti motivi.
Com'è noto, l'art. 18 I comma della legge 25 giugno 1999, n. 205, entrato
in vigore il 13.7.1999, ha abrogato l'art. 341 CP.
Fin dalle prime pronunce e dai primi commenti, successivi all'innovazione normativa,
si sono manifestati due diversi orientamenti.
Da una parte, si è sostenuto che si è verificata una vera e propria
abolitio criminis, nel senso che la condotta di chi offenda l'onore o
il prestigio del pubblico ufficiale, prima sanzionata penalmente, non sarebbe
più rilevante sotto il profilo penale.
In altri termini, la fattispecie dovrebbe essere disciplinata dall'art. 2 II
comma CP .
Recentemente la tesi dell'abolitio criminis è stata autorevolmente
sostenuta dalla cassazione (sez. VI penale,
sent. n. 518 del 28.1.2000) che ha annullato senza rinvio l'ordinanza 2.8.1999
con cui il giudice dell'esecuzione del tribunale di Trani aveva respinto l'istanza
di revoca di una sentenza di condanna per il delitto di cui all'art. 341 CP.
Afferma la cassazione che l'art. 2 III comma CP non disciplina l'ipotesi in
cui leggi, tuttora in vigore, coeve a quella abrogata, identifichino come reato
una condotta che integrava la violazione della norma caducata, a tale diversa
conclusione (fatta propria dal giudice di Trani) opponendosi, in primo luogo,
difficoltà di ordine letterale, giacché il citato terzo comma
parla di "leggi posteriori (e non coeve)".
A giudizio del tribunale siffatta ipotizzata "difficoltà testuale"
non è insuperabile poiché, proprio permanendo sul piano esegetico,
è chiaro che queste parole danno luogo ad una formula espressiva generica.
Invero, l'uso da parte del legislatore del plurale - "le [leggi] posteriori"
- anziché della formula impiegata nel II comma - "legge posteriore"
- ovvero di un'altra definizione univoca (per esempio: "legge entrata in
vigore successivamente"), autorizza l'interprete ad attribuire alla norma
un significato diverso da quello avallato dalla suprema corte.
Questa disposizione può essere intesa nel senso che si verifica un fenomeno
di "successioni di leggi nel tempo" (art. 2 III comma CP) non solo
quando una "legge successiva" disciplina diversamente, rispetto alla
norma preesistente, una fattispecie di reato, senza abrogarla, ma anche quando,
per effetto dell'entrata in vigore di una norma che abroghi un illecito penale,
il fatto storico sia inquadrabile in un'altra norma tuttora esistente.
Tale diversa interpretazione non presta il fianco - come invece paventato dalla
cassazione - a dubbi di legittimità costituzione ovvero al pericolo di
un contrasto "coi principi generali".
Dal primo punto di vista, è indubitabile che il meccanismo descritto
dal III comma, così come appena interpretato, non ha alcuna relazione
con il divieto, sancito dall'art. 25 II comma Cost., di applicazione retroattiva
della norma incriminatrice, poiché non si è in presenza di una
"legge entrata in vigore dopo la commissione del fatto", bensì
di una norma "preesistente" che faceva parte dell'ordinamento allorché
si è verificata l'abrogazione di altra disposizione, già applicabile
al fatto.
In secondo luogo, non è condivisibile l'assunto della suprema corte in
base al quale "la riespansione delle leggi coeve avverrebbe ...in contrasto
con l'essenza del fenomeno abrogativo, desumibile dai principi generali della
dinamica delle fonti.".
Se si ritiene, come giustamente afferma la cassazione, che, durante la vigenza
della norma, poi abrogata con effetto ex nunc, "il raggio d'azione"
della norma sopravvissuta sia "compresso", non è ravvisabile
alcun contrasto coi principi generali se, per effetto dell'abrogazione, sia
applicabile la norma in precedenza "compressa", a meno che, ovviamente,
nel frattempo non sia intervenuta una sentenza irrevocabile.
L'opinione della suprema corte postula che la norma, poi abrogata, anziché
limitarsi a comprimere l'efficacia della legge ad essa coeva, durante la propria
vigenza abbia la forza di caducare, ossia di abrogare, la norma contemporanea,
tesi, quest'ultima, davvero in urto rispetto ai principi generali della dinamica
delle fonti.
Inoltre, non persuade l'ulteriore argomento sviluppato dalla cassazione, secondo
cui, ammettendosi l'applicabilità al fatto pregresso della legge coeva
a quella abrogata, quest'ultima legge (coeva) risulterebbe applicata in sede
di cognizione senza che sia stata esercitata l'azione penale, in contrasto con
l'art. 112 Cost., "prima ancora che col sistema processuale nel suo complesso".
A ben vedere questa considerazione non riguarda il profilo sostanziale connesso
alla tematica della "successione di leggi penali" ma si colloca sul
piano processuale, sicché l'inconveniente prospettato dalla cassazione
è agevolmente superabile in quello specifico ambito, ad opera del PM,
mediante l'attento uso degli strumenti a sua disposizione, da individuare a
seconda della fase processuale in atto (così, per esempio: se è
già in corso il dibattimento, l'accusa deve provvedere - ove sia possibile
vista la procedibilità a querela di parte del delitto d'ingiuria - ad
una modifica dell'imputazione ai sensi dell'art. 516 CPP), senza che si incorra
in alcuna forzatura del principio costituzionale sull'esercizio dell'azione
penale e, tanto meno, dei delicati meccanismi della dinamica processuale.
Prendendo le mosse da queste considerazioni, a giudizio del collegio è
condivisibile il prospettato secondo orientamento giurisprudenziale, in base
al quale, per effetto della citata modificazione normativa, la condotta già
punita a titolo d'oltraggio non è stata depenalizzata ma deve essere
inquadrata nella fattispecie dell'ingiuria (art. 594 CP) .
Ciò significa che il novum normativo dà luogo ad un fenomeno
di successione di leggi penali disciplinato dall'art. 2 III comma CP.
Questa opinione riconduce nell'ambito del concorso apparente di norme il rapporto
esistente tra le due disposizioni penali.
Difatti, l'oltraggio costituisce un'ipotesi speciale d'ingiuria caratterizzata
dal ruolo pubblico della persona offesa ; pertanto, abrogata la norma speciale
(art. 341 CP), il medesimo fatto è astrattamente sussumibile alla fattispecie
generale (art. 594 CP) .
Da questa opzione interpretativa scaturisce l'effetto, applicabile al caso in
esame, della irrevocabilità della sentenza che abbia pronunciato sull'oltraggio
(art. 2 III comma CP).
P.Q.M.
Il tribunale
di Siena, quale giudice dell'esecuzione, rigetta le esaminate istanze.
Si comunichi.
Siena, 23.5.2000
Il giudice est.
Il presidente
(dott. Riccardo Guida) (dott. Giulio Sica)