Corte
di Cassazione, Sez. VI Penale
Sentenza 28 gennaio - 10 febbraio 2000, n. 518
REPUBBLICA
ITALIANA
In nome del popolo italiano
LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
VI Sezione penale
composta dagli
Ill.mi signori
dott. Luciano Di Noto - Presidente
" Giovanni De Roberto - Consigliere
" Bruno Oliva - "
" Antonio Stefano Agrò - "
" Arturo Cortese - "
ha pronunziato la seguente
SENTENZA
sul ricorso promosso
da Fausto Marini contro l'ordinanza 2 agosto 1999 del giudice dell'esecuzione
del Tribunale di Trani.
Udita la relazione del Consigliere Antonio Stefano Agrò
Letta la requisitoria del P.G. con cui si chiede l'annullamento senza rinvio
dell'ordinanza e la revoca della sentenza 6 novembre 1997 dei Pretore di Trani.
Ritenuto in fatto e in diritto
1. Fausto Marini ricorre contro l'ordinanza in epigrafe con cui 11 giudice dell'esecuzione ha respinto l'istanza di revoca della sentenza 6 novembre 1997 del Pretora di Trani, sentenza con 1a quale era stato condannato per il delitto di cui all'art. 341 c.p.
2. Il giudice dell'esecuzione
ha motivato il provvedimento in base, essenzialmente a due argomenti:
esiste un rapporto di specialità reciproca tra l'art. 341 e l'art. 594
del codice penale "sicché ove l'oltraggio si concreti nella lesione
dell'onore della parte offesa e non solo del suo prestigio di pubblico ufficiale,
il fatto storico giudicato, originariamente rubricato sub specie art. 341 c.p.,
contiene tutti gli elementi della fattispecie generale di cui all'art. 594 c.p.";
qualora una norma speciale venga abrogata ed il caso storico è astrattamente
riconducibile nella norma generale più favorevole già esistente
(e persistente), si ha un caso di successione di leggi nel tempo cui è
applicabile l'art. 2 comma terzo del codice penale e perciò, ove sia
stata pronunciata sentenza passata in giudicato questa non è suscettibile
di revoca.
3. Ritiene la Corte di muovere dal secondo assunto e rilevare, che secondo questa interpretazione, l'ipotesi di cui al terzo comma dell'art. 2 del codice penale ricorrerebbe senz'altro quando leggi, coeve a quella abrogata e tuttora in vigore, identifichino come reato (sanzionandola in modo meno grave) una delle condotte che integrava la violazione della norma caducata. Tale applicabilità deriverebbe dal fatto che (oltre che ai casi futuri) anche alla condotta consumatasi nel vigore della legge abrogata, ma non ancora definitivamente giudicata, si devono applicare a seguito dell'abrogazione le menzionate leggi coeve, con la conseguenza che i giudicati già formatisi, su comportamenti dello stesso genere sono irrevocabili.
4. A tale conclusione si oppongono
però e in primo luogo delle difficoltà di ordine letterale.
Il terzo comma in esame parla infatti di "leggi posteriori (e non coeve)
che siano diverse da quelle del tempo in cui fu commesso il reato (e non le
medesime). Tanto che, stando ad un esame puramente esegetico, si dovrebbe concludere
che se una legge posteriore al fatto dispone l'abrogazione della norma incriminatrice
specificamente applicabile alla condotta, in nessun modo si ha, per quel caso,
l'espasione dalle leggi coeve, che pure sarebbero state applicabili ove la legge
abrogata non fosse esistita, ed anzi nessuno può essere più punito
per il fatto posto in essere in quel tempo e se vi è già stata
condanna ne cessane l'esecuzione s gli effetti penali (secondo comma dell'art.
2).
5. Ma ad ammettere invece
(e aldilà del dato letterale) l'applicabilità per il fatto pregresso
delle leggi coeve a quella abrogata, applicabilità che deriverebbe solo
da quella teorica riconducibilità del fatto alla legge già esistente,
si dovrebbe anche ammettere che il terzo comma dell'art. 2 (ove tale risultato
fosse fatto derivare dal suo disposto) si pone in contrasto con i principi generali
o suscita dubbi di legittimità costituzionale.
Dovrebbe in primo luogo, rilevarsi che una legge, inapplicabile al fatto all'epoca
del suo venire in essere, e applicabile successivamente al fatto stesso, con
evidente compromissione del principio di irretroattività, almeno nella
formulazione datane dall'art. 25 della Costituzione.
La riespansione delle leggi coeve avverrebbe, comunque, in contrasto con l'essenza
del fenomeno abrogativo, desumibile dai principi generali della dinamica delle
fonti. Infatti l'abrogazione consiste in nuova valutazione del legislatore della
fattispecie e quindi in una nuova disciplina del caso, ritenuta oggi più
opportuna. L'abrogazione dunque di per sé (e salvo un'espressa previsione
contraria) opera ex nunc, circoscrivendo nel tempo la vigenza della norma abrogata
e in ogni modo non ne disconosce il valido operare per il tempo in cui era applicabile.
Talché, restando ancora valida e vigente (sebbene abrogata) la norma
precedente per il tempo anteriore all'abrogazione, l'effetto naturale è
che le norme sopravvissute, per così dire "compresse" dalla
legge non più operante, restano tali per quel medesimo tempo ed è
perciò fuori del sistema considerarne ampliato - oggi per allora - il
raggio di azione, quale effetto di questa forma di caducazione. Del resto non
va trascurato che la Corte Costituzionale, anche nella sentenza n. 148 del 1983,
che in materia è quella più possibilista, ha escluso che la stessa
dichiarazione di illegittimità costituzionale (che pure ha un effetto
invalidante ed opera quindi ex tunc) in materia penale possa produrre
fenomeni espansivi per i fatti
pregressi.
Deve poi aggiungersi che la norma penale coeva risulterebbe applicata, in sede
di cognizione, senza che per essa sia stata esercitata l'azione penale e qui
si verrebbe ad urtare con l'art. 112 della Costituzione, prima ancora che col
sistema processuale nel suo complesso. Non bisogna confondere, al riguardo,
il potere di qualificazione giuridica del fatto affidato al giudice da quello
di identificazione della condotta in una fattispecie criminosa ulteriore e diversa
da quella in cui era state originariamente (ed esattamente) collocata. Cosa,
quest'ultima, che avverrebbe anche in sede esecutiva sia, indirettamente, ai
fini dell'affermazione della persistenza del giudicato, sia direttamente nei
casi in cui la pena inflitta in forza della legge abrogata risulta illegale
rispetto al trattamento sanzionatorio più favorevole (cfr. Corte Cost.
n. 96 del 1996).
6. Sotto l'aspetto positivo,
per poter affermare che ricorra l'ipotesi del terzo comma dell'art. 2, occorre
allora che sia la stessa legge abrogante a porre una continuità nella
tutela dei valori già perseguiti dalla legge abrogata. E, se ciò
accade, in realtà non ci si trova dinanzi ad una vera e propria abrogazione
della norma penale, ma in una modificazione della stessa che non la rende irriconoscibile.
E' insomma la stessa norma penale (sebbene espressa da disposizioni diverse)
che continua ad essere in vigore per il caso progresso non giudicato, sebbene
il trattamento da infliggersi sia più favorevole per il reo. E nello
stesso senso è sempre la vigenza attuale nel sistema della stessa norma
penale quella cha fa valere il giudice dell'esecuzione quando stabilisce l'intangibilità
del giudicato.
E' singolare, sotto questo profilo, che il giudice dell'esecuzione di Trani
non si avveda di richiamare sentenze di questa Corte che si informano proprio
al principio della continuità del tipo di illecito. Infatti la sentenza
11 ottobre dal 1991, relativa all'abrogazione dell'art. 324 c.p., demandava
al giudice dell'esecuzione di stabilire quanta parte di questa norma fosse sopravvissuta
nell'introdotto art. 323 del medesimo codice, impedendogli di pronunziare la
revoca della sentenza, per quelle fattispecie che a seguito della riforma erano
rette dalla precedente norma, parzialmente riprodotta nella nuova disposizione.
Analogamente, sebbene in una prospettiva opposta, le sentenze 18 marzo e 18
giugno 1987, aldilà della terminologia adottata, negavano un'applicazione
espansiva del reato di lesioni gravissime a seguito dell'abrogazione del reato
di procurata impotenza alla procreazione, così mostrando che l'abrogazione
non rende operative di per sé il disposto dell'art. 2 comma terzo del
codice penale.
7. Posto dunque che in forza
dell'abrogazione non si producono per fatti pregressi fenomeni automatici di
espansione di norme incriminatrici, qualunque rapporto vi fosse tra il disposto
abrogato e quello o quelli sopravvissuti, l'indagine che si deve compiere in
questi casi riguarda la legge abrogante per stabilire se in esse si affermi
o meno una continuità di illecito, anche, eventualmente, attraverso la
valorizzazione ed il mantenimento della rilevanza penale di quei comportamenti
già astrattamente sussumibili in altre fattispecie criminose.
Nella specie occorre riferirsi alle legge
25 giugno 1999, n. 205, per stabilire se essa nell'abrogare espressamente
all'art. 18 l'art. 341 c.p., crei altresì una continuità della
norma abrogata con la perdurante vigenza degli artt. 594 e 612 c.p. laddove
eventualmente (anche se sovente) la prima reprimeva anche l'ingiuria o le minacce
in danno del cittadino pubblico ufficiale.
Ed a questo proposito non può non ricordarsi che, già con una
sentenza pronunziata il giorno stesso dell'entrata in vigore della legge n.
205 (VI 13.7.99 Adamoli), la Corte
negava che fosse applicabile, ai procedimenti che recavano un'imputazione di
oltraggio, la norma transitoria di cui all'art. 19 (quella che rimette in termini
per sporgere querela) nel caso in cui il fatto poteva astrattamente inquadrarsi
nei reati di ingiuria o di minacce, osservando come la norma transitoria è
espressamente riferita "solo ai reati perseguibili a querela ai sensi dalle
disposizioni della presente legge o dei decreti legislativi da essa previsti"
e come perciò riguardi solo i delitti di furto ed ulteriori eventuali
reati che i decreti legislativi renderanno punibili a querela.
Solo per queste ipotesi criminose, dunque, si è posto un problema di
continuità punitiva, laddove, per i reati "coperti" dall'oltraggio,
l'eterogeneità dei beni protetti (prestigio della pubblica amministrazione
e situazioni individuali) e l'abbandono della tutela del primo hanno evidentemente
sconsigliato di far sopravvivere la vicenda penale in termini personalistici.
Conclusione, del reato, in linea con la considerazione sociale del delitto in
esame, caratterizzata da una lunga disputa intorno alla sua legittimità
costituzionale, che ha visto sempre le prevalenza del valore della tutela dalla
pubblica amministrazione su quella accordata alla persona fisica titolare della
carica, prevalenza che anzi è stata sempre assunta quale elemento giustificativo
dello stesso esistere dell'art. 341.
Tanto che lo Corte Costituzionale (sent. n. 51 del 1980) osservava che "se
il pubblico ufficiale, privato del potere di querela, si trova in una situazione
di disparità rispetto a quella dei comuni cittadini, tale disparità
è giustificata dalla protezione di un interesse che supera quello della
persona fisica". Sul versante opposto la condotta dell'oltraggio supponeva
che l'offesa fosse comunque recata a causa o nell'esercizio delle funzioni del
pubblico ufficiale, sicché anche per l'agente doveva evidenziarsi la
volontà di ledere il prestigio dell'amministrazione, ancor prima dl quello
del suo rappresentante.
8. Queste notazioni danno altresì conto (quale corollario) dell'irrilevanza di eventuali querele che il pubblico ufficiale abbia proposto ante litteram. L'abrogazione dell'art. 341 c.p. del codice penale non solo impone di revocare i giudicati che in base ad esso si siano formati, ma comporta anche la non perseguibilità di quei fatti che, punibili all'epoca della loro commissione come oltraggio, potessero (teoricamente) inquadrarsi nelle fattispecie di ingiurie o di minacce.
9. Non resta perciò che annullare senza rinvio l'ordinanza impugnata per abolitio criminis e revocare la sentenza 6 novembre 1997 dal Pretore di Trani pronunziata nei confronti di Fausto Marini.
P.Q.M.
La Corte dl Cassazione
Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata a revoca la sentenza 6 novembre 1997 del Pretore di Trani nei confronti di Marini Fausto.
Così deciso in Roma il 28 gennaio 2000