Corte di Assise di Appello di Genova
Ordinanza 28 settembre-13 ottobre 1999 (*)

P.E.n. 15/99

CORTE DI ASSISE DI APPELLO DI GENOVA

La Corte di Assise di Appello riunita di consiglio in data 28/09/1999 con la seguente composizione
Dott. Bruno Noli - PRESIDENTE
Dott. Renato Pastorino - Consigliere
Sig. Steidler Edoardo - Giudice Popolare
Sig.ra Baracchini Roberta - Giudice Popolare
Sig.Baffetti Lucio - Giudice Popolare
Sig.ra Saba Bruna - Giudice Popolare
Sig.ra Rubino Antonella - Giudice Popolare
Sig. Avazino Mario Angelo - Giudice Popolare
ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel provvedimento di esecuzione promosso da XXXXXXXX con ricorso del 22/07/1999
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XXXXXX, con istanza del 22/7/1999, chiedeva che gli venisse rideterminata la pena con riferimento al procedimento penale n° 265/88 P.E., a seguito della abrogazione dell'art. 341 c.p. Il procuratore Generale, infatti, con due successivi provvedimenti del 15/2 e del 30/ 10/ 1996, recanti il n° 265/88 P.E., aveva cumulato la pena relativa a quattro sentenze; tre delle quali recanti condanna per il reato di oltraggio a P.U.:
- Pretura Cuneo 27/10/1992, irrevocabile il 12/12/1992: pena irrogata = 6 mesi di reclusione;
- Corte di Appello di Genova 7/12/1994 (in parziale riforma della sentenza del Pretore di Massa del 26/2/1991) irrevocabile il 22/1/1995: pena irrogata = 2 mesi di reclusione;
- Pretore di Spoleto 3/7/1996, irrevocabile il 17/9/1996: pena irrogata = 4 mesi di reclusione.
La tesi della difesa, ribadita durante l'udienza in camera di consiglio e appoggiata dalla produzione di alcuni provvedimenti giudiziari (per la verità del tutto immotivati), si basa sul letterale dettato dell'art. 18, 1° comma, e 25/6/1999 n° 205 che ha abrogato vari articoli del codice penale, tra i quali il 341, che prevedeva e puniva il reato di oltraggio ad un pubblico ufficiale.
La semplice (e semplicistica) deduzione è che ci si trovi in presenza di una secca "abolitio criminis" quale è prevista dall'art. 2, 2° comma , c.p., che recita: "Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali".
Il principio qui stabilito sta alla base di una norma relativa al processo di esecuzione, l'art. 673 c.p.p., in base al quale "nel caso di abrogazione o di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice , il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotti i provvedimenti conseguenti". Così stando le cose, se fosse accoglibile la tesi difensiva, questa Corte, come giudice dell'esecuzione, dovrebbe revocare le tre sentenze di condanna che sono state indicate e il XXXXXXX vedrebbe eliminato un anno di reclusione dal cumulo delle pene.
Il Procuratore Generale ha fatto pervenire un parere scritto, pienamente confermato in udienza, nel quale nega che il caso in esame corrisponda a quello dell'abolitio criminis. La stessa condotta che veniva prima punita ai sensi dell'art. 341 c.p. rimane sempre punibile, sia pure in base a norme diverse, costituendo, comunque, ingiuria (art. 594 c.p.) o minaccia (art.6l2 c.p.). In conseguenza non entra in gioco il 2° comma dell'art. 2 c.p., relativo al caso della secca abrogazione, ma il 3° comma, il quale riguarda la successione di leggi nel tempo e recita: "Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. Nella fattispecie, dunque, secondo il P.G., i fatti reato posti in essere dal XXXXXX non sono oggi privi di sanzione penale, ma regolati da norme più favorevoli che si applicherebbero qualora il giudizio fosse ancora in corso: essendo invece già state pronunciate dalle sentenze irrevocabili, esse rimangono intangibili a norma di legge.
La tesi del P.G. è, secondo questa Corte, interamente da condividere e rende inutile l'esame delle istanze subordinate.
L'abrogato art. 341 c.p. puniva, al 1° comma "chiunque offende 1'onore o il prestigio di un pubblico ufficiale" e aggravava la sanzione, al 4° comma, "quando il fatto è commesso con violenza o minaccia". Una volta sparita tale norma, la condotta di chi offende 1'onore e il prestigio di un pubblico ufficiale rimane, palesemente, assorbita in quella prevista del reato di ingiuria, di cui all'art. 594 c.p., secondo cui è punito "chiunque offende l'onore o il decoro di una persona". Se così non fosse, si dovrebbe sostenere l'assurda tesi che, d'ora in poi, mentre chi offende il semplice cittadino commette il reato di ingiuria, chiunque può offendere tranquillamente il pubblico ufficiale senza poter essere accusato di alcun reato. Se poi l'oltraggio veniva a consistere (ipotesi aggravata) in una violenza o in una minaccia, in base allo stesso elementare ragionamento, la condotta sarà assorbita nella figura delittuosa delle percosse (art. 581 c.p.) o in quella della minaccia (art. 612 c.p.p.). Si tratterà, dunque, sempre di casi in cui la stessa condotta delittuosa era prima prevista e punita da una norma più severa e oggi rifluisce nell'alveo di norme meno rigide, ma continuando a costituire reato. Ci sarà forse anche il caso, e qui la Corte si distacca forse un poco dall'impianto teorico del P.G., in cui 1'oltraggio, in concreto, è così connesso con la veste di pubblico ufficiale da non avere un intrinseco valore ingiurioso, per l'individuo. E' cioè possibile che eliminato l'oltraggio (e sempre che non vi sia violenza o minaccia), la condotta posta in essere dall'agente non possa essere sussunta sotto nessun'altra figura di reato. In questo caso si, ad avviso della Corte entreranno in gioco l'art. 2, 2° comma, c.p. e l'art. ` 673 c.p.p. e il giudice dell'esecuzione dovrà revocare la sentenza di condanna. Il punto è, e qui sta l'errore della difesa e di quei giudici che ne hanno condiviso la tesi, che non si può far riferimento a ; delle figure delittuose astratte o, peggio, a dei numeri di articoli. L'art. 2 del codice penale, norme cardine della materia di cui ci stiamo occupando, usa al 1° ed al 2° comma la parola "fatto"; e anche al 3° comma quando parla di "reato", si riferisce, palesemente, non alla figura astratta (oltraggio a P.U.) e all'articolo (341 c.p.), ma sempre al fatto, tanto che usa l'espressione "tempo in cui fu commesso il reato".
L'interprete, quindi, deve sempre fare necessariamente riferimento al "fatto-reato" cioè alla condotta concreta posta in essere dall'agente; così facendo si potrà constatare se la condotta, per la quale intervenne a suo tempo la condanna ex art. 341 c.p., costituisce oggi ingiuria o minaccia o percosse o (a volte ) niente.
Cosi, ad esempio, ha pacificamente statuito la Suprema Corte in tema di "interesse privato in atti di ufficio", previsto dall'abrogato art. 324 c.p., per il quale si ritiene, senza discussione, che non vi sia stata abolitio criminis, ma riflusso da valutarsi secondo il caso concreto, nella figura delittuosa dell'abuso di ufficio, di cui all'art. 323 c.p.: con piena applicazione del principio della successione di leggi nel tempo.
Né certo osta a tale ragionamento il potere, che deriva al giudice dell'esecuzione, di rivisitare la fattispecie e decidere sull'esistenza degli estremi di un reato: cosa normalmente devoluta al giudice della cognizione. Sotto questo profilo, i poteri del giudice dell'esecuzione sono stati molto estesi nel nuovo sistema processuale e anche di recente. Si pensi alle conseguenze del referendum che ha depenalizzato la detenzione di sostanza stupefacente per uso personale: al giudice dell'esecuzione, investito ex art. 673 c.p.p., è stato demandato di accertare e stabilire se un reato di detenzione, per il quale vi era stata condanna definitiva in sede di cognizione, fosse stato commesso per uso personale o a fini di spaccio.
Tanto stabilito, si tratta ora di esaminare le tre fattispecie concrete per le quali il XXXXXX ha riportato condanna. Nel primo caso, egli fu condannato dal Pretore di Cuneo per avere strappato i gradi ad un sottufficiale della Polizia Penitenziaria. Ebbene questo è proprio uno dei casi che può stare quasi al
limite della mancanza di ingiuria, vista l'importanza che, nel caso di specie, assumono i "gradi" cioè proprio l'insegna del pubblico ufficiale. E, tuttavia, ritiene la Corte che, con quell'atto, il XXXXX abbia ugualmente offeso l'onore e il decoro di una persona, come se avesse strappato il cappello ad un alpino, durante una sfilata, o un distintivo ad un mutilato o la medaglia all'appena nominato cavaliere del lavoro. La sua condotta concreta, pertanto rivestiva i caratteri dell'ingiuria ancor oggi penalmente sanzionata.
Non dà certo luogo a dubbi il secondo fatto, per il quale il XXXXX è stato condannato dalla Corte di Appello di Genova. In quel caso, infatti, non solo accusò gli agenti della Polizia Penitenziaria di compiere atti discriminatori (e qui si potrebbe discutere), ma rivolse loro i seguenti epiteti: "Pezzo di merda, mongoloide, figlio di puttana e stronzo". E' evidente, quindi, che, ben a maggior ragione anche in questo caso, il condannato mise in atto la condotta dell'ingiuria.
Abbastanza chiara appare anche l'ultima vicenda, per la quale è intervenuta la condanna del Pretore di Spoleto. Il XXXXXX, infatti, allora disse ad un agente della Polizia Penitenziaria e ad un'infermiera: "Razzisti, questa medicazione me la infilo nel c...." e all'agente, in particolare: "Tu non ti devi presentare più davanti alla mia cella perché te lo faccio vedere io". In questo caso, se è evidente il carattere ingiurioso della prima frase, non lo è meno quello minaccioso della seconda. I fatti addebitati in via definitiva al condannato, dunque, ricadono ancora oggi sotto sanzione penale, in relazione ai delitti di cui agli artt. 594 e 612 c.p.
Dall'esame concreto della condotta del XXXXX è, quindi, emerso che esse sono ancor oggi fatti reato, punibili con norme più favorevoli al reo, le quali, però, non hanno effetto a causa del giudicato. Giudicato che rimane fermo in tutti e tre i casi, con il suo carico complessivo di un anno di reclusione. La domanda del XXXXX, in conseguenza, non può che essere disattesa.

P. Q. M.

La Corte di Assise di Appello
- sentito le parti in udienza;
- a scioglimento della riserva ivi assunta;
Respinge
l'istanza presentata da XXXXXXX in data 22/7/1999.
Si comunichi e si notifichi come per legge.
Genova, 28/9/1999
Il Consigliere estensore
Dr. R. Pastorino
Il Presidente
Dr. B. Noli
Depositato in Cancelleria
Genova, 13/10/99

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