Motivi della decisione
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: "se permanga la responsabilità da reato dell'ente in riferimento ai fatti criminosi di falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione dopo la formale abrogazione dell'art. 2624 c.c., comma 2, il cui contenuto di incriminazione è stato riscritto da altra disposizione del decreto legislativo di abrogazione". 2. Il ricorso, come dianzi detto, investe le vicende normative della fattispecie che punisce le falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione, disposizione qui interessata non già per il suo rilievo penale, bensì per l'idoneità a fondare la responsabilità cd. "amministrativa" dell'ente nel cui interesse ha agito il soggetto attivo del reato, secondo la previsione introdotta nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Il quesito si presenta apparentemente complesso a cagione della tormentata vicenda genetica che ha (sinora) contrassegnato, nel nostro ordinamento, la materia della revisione contabile.
Pertanto, in via preliminare, giova alla chiarezza un sommario ragguaglio su di essa.
2.1. Le falsità incidenti sulle comunicazioni e relazioni delle società di revisione furono introdotte nel nostro ordinamento penale dal D.P.R. 31 marzo 1975, n. 136, art. 14 (norma diretta a garantire la fedele certificazione obbligatoria di bilancio). Il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, T.U.F.) riformulò il reato mediante l'art. 175. Il riordino normativo dei reati societari, portato dal D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, comportò sia la riformulazione dell'art. 2624 cod. civ. sia (art. 3) la loro introduzione all'interno del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-ter (lettere f e g), e cioè nel contesto del catalogo dei cd. "reati-presupposto", fondativi della responsabilità degli enti conseguente a reato (ovviamente alle condizioni dettate dal D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 5, 6 e 7 e, dunque, ad opera di persona rivestita delle qualifiche ivi descritte ed al fine di perseguire interessi e vantaggi dell'organismo).
2.2. La L. 28 dicembre 2005, n. 262 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari) riportò alcune disposizioni relative ai revisori contabili in seno al T.U.F., con la formulazione dell'art. 174-bis, pertinente alle società quotate in borsa (o a società da queste controllate ed a società che emettono strumenti finanziari diffusi tra il pubblico in misura rilevante) creando, in tal modo, un doppio binario repressivo, rispetto all'art. 2624, norma destinata a reprimere il solo mendacio reso nella revisione contabile relativa a società comuni ed articolata in reato contravvenzionale (di pericolo) ed in fattispecie delittuosa, caratterizzata dalla causazione di danno patrimoniale per i destinatari del messaggio infedele dei revisori (precetti tra loro differenziati anche relativamente al momento soggettivo).
2.3. A siffatto quadro è succeduto il D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 39, che, all'art. 27, commi 1, 2 e 4, ha enunciato una nuova versione della fattispecie, abrogando (art. 37, comma 34) l'art. 2624 cod. civ., ma di cui ha riproposto il contenuto anche nella sua duplice articolazione di ipotesi contravvenzionale e delittuosa (rilevandosi diversità nell'identificazione del soggetto attivo, come sarà meglio indicato in seguito) ed ha abrogato anche (art. 40, comma 21) l'art. 174-bis T.U.F. pur esso sostituito dal nuovo art. 27, che ora (comma 3) presenta il reato quale ipotesi aggravata del paradigma precettivo comune a tutte le società oggetto di revisione, in ragione della tipologia della società oggetto di revisione, qui identificata come "ente di interesse pubblico" (riproponendo la medesima previsione sanzionatoria dell'abrogato art. 174-bis).
3. Il criterio di imputazione, che permette l'addebito della condotta della persona fisica all'organismo, nel cui interesse/vantaggio questa ha agito, suppone la commissione di illecito (non necessariamente a rilievo penale, cfr. per es. D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-sexies che prevede - secondo autorevole dottrina - un'ulteriore responsabilità, modulata su quella discendente da reato, conseguente alla commissione non già di reato, bensì di violazione amministrativa proprio della disciplina sugli abusi di informazioni privilegiate e sulla manipolazione) nell'ambito di ipotesi tassativamente previste dal legislatore (ed elencate dalle previsioni della Sezione 3^ del Capo I del D.Lgs. n. 231 del 2001), secondo una cernita che rinviene la sua filigrana nelle direttive delle convenzioni internazionali e che si articola in un quadro contrassegnato dal principio di legalità (come recita la rubrica del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 2). Principio che, pertanto, coinvolge, per il tramite di una legge, non soltanto la fattispecie costitutiva dell'illecito (e le sanzioni per essa previste), ma anche il collegamento tra la condotta della persona fisica e la speciale responsabilità para-penale dell'ente.
4. Sinora l'esperienza normativa ha favorito nel nostro ordinamento l'espansione della tipologia degli illeciti forieri della responsabilità amministrativa degli enti ma, per la prima volta, proprio con il D.Lgs. n. 39 del 2010, essa ha conosciuto l'abrogazione di una di queste fattispecie, senza che il legislatore abbia voluto intervenire direttamente sul catalogo, fonte della responsabilità medesima, cioè, il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25- ter. Opzione che contraddice anche la legislazione sulle violazioni penali a sfondo economico, ove evidente è apparsa, sino ad oggi, la volontà del legislatore di accompagnare la risposta prettamente penalistica, a quella speciale, nei confronti dell'organismo che si ritiene abbia tratto vantaggio. Il D.Lgs. n. 39 del 2010 ha, quindi, incrinato l'omogeneità del complessivo disegno normativo, con un mutamento del tratto repressivo, anche se, in tema di tutela del risparmio, la pur recente L. n. 262 del 2005 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari) ha apprestato un inasprimento sanzionatorio. Tanto giustifica l'incertezza dell'interprete davanti al segno di forte discontinuità (non compiutamente palesato, mancando - come si è detto - un esplicito intervento sul quadro del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25- ter) relativamente alla responsabilità amministrativa della società di revisione (permanendo quella penale a carico dei suoi esponenti).
5. Ma ogni perplessità viene fugata quando dal quadro sistematico si scende alla diretta lettura della novella. Nel rispetto del principio di legalità a cui si è già fatto cenno e seguendo l'arresto di questa Corte - per cui "qualora il reato commesso nell'interesse o a vantaggio di un ente non rientri tra quelli che fondano la responsabilità ex D.Lgs. n. 231 del 2001 di quest'ultimo, ma la relativa fattispecie ne contenga o assorba altra che invece è inserita nei cataloghi dei reati presupposto della stessa, non è possibile procedere alla scomposizione del reato complesso o di quello assorbente al fine di configurare la responsabilità della persona giuridica" (Sez. 2, n. 41488 del 29/09/2009, Rimoldi, Rv.
245001) - non si offrono possibilità interpretative incerte.
In particolare, non vi è spazio per appellarsi ad ipotesi di integrazione normativa della fattispecie, a mezzo di un possibile rinvio cd. "mobile", poichè - al di là di qualsiasi quesito coinvolgente questa delicata materia - la volontà legislativa risulta evidente, senza postulare ulteriori apporti ermeneutici, quando sia inquadrata nella complessiva operazione riformatrice disposta dal legislatore mediante il D.Lgs. n. 39 del 2010. 6. A ben vedere la presente vicenda consente un percorso argomentativo del tutto semplice e lineare per giungere alla soluzione del quesito giuridico. E' sufficiente, infatti, focalizzare l'attenzione sulla effettiva contestazione mossa dal Pubblico Ministero nel procedimento in esame, per accorgersi che la norma su cui si fonda l'accusa non appartiene al novero di quelle che consentono l'applicazione della disciplina para-penale verso gli enti. Invero, la pubblica accusa, dopo una qualche oscillazione, ha puntualizzato l'addebito nella violazione dell'art. 174-bis del T.U.F., norma scelta in considerazione della peculiare natura delle comunicazioni della società Banca Italease - oggetto della revisione disposta da Deloitte & Touche - ente ammesso alla quotazione di Borsa, cioè società cd. "aperta", destinata a soggiacere alla disciplina del T.U.F..
E', pertanto, l'art. 174-bis T.U.F. il cardine che qualifica l'accusa e delimita l'ambito del giudizio, postochè il giudice deve in essa inquadrare l'esatta normativa giuridica che regola la fattispecie ascritta all'ente: anche in questa speciale procedura la contestazione dell'addebito è il referente (che espleta la stessa funzione assegnata, nel processo penale, all'art. 417 cod. proc. pen., verso la persona fisica) mediante cui impostare il sillogismo interpretativo per valutare la condotta oggetto di giudizio.
Orbene, siffatta disposizione può ritenersi del tutto estranea al meccanismo attributivo della speciale responsabilità amministrativa di cui si tratta. Infatti, la violazione dell'art. 174-bis T.U.F. è estranea al peculiare paradigma che collega l'azione della persona fisica all'ente per cui essa agisce. Pertanto, ogni richiamo che evochi l'art. 174-bis risulta incapace di fornire contenuto precettivo al proposito: come ha giustamente rilevato anche la sentenza oggetto di ricorso, è carente di sostegno giuridico ogni integrazione mediante il rinvio ad una disposizione che non è mai esistita nel quadro normativo di riferimento.
Invero, la norma non fa parte del codice civile, appartenenza richiesta dalla generale previsione di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-ter, comma 1. Inoltre, essa non è mai stata annoverata tra i cd. "reati-presupposto" idonei ad ascrivere la responsabilità dell'ente: non lo fu al momento della formulazione del testo fondamentale in materia, il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-ter, nè nel contesto del D.Lgs. n. 61 del 2002 (che, riformulando l'intera legislazione penale societaria, abbinò al rilievo penale delle violazioni proprie dei revisori anche quello amministrativo a carico degli enti deputati alla revisione), nè in epoca successiva, segnatamente quando l'art. 174-bis in esame fu introdotto dalla L. n. 262 del 2005, art. 35, che intervenne direttamente sulla disciplina in esame.
Infine, non assume alcun interesse segnalare la possibile continuità normativa tra l'art. 2624 cod. civ. e l'attuale testo, uscito dalla riforma della materia della revisione contabile, postochè la disposizione codicistica è stata espressamente abrogata e, quindi, non è più capace di riferimento ermeneutico di sorta, in funzione di integrazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-ter e di attribuzione della speciale responsabilità da reato (diverso, chiaramente, il discorso per il piano strettamente penalistico relativo alla persona fisica a cui sia riconducibile l'illecito). Per questi medesimi motivi è inefficace il tentativo (affacciato dal ricorrente) di collegare l'art. 174-bis T.U.F. alla nuova figura dettata dal D.Lgs. n. 39 del 2010, art. 27, intendendo la prima disposizione quale una circostanza aggravante della norma di nuovo conio: l'estraneità della fattispecie incriminatrice propria delle società quotate rispetto al novero di quelle attributive della responsabilità amministrativa ex delicto, sterilizza una simile opzione ermeneutica.
7. La conclusione dianzi tratta pone in luce l'indubbio alleggerimento della tutela para-penale nell'ambito della revisione contabile: sensazione che - in seno al D.Lgs. n. 39 del 2010 - rinviene conferma, per esempio, nell'omesso richiamo alla confisca "per equivalente", in relazione ai reati qui esaminati, ulteriore prova della discontinuità rispetto al tradizionale orientamento legislativo. Atteggiamento coerente con l'esplicita abrogazione della "parallela" figura dettata dall'art. 2624 cod. civ., propria della responsabilità penale, ma riformulata dal D.Lgs. n. 39 del 2010, art. 27 in termini letterali sostanzialmente uguali a quelli già utilizzati dall'abrogata figura, a dimostrazione della consapevole discrasia tra la protezione penalistica, immutata, e quella amministrativa da illecito, sottratta alla disciplina del D.Lgs. n. 231 del 2001 (sia pur senza un'espressa modifica dell'art. 25-ter del citato compendio normativo). Tanto ulteriormente giustifica l'impossibilità di introdurre, per via interpretativa, quanto il legislatore ha chiaramente inteso lasciare fuori dalla prensione punitiva del sistema dedicato alla responsabilità degli enti.
8. Il dubbio che la scelta normativa non sia frutto di negligenza o di involontaria svista del legislatore - ipotesi sottesa all'attuale ricorso ed affacciata anche dall'ordinanza di rimessione - si dissolve osservando che già la L. n. 262 del 2005 (la quale, per altra parte, arricchì il catalogo dei "reati-presupposto" mostrando interesse a questa leva punitiva) sancì l'estraneità della fattispecie dell'art. 174-bis del T.U.F. dal novero ascrittivo della speciale responsabilità di cui si tratta, e, al contempo, integrò l'ambito dei casi forieri di responsabilità ex delicto in capo all'ente (D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-ter, comma 1, lett. r), con la previsione dell'illecito, di nuovo conio, dettato dall'art 2629- bis cod. civ. (Omessa comunicazione del conflitto di interessi, ipotesi introdotta anche con qualche forzatura repressiva, essendo piuttosto problematico ipotizzare che siffatta omissione sia realizzata nell'interesse o a vantaggio della società), a dimostrazione dell'immutato interesse per la disciplina sulla responsabilità da reato degli enti.
Del resto, nel nostro sistema, non è una anomalia il diverso contenuto punitivo offerto dalla tutela propriamente penalistica e da quello "para-penalistico". Proprio nel contesto della revisione contabile è dimostrato il mancato richiamo ad opera del D.Lgs. n. 231 del 2001 delle ipotesi criminose di cui all'art. 177 (Illeciti rapporti patrimoniali con la società di revisione) e art. 178 (Compensi illegali) del T.U.F., sempre rimaste (come l'art. 174-bis) esterne all'area di questa peculiare responsabilità. Ulteriormente attesta siffatta indipendenza anche la vicenda dell'art. 2625 cod. civ. (Impedito controllo) che, pur esente da abrogazione, risulta significativamente ridimensionato, nella sua sfera d'applicazione, ad opera del D.Lgs. n. 39 del 2010, essendogli sottratta - quanto alle società "non aperte" - la materia della revisione contabile.
9. Ricercare le ragioni di siffatta opzione normativa, una volta esclusa l'ipotesi di casualità o di tratto privo di ogni ragionevolezza nella scelta del legislatore, è compito che, afferendo a scelte di politica discrezionale, non spetta al giudice di legittimità. Ma è doveroso un breve cenno anche in questa sede, per apprezzare compiutamente il portato della riforma in esame, nel suo inquadramento complessivo in seno alla disciplina della revisione contabile: è sicuramente riduttiva ed impropria la sola prospettiva che si limiti ad osservare la mera modifica della disciplina della responsabilità amministrativa da reato dell'ente, ambito troppo angusto per fugare le perplessità di irragionevolezza, evocate dall'ordinanza di rimessione.
Infatti, il senso complessivo della riforma disposta dal legislatore a mezzo del D.Lgs. n. 39 del 2010 è assai più incisivo e complesso, qualificandosi come un intervento ampio e pervasivo nel sistema della revisione contabile, risultato di un'opera protesa alla globale razionalizzazione e riordino del dato normativo.
Va subito osservato che, non si tratta di orientamento irrispettoso della volontà della Direttiva U.E. 2006/43/CE, di cui deve ritenersi attuazione (per l'espressa segnalazione del legislatore italiano), allorquando viene imposta agli Stati membri la previsione di "sanzioni effettive proporzionate e dissuasive nei confronti dei revisori legali e delle imprese di revisione contabile, qualora le revisioni legali dei conti non siano effettuate conformemente alle disposizioni di applicazione della presente direttiva" (art. 30 Direttiva cit.). Infatti, il corpus della riforma annovera espressamente sanzioni amministrative e penali, che in nessun modo possono considerarsi simboliche. Esse includono anche (in ossequio all'art. 30, comma 3, Direttiva cit.) la revoca dell'abilitazione, pena ad efficacia interdittiva, quando, invece, il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-ter fa conseguire ai reati societari "presupposto" mere sanzioni pecuniarie. Il momento repressivo è inserito in un insieme che costituisce un impianto sanzionatorio sistematicamente organico.
E' dato, allora, comprendere la ragione che ha portato all'estromissione dell'ulteriore profilo della responsabilità amministrativa degli enti, nell'ottica di una perseguita semplificazione.
Ancora, la più compiuta portata repressiva del nuovo testo si avverte nell'estensione del novero dei soggetti interessati dall'illecito: esso non coinvolge soltanto quanti appartengono alla società di revisione, ma si estende anche ai responsabili della società oggetto della revisione medesima. Inoltre, la riforma ha assicurato un presidio pubblicistico, specializzato, nel momento della sorveglianza sugli operatori, in questa delicata area di garanzia per il risparmio diffuso, avendo, da un lato, avocato (D.Lgs. n. 39 del 2010, art. 22) il controllo sui revisori contabili e sulle società che non hanno incarico di revisione su enti di interesse pubblico, al Ministero dell'Economia e delle Finanze e, d'altro canto, avendo assegnato a CONSOB il controllo sui revisori o società di revisione legale su enti di interesse pubblico.
Di significativo momento (anche definitorio) è l'unificazione della "revisione legale", intesa dall'art. 1, comma 2, lett. m) quale "revisione dei conti annuali o dei conti consolidati effettuata in conformità alle disposizioni del presente decreto legislativo", con quella già prevista, come revisione contabile, dall'art. 155 T.U.F., grazie al controllo contabile sinora imposto dal codice civile, all'art. 2477 per le società a responsabilità limitata o all'art. 2409 per le società per azioni.
L'intervento normativo ha anche variato la categoria delle società di revisione (attività dianzi riservata a quanti erano iscritti al Registro tenuto dal Ministero della giustizia, oggi abrogato e sostituito da un unico Albo presso il Ministero dell'Economia e delle Finanze) a cui si riferivano i precetti. Invero, dando esecuzione alla menzionata direttiva comunitaria, ha creato - a fianco delle società cd. "chiuse" - il novero degli enti "di interesse pubblico" (di derivazione anglosassone: public interest entities), definito dall'art. 16 a sostituzione, nell'ambito dei revisori, "delle società con azioni quotate, delle società da queste controllate e delle società che emettono strumenti finanziari diffusi tra il pubblico in misura rilevante" (come recitava l'abrogato art. 2624 cod. civ.), in vista di una più organica regolamentazione, rinvenibile nel D.Lgs. n. 39 del 2010, artt. 16-19.
Per ciò che riguarda la normativa strettamente penalistica, la riforma:
- ha espressamente abrogato il vecchio sistema punitivo (a cui si riferiva il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-ter), limitato, per le società cd. "chiuse", ai soli comportamenti di falso nell'attività di revisione e di impedito controllo da parte degli amministratori della società sottoposta a revisione, testo che ignorava le più perniciose ipotesi di analoghe violazioni afferenti a società cd.
"aperte" e punite ai sensi del T.U.F. (art. 174-bis e seguenti);
- ha riformulato i precetti per il versante penalistico, mediante il D.Lgs. n. 39 del 2010, artt. 27 e 29, seguendo - commi 1 e 2 - talora (quasi) pedissequamente il vecchio testo del codice civile (con esclusione, dunque, di una cesura di qualche rilievo ai fini della successione della legge penale);
- ha innovativamente tratteggiato il momento soggettivo dell'illecito penale, grazie al richiamo dei tratti tipici della contravvenzione prevista dal D.Lgs. n. 39 del 2010, art. 27, comma 1, così distinguendosi dall'abrogato art. 174-bis T.U.F., che ignorava sia il dolo specifico proteso ad ingiusto profitto, sia - inutile connotato - la consapevolezza della falsità della relazione/comunicazione;
- ha ridisegnato la risposta sanzionatola, prevedendo pene più alte per i delitti commessi nell'ambito della revisione degli enti di interesse pubblico, adeguandosi al metro seguito dal T.U.F. per i comportamenti commessi nella revisione delle società cd. "aperte";
- ha disposto (per il vero, con infelice formulazione) un aumento della pena fino alla metà, qualora il reato abbia cagionato danno di rilevante gravità o alla società di revisione o alla società oggetto della revisione, con esclusione della fattispecie - qui considerata - del D.Lgs. n. 39 del 2010, art. 27, che si modella quale reato di pericolo;
- ha previsto per tutte le previsioni incriminatrici aggravanti speciali. Sul piano strutturale della fattispecie, la riforma dei 2010 ha:
- individuato il soggetto attivo degli illeciti forieri della responsabilità disciplinata dal D.Lgs. n. 231 del 2001 non più nei "responsabili della revisione" e neanche nel "socio o amministratore della società di revisione" (come dettava l'abrogato art. 156, comma 1, T.U.F.), ma nella persona fisica del revisore (D.Lgs. n. 39 del 2010, art. 1, lett. l): "il revisore legale a cui è conferito l'incarico", ovvero, all'interno della società, "il responsabile dello svolgimento dell'incarico"), pertanto in colui che appone la firma in calce alla relazione (e, per adeguarsi alla nuova previsione, il D.Lgs. n. 39 del 2010, art. 8, comma 1, lett. h), impone di evidenziare in calce alla comunicazione, l'autore dell'incombente), così scostandosi dal generale paradigma "istituzionale" proprio dell'art. 25-ter rispetto alla modalità ìndividuativa fondante la responsabilità amministrativa dell'ente, paradigma stabilito in via generale dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 (lett. a e b). Parimenti, rilevante è la modalità propria delle società cd. "aperte", a cui si riferiva l'abrogato art. 174-bis T.U.F. ("I responsabili della revisione delle società con azioni quotate, delle società da queste controllate e delle società che emettono strumenti finanziari diffusi tra il pubblico in misura rilevante"), non più allineata al richiamo dell'elenco delle società soggette a revisione obbligatoria, ma mediante rinvio alla categoria "dell'ente di interesse pubblico", nozione definita dal D.Lgs. n. 39 del 2010, art. 16.
E' stato attuato, pertanto, un esteso riordino normativo per il quale non è dato percepire, nel vaglio di legittimità spettante al giudice ordinario, alcuno scompenso valutabile in termini di irragionevolezza, residuando - invece - una scelta politica, contrassegnata dalla discrezionalità, esente da possibile scrutinio in termini di legittimità. 10. Per queste ragioni la doglianza portata dall'attuale ricorso non rinviene fondamento ed esso va rigettato.
Pertanto, può essere enunciato il seguente principio di diritto:
"il D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 39, nell'abrogare e riformulare il contenuto precettivo dell'art. 174-bis T.U.F. (Falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione), non ha influenzato in alcun modo la disciplina propria della responsabilità amministrativa da reato dettata dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25- ter, poichè le relative fattispecie non sono richiamate da questo testo normativo e non possono conseguentemente costituire fondamento di siffatta responsabilità".
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.