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 Tribunale di Livorno, Sezione Penale, Sentenza 1° ottobre 2010 (dep. 31 novembre 2010)

Art. 570 c.p. Sospensione del processo penale in pendenza di riconoscimento giudiziale di paternità. Un’interessante sentenza del Tribunale di Livorno in relazione all’art. 570 c.p.

 

Il procedimento, sorto in esito ad una querela promossa nell’anno 1995, è stato sospeso in attesa della pronuncia di sentenza definitiva in ordine al riconoscimento giudiziale di paternità e definito con condanna nell’anno 2010. Non si ha notizia di precedenti sul tema.
Interessante anche la motivazione laddove censura il comportamento dell’imputato osservando come non possa ritenersi valida giustificazione “la irriducibile convinzione della mancata filiazione” in virtù della quale l’imputato “ha continuato a contestare le sentenze e le prove a fondamento delle pronunzie che hanno accertato la paternità” e laddove stigmatizza il comportamento del medesimo imputato osservando come lo stesso “continuava a non adempiere agli obblighi imposti dal vincolo, coltivando la causa giudiziaria civile con consapevole accettazione di violare la norma penale pur di vedere riconosciuta la propria infondata pretesa”.
avv. Alice Smareglia
 
 
Sentenza n. 939 del 1.10.10
Tribunale di Livorno
Sezione penale
Rito ordinario
Repubblica italiana
In nome del popolo italiano
Il Tribunale di Livorno, in composizione monocratica
dott. ssa Beatrice Dani
nell’udienza pubblica dibattimentale
del 1.10.2010
Ha pronunciato e pubblicato mediante lettura la seguente
sentenza
nei confronti di:
F.P. nato a N. il XX.XX.XX residente a XXXXXX, domicilio eletto.
Libero presente
imputato
del reato p.e p. dall’art. 570 primo e secondo comma n. 2 per essersi sottratto agli obblighi di assistenza familiare inerenti la potestà di genitore facendo mancare i mezzi di sussistenza al figlio minoreD. non contribuendo in alcun modo al suo sostentamento con la recidiva generica.
In Livorno, querela dell’11 maggio 1995.
Con l’intervento del P.M. VPO Avv. Lorenzo Stefani munito di delega n. del Procuratore della Repubblica;
M.B., nata a XXXXX il XXXXXX, domciliata presso lo studio dell’avv. Nicola La Rocca difensore della parte civile, presente;
avv. Giovanni Maggi difensore di fiducia dell’imputato presente
conclusioni delle parti
Il PM condanna alla pena di mesi 4 di reclusione ed € 400,00 di multa.
Il difensore di parte civile Voglia il tribunale di Livorno in composizione monocratica dichiarare l’imputato responsabile del reato ascrittogli e condannarlo alla pena che sarà ritenuta di giustizia nonché al risarcimento dei danni di natura e specie da quantificarsi in separata sede civile e comunque con provvisionale di €. Oltre alla refusione delle spese di costituzione di parte civile che si quantificano in € 2.080,00 oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge. Chiede che l’eventuale beneficio della sospensione condizionale della pena sia subordinato al pagamento entro un termine stabilito della provvisionale determinata ai sensi dell’art. 539 co. 2 c.p.p.
Il difensore dell’imputato assoluzione dell’imputato.
Fatto e diritto
Con decreto di citazione del 23 marzo 1996 il PM disponeva la citazione a giudizio di F.P. quale imputato del delitto di sottrazione agli obblighi di assistenza familiare nei confronti del figlio minore D. non contribuendo in alcun modo al suo sostentamento come meglio descritto nel capo di imputazione in epigrafe.
Veniva fissata l’udienza davanti al pretore di Livorno in data 2 dicembre 1996; si costituiva parte civile la querelante M.B. che aveva sporto querela in data 11 maggio 1995.
Si procedeva alla richiesta di prova tra cui la perizia ematologica per l’accertamento della paternità naturale dell’imputato nei confronti di D.B. e il pretore, risultando pendente giudizio civile per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale dell’odierno imputato, con ordinanza allegata al verbale di udienza disponeva ai sensi dei previgenti artt. 3 e 479 c.p.p. del 1930 la sospensione del processo penale fino alla definizione con sentenza passata in giudicato della questione relativa alla dichiarazione di paternità naturale di F.P. nei confronti di D.B.
Il procedimento veniva riassegnato al giudicante in data 7 dicembre 2006 e si provvedeva a richiedere lo stato del procedimento civile presso la corte di appello di Firenze e presso la Corte di Cassazione.
A seguito dell’accertamento con nota della corte d’appello di Firenze pervenuta il 7 aprile 2010 della definitività della sentenza della corte d’appello di Firenze n. 931/2006, che riconosceva la paternità di F.P. nei confronti di D.B. (avendo la corte di cassazione con sentenza n. 21733/2007 depositata il 16.10.2007 dichiarato inammissibile il ricorso del P.), si procedeva a fissare nuova udienza per la prosecuzione del giudizio penale il 14 maggio 2010.
Venivano richieste ed ammesse le prove richieste dalle parti (testi e documenti).
L’imputato, già contumace, si presentava e rendeva l’esame richiesto dalle parti.
Quindi, il PM., il patrocinatore della parte civile e il difensore dell’imputato concludevano come da verbale.
All’esito, il tribunale affermava la penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascritto.
Dalle dichiarazioni della B., non smentite sul punto dall’imputato, si è accertato che la B. aveva iniziato giovanissima a lavorare negli anni ’70 presso l’istituto YYYYYYYYY, diretto dal dott. P., e che da subito nasceva tra i due una relazione sentimentale durata all’incirca 15 anni che si interrompeva successivamente alla nascita del figlio D. che è del 20 maggio 1986.
Ha spiegato la B. che nel primo periodo della loro relazione il dott. P. (più anziano di lei, già divorziato e risposato con altra donna dalla quale anche aveva avuto dei figli) si era mostrato molto affezionato a lei e l’aveva concretamente aiutata fino ad acquistare con proprio denaro ed intestare alla B., sia pure con scrittura privata soggettivamente simulata, un’attività commerciale di profumeria, erogandole altresì un finanziamento per l’avviamento dell’attività commerciale.
Per quanto attiene alla nascita del figlio D. la B. ha spiegato che inizialmente il P. appariva contento della gravidanza, la accompagnava dal ginecologo per le visite e al momento della nascita le fu vicino, acquistando il lettino e quanto necessario per il neonato; anche in occasione del battesimo del bimbo fu presente alla cerimonia con i genitori e gli amici, come confermato anche dal teste C., padrino del bambino, nonché presenziò alla festa per il primo compleanno del bambino.
Tuttavia, a partire dagli anni 1987-88 il P. interruppe la relazione con la B., non si fece più vedere né provvide a contribuire in qualche modo al mantenimento di madre e figlio, in quanto rappresentava difficoltà finanziarie legate all’attività della YYYYYYYY.
Oltre all’aspetto economico la latitanza del P. si manifestò altresì sul fronte dell’assistenza affettiva e psicologica fino a rifiutare decisamente la paternità del figlio D., che disconobbe, costringendo così la B. a ricorrere per via giudiziaria per ottenere il riconoscimento della paternità del P. rispetto al figlio D.
Con una prima sentenza del tribunale per i minori di Firenze veniva accertata la paternità del P. e l’accertamento veniva poi confermato definitivamente – a seguito dell’annullamento della prima sentenza per motivi procedurali – con la successiva sentenza della corte d’appello di Firenze n. 931 del 14 aprile 2006 e la dichiarazione di inammissibilità del ricorso per cassazione promosso dal P.
Le condizioni di vita della B. e del figlio D. per tutti gli anni successivi sono state descritte dalla teste e riscontrate dalla dichiarazione del teste C.: dopo il fallimento dell’attività commerciale di profumeria, la B. aveva iniziato a lavorare facendo assistenza agli anziani, guadagnando all’incirca 600/700.000 lire al mese.
Solo grazie all’aiuto dei genitori, con i quali conviveva assieme al figlioletto, la B. aveva potuto far crescere il figlio D. e provvedere a tutte le sue necessità primarie, peraltro affrontando da sola il difficile compito di seguire il figlio anche presso le strutture sociosanitarie e scolastiche ove D. veniva seguito per alcuni problemi di tipo caratteriale. Il ragazzo veniva, infatti, seguito da una pedagogista e da una psicologa ed aveva usufruito durante l’iter scolastico dell’insegnante di sostegno.
La B. ha orgogliosamente rivendicato il proprio ruolo di madre e la crescita complessivamente serena che era riuscita – pure con mille difficoltà – a garantire al figlio, oggi indipendente e con un’attività lavorativa, ed ha precisato che proprio l’aspetto delle difficoltà caratteriali e dei problemi di crescita incontrati dal figlio era stato verosimilmente determinante nel generare l’atteggiamento di rifiuto del padre successivamente ai primi anni di vita del bambino.
Orbene, la testimonianza della B., nonostante il tempo trascorso, è risultata coerente, precisa e non precostituita ed è stata riscontrata dal teste C., dirigente e amico del padre della B., ormai deceduto, che si era con lo stesso spesso confidato circa la situazione familiare; si tratta, dunque, di un teste che non può neppure dirsi attualmente legato da vincoli di particolare amicizia personale con la teste e perciò particolarmente attendibile.
Ebbene, sulla base delle superiori dichiarazioni può dirsi con certezza provato l’inadempimento da parte del P. agli obblighi di assistenza morale e materiale derivanti dal rapporto genitoriale nei confronti del piccolo D.B. e lo stato di bisogno in cui gravava la madre per la crescita e sviluppo del figlio.
Né a giustificazione del sostanziale e totale disinteresse che il P. a partire dagli anni ’87-‘88 ha dimostrato nei confronti del figlio D. può – come ha fatto l’imputato – portarsi la irriducibile convinzione della mancata filiazione, tanto che il P. ha continuato a contestare le sentenze e le prove a fondamento delle pronunzie che hanno accertato la paternità.
Peraltro, da un lato, le argomentazioni esposte dall’imputato sul punto, appaiono non decisive e sono comunque contrastate dall’accertamento giudiziale; dall’altro, mettono in evidenza la reale psicologica motivazione alla condotta criminosa del P., il quale continuava a non adempiere agli obblighi imposti dal vincolo, coltivando la causa giudiziaria civile con consapevole accettazione di violare la norma penale pur di vedere riconosciuta la propria infondata pretesa.
Invero, in tale insistente rifiuto al riconoscimento della paternità, ribadito anche all’udienza, dopo che oramai sono trascorsi molti anni e pure in presenza del giudicato, pare piuttosto scorgersi quella incapacità di accettazione dell’idea di aver generato un figlio “minore” cui ha accennato la madre B.
Più degna di considerazione appare invece l’ulteriore giustificazione addotta dal P. e sostenuta dal suo difensore, che ha prodotto documentazione sul punto, ovverosia l’esistenza di una cogente situazione di difficoltà economica in grado di impedire al P. qualsiasi contribuzione economica nei confronti del figlio.
Orbene, il P. ha riferito che all’epoca dei fatti svolgeva attività di direttore della YYYYYYYY, di proprietà della moglie C. e del figlio che anche a seguito della vicenda con la B. perdeva sia il lavoro che la casa familiare perché, rifiutato dalla moglie, e da allora si trovava a vivere in alberghetti di fortuna; che, perseguitato dai creditori personali, aveva consumato tutte le sue sostanze, compresa la pensione che era stata capitalizzata e riscossa; che doveva corrispondere un assegno alimentare anche alla prima moglie, dalla quale era divorziato, e alla figlia, nonché, successivamente alla separazione con la seconda moglie C., anche un assegno di mantenimento nei confronti dei quattro figli nati da quella unione; in realtà non aveva mai corrisposto alcun contributo sempre per la sua difficile situazione finanziaria.
Orbene, si osserva che a specifica domanda il P. ha poi precisato di aver lavorato regolarmente presso la YYYYYYYYY fino al 1991, che successivamente rimaneva “direttore sanitario” con incarico limitato nel tempo e una retribuzione mensile assai modesta.
La B., che aveva lavorato presso la YYYYYYYYY ha specificato che quando dirigeva l’istituto il P. aveva uno stipendio assai elevato, di circa 80 milioni di lire; d’altra parte lo stesso P. ha rappresentato uno stile di vita consono a tali fonti di reddito (disponibilità di auto Porsche, di una barca, plurime relazioni extra coniugali).
Alla luce di tali considerazioni deve allora ritenersi che almeno fino al 1991 il P. aveva un elevato reddito e tenore di vita, che comunque anche le successive vicende che lo hanno visto coinvolto non appaiono eventi estranei e allo stesso non imputabili, tanto da ritenere giustificato la mancata corresponsione anche di un minimo contributo alla crescita e allo sviluppo del figlio.
Si rileva, peraltro, la contraddittorietà e spudoratezza delle dichiarazioni del P. che ha giustificato l’inadempimento ora con la sua convinzione di non essere il padre, ora con la scarsità delle risorse finanziarie, ora in quanto nessuno l’aveva messo a conoscenza dei problemi caratteriali e personali di D., arrivando addirittura a lamentare che sia stata la B. a non averlo voluto e non avergli dato ospitalità quando era stato buttato fuori di casa dalla moglie; infine, dopo aver rappresentato la sua penosa situazione di errante tra un alberghetto e un altro, alla domanda diretta di dove ora stesse abitando si è rifiutato di rispondere.
In sostanza, alla luce delle superiori considerazioni, i fatti come descritti integrano appieno il reato contestato, nei suoi aspetti oggetti e soggettivi, alla stregua della chiara lettera della legge e della giurisprudenza in materia. E’ stato provato lo stato di bisogno in cui versava la B. per la crescita del figlio e garantire allo stesso i mezzi di sussistenza in considerazione della concreta situazione personale della B. (che aveva un reddito minimo non garantito) e del figlio minore D. con problematiche caratteriali.
Inoltre, lo stato di bisogno del figlio minore, ovvero del familiare avente diritto ricorre anche quando alla somministrazione dei mezzi di sussistenza provvede l’altro genitore con i proventi del suo lavoro ovvero provvedono altri familiari (cfr. Cass. , VI n. 25723 del 12/06/2003; nonché n. 12400 del 1990 R.V. 185336 n. 37419 del 2001 R.V. 220713 n. 57 del 2003 R.V. 222972).
Se, dunque, grazie allo sforzo dei genitori che si sono assunti l’onere di provvedere alla B. e al figlio D., questi ultimi hanno potuto continuare a vivere dignitosamente, lo si deve alla supplenza della stessa B. e degli altri parenti, risultando l’inadempimento protratto ad ogni tipo di contribuzione a partire dal 1987 in poi incidere pesantemente sul bilancio familiare.
E’ vero che ai fini della sussistenza del reato occorre effettuare una duplice valutazione, accertando da un lato la sussistenza dello stato di bisogno dell’avente diritto alla somministrazione dei mezzi di sussistenza e dall’altro lato la concreta capacità economica dell’obbligato a fornirglieli.
Tuttavia, l’asserita incapacità economica dell’obbligato può assumere valore di esimente in virtù del principio “ad impossibilia nemo tenetur” solo allorchè sia assoluta e non sia ascrivibile a colpa (Cass. VI, 17.10.2001 n. 37419; Cass. VI, 20.11.1997 n. 10539).
Le rappresentate difficoltà economiche dell’imputato appaiono generiche ed inconferenti rispetto al requisito da dimostrare ovvero una vera e propria indigenza o incapacità dovuta a fattori non volontari.
Dunque non pare revocabile in dubbio la capacità economica dell’imputato quantomeno finalizzata all’assolvimento dei suoi obblighi assistenziali minimi e l’attribuibilità della condotta omissiva a comportamento volontario e consapevole.
Deve pertanto affermarsi la penale responsabilità del P. in relazione al reato ascritto e, alla stregua dei criteri indicati dall’articolo 133 c.p., in particolare la persistente volontà colpevole, si ritiene equa la pena di mesi uno di reclusione ed € 300,00 di multa (pena base= mesi uno e giorni quindici ed € 450,00 di multa, ridotta per le generiche alla pena indicata).
Segue la condanna al pagamento delle spese processuali.
La pena irrogata può, tuttavia, essere sospesa alle condizioni e nei termini di cui all’art. 163 c.p., considerata l’efficacia deterrente della presente condanna, tanto da ritenere che lo stesso si asterrà in futuro dalla reiterazione dei reati.
Possono concedersi le attenuanti generiche attesa l’incensuratezza e l’età dell’imputato.
Alla condanna consegue l’obbligo del risarcimento dei danni materiali e morali subiti dalla parte civile, che devono liquidarsi in separata sede.
Può tuttavia concedersi alla parte offesa una provvisionale immediatamente ristorativa dei danni subiti pari ad € 10.000,00.
L’imputato deve rifondere altresì la parte civile delle spese processuali sopportate per la costituzione e la difesa in giudizio, che si liquidano secondo la notula in € 1.500,00 oltre C.P.A. ed I.V.A.
 
P.Q.M.
Il Tribunale,
visti gli art. 533 e 535 c.p.p.,
dichiara F.P. colpevole del reato allo stesso ascritto e, concesse le circostanze attenuanti generiche, lo condanna alla pena di mesi uno di reclusione ed € 300,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.
Visto l’art. 163 c.p.p.
Ordina la sospensione condizionale della pena nei limiti e alle condizioni di legge.
Visto l’art. 538 c.p.p.
Condanna l’imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita da liquidarsi in separata sede.
Visto l’art. 539 c.p.p. assegna alla parte civile una provvisionale pari ad € 10.000,00.
Condanna l’imputato alla refusione delle spese sostenute dalla parte civile per la costituzione in giudizio, liquidate in complessivi € 1.500,00 oltre C.P.A. ed I.V.A.
Indica in giorni 60 il termine per il deposito della sentenza.
Livorno, 1 ottobre 2010
                                                                         Il giudice
                                                                  dott.ssa Beatrice Dani

 

 
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