Il procedimento penale viene talora, in tutto o in parte (ovvero, con riguardo ad una posizione soggettiva e per un determinato reato) iscritto al modello 21 (alias, al registro generale delle notizie di reato di cui all’art. 335 c.p.p.) a carico di “persona da identificare”.
La prescelta modalità di iscrizione corrisponde ad una prassi diffusa (a dire il vero, sempre meno) presso gli uffici del pubblico ministero ed adottata allorquando l’indagato è non ancora formalmente identificato, ma, comunque, identificabile in modo facile e rapido, attraverso minime ed elementari attività di indagine, essendo già individuato agli atti del procedimento.
In buona sostanza, l’utilizzo della formula “persona da identificare” si fonda su una possibilità oggettiva di identificazione dell’indagato, stante il carattere temporaneo e presto rimuovibile dell’incertezza correlata al suo nome.
Resta fermo, peraltro, che una simile iscrizione postula uno stadio fluido della relativa procedura, lasciando essa intendere che la prima (doverosa) attività istruttoria prefissatasi in compimento dal PM è proprio la compiuta identificazione della persona sottoposta ad indagini, per poi potersene formalmente iscrivere il nominativo nell’apposito ed appropriato registro.
Ciò non toglie che la prassi in esame ha formato oggetto di accese critiche e rilievi in sede di ispezioni ministeriali, sia per la sua stessa praticabilità - ritenuta contra legem, in quanto non prevista dall’ordinamento codicistico, laddove, invero, sono contemplate le sole iscrizioni a carico di noti e ignoti (cfr., Gip Trib. Nola, ord. 23.09.03) – sia, soprattutto, per la mancanza di sanzioni, diverse da quelle disciplinari (cfr., Cass. Sez. Un. 21.09.06, n.20505) o penali, avverso la condotta negligente del pubblico ministero che non provveda poi ad identificare l’indagato e ad iscriverne il nome a registro.
La questione non è puramente teorica, perché spesso il magistrato che ha iscritto il procedimento a carico di persona da identificare, dimenticando o sorvolando sul fatto che l’aggiornamento nominativo è viceversa doveroso e che il suo differimento al momento della compiuta identificazione dell’indagato è temporaneo e coessenziale all’incompleta registrazione della notizia di reato, prosegue le indagini o, peggio ancora, definisce la fase procedimentale, senza perfezionare la procedura di iscrizione.
In simili circostanze, è evidente allora che il contegno omissivo del PM finisce per privare l’iscrizione nominativa di quella funzione di garanzia che il sistema processuale le attribuisce, ponendosi essa come presupposto indefettibile per l’esercizio delle facoltà difensive spettanti all’indagato nella fase investigativa ed all’atto del suo epilogo.
In altri termini, plurime sono le distorsioni che si realizzano e che dovrebbero, al contrario, essere evitate.
In prima battuta, se “si indaga” a carico di persona da identificare, ovvero, prima della formale identificazione di tale soggetto, vengono di fatto aggirate le norme di legge sui termini delle indagini preliminari (cfr., Gip Trib. Nola, ord. cit.).
In secondo luogo e per quel che più interessa in questa sede, ove “il PM richieda l’archiviazione del procedimento” nella sua originaria ed immutata iscrizione (i.e., a carico di persona da identificare) e sulla base della mera infondatezza della notizia di reato, senza dubbio alcuno si impedisce in concreto all’indagato (parte interessata) - solo perché formalmente non ancora iscritto a registro con il suo nome - di ricevere l’avviso della data della (eventuale) udienza camerale (fissata a seguito di rituale ed ammissibile opposizione della persona offesa), di partecipare alla stessa udienza e di ivi esercitare le facoltà difensive riconosciutegli dalla legge a propria tutela (ad es., essere sentito se comparso) (cfr., Gip Trib. Venezia, ord. 07.05.98).
Quanto sopra, come si diceva, non può essere consentito, dovendosi giocoforza individuare un rimedio per coinvolgere la persona (di fatto) indagata nel contraddittorio della camera di consiglio.
Una soluzione (particolarmente seguita nella prassi giudiziaria) potrebbe essere, anzitutto, il riconoscimento in capo al Gip del potere di restituire de plano gli atti alla procura, al (solo) fine di provvedere alla compiuta identificazione del soggetto (indagato) che dovrà essere destinatario degli avvisi di rito.
La strada indicata, indubbiamente di pregio in termini di prevenzione rispetto al possibile successivo momento patologico di fase, presenta però un punto debole, rappresentato dall’atipicità dell’atto di restituzione giudiziale, che, così discostandosi dai precetti tassativi dell’art. 409 c.p.p., potrebbe essere definito abnorme.
Diversamente opinandosi, non sarebbe ardito riconoscere al giudice il potere (ex professo attribuitogli dall’art. 415 c.2 c.p.p. per la differente ipotesi di procedimento iscritto nei confronti di ignoti, laddove ritenga che il reato sia da ascrivere a persona già individuata) di ordinare al PM l’iscrizione al registro delle notizie di reato del nome della persona “da considerarsi indagata”, con il positivo effetto di evitare che tale persona sia senza ragione favorita solo perché iscritta in modo informale al modello 21 (piuttosto che al modello 44, deputato agli ignoti) (Conf., Gip Trib. Venezia, ord. cit. e, da ultimo, Corte Cost. ord. 15.07.05, n. 348).
Sennonchè, anche siffatta tesi non sempre si presta all’applicazione concreta, presupponendo un dato (la già intervenuta generalizzazione in atti dell’indagato) che, viceversa, talvolta, a fronte di procedimento iscritto a carico di persona da identificare, manca, essendo tale persona sì individuata, ma non ancora generalizzata con l’esatto suo nominativo.
Il preferibile rimedio va allora ricavato dall’alveo dell’art. 409 c.4 c.p.p., nel senso di attribuirsi al Gip il potere-dovere di indicare al pubblico ministero, quale ulteriore attività di indagine ritenuta necessaria e, perciò, da compiere, (proprio) l’identificazione dell’indagato, finalizzata alla successiva iscrizione del suo nome al registro, in tal modo riservandosi, all’udienza camerale fissata per prima, la regolarizzazione degli atti introduttivi e, a quella (nuova) da fissarsi a seguire, il contraddittorio effettivo fra tutte le parti interessate, ivi compreso l’indagato, così “rimesso” in condizioni di interloquire sulla richiesta di archiviazione.
In ogni caso, resta fermo che qualora il Gip, prima o dopo l’adozione dell’ordinanza di archiviazione, non attivi alcuno dei rimedi, come sinora descritti secondo gli insegnamenti della migliore dottrina e giurisprudenza formatasi in subiecta materia, si espone ad un ricorribile vizio di nullità ex art. 178 c.1 lett. C) c.p.p., non avendo invero garantito la citazione e l’intervento in udienza di un indagato, con conseguente violazione dei suoi diritti fondamentali.
Né appare lecito obbiettarsi che, essendo intervenuta comunque una pronuncia di archiviazione, il “potenziale” indagato non viene a subire alcun pregiudizio dalla mancata partecipazione all’udienza camerale, sia perché, per dato notorio, una siffatta pronuncia ha in sé un’efficacia preclusiva limitata, sia perché, nel caso in cui nulla abbia statuito il Gip sulla sussistenza o meno del reato attribuito alla persona da identificare, tale indagato non resta immune dalla assoggettabilità ad altro procedimento penale per gli stessi fatti, senza poter in alcun modo controdedurre una (inesistente) violazione del principio del ne bis in idem (in difetto di un pregresso provvedimento giudiziale sull’illecito che lo riguarda).
Luciano Padula, magistrato - aprile 2011
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