Un primo commento sulla sentenza della Consulta in tema di revisione e sentenze della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo
La sent. n. 113 del 4 aprile 2011 della Corte costituzionale, con un dispositivo di tipo additivo in materia di procedura penale alquanto audace, ha ampliato i casi di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna. In particolare, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. e agli artt. 6 e 46 CEDU (impiegati questi ultimi come parametro interposto), la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. proc. pen. “nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo”.
Le premesse per giungere a tale conclusione sono essenzialmente due.
Anzitutto, nell’ambito di efficacia dell’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali della legislazione interna, la Corte costituzionale ritiene determinante che la Corte di Strasburgo, con giurisprudenza costante, afferma che l’obbligo di conformarsi alle proprie sentenze definitive, sancito a carico delle Parti contraenti dall’art. 46, par. 1, CEDU comporti anche l’impegno degli Stati contraenti a permettere la riapertura dei processi, su richiesta dell’interessato, quante volte essa appaia necessaria ai fini della restitutio in integrum in favore del medesimo, nel caso di violazione delle garanzie riconosciute dalla Convenzione, particolarmente in tema di equo processo. Ragion per cui, come già ritenuto nella precedente sent. n. 129 del 2008, per la Corte costituzionale la predisposizione di adeguate misure volte a riparare, sul piano processuale, le conseguenze scaturite da accertate violazioni del diritto all’equo processo si pone in termini di “evidente, improrogabile necessità”.
La seconda premessa da cui parte la sent. n. 113, inoltre, è la presa d’atto dell’inidoneità degli strumenti previsti dal vigente codice di procedura penale a salvaguardare i diritti riconosciuti dalla CEDU, ai fini considerati, superando le preclusioni connesse al giudicato. In particolare, per la Corte (a) il rimedio del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione (art. 625-bis cod. proc. pen.) non potrebbe comunque rappresentare una risposta esaustiva al problema, risultando strutturalmente inidoneo ad assicurare la riapertura dei processi a fronte di violazioni che non si siano verificate nell’ambito del giudizio di cassazione; (b) una risposta esaustiva al problema neppure potrebbe essere rappresentata dal ricorso all’istituto della restituzione in termini per la proposizione dell’impugnazione (art. 175, comma 2, cod. proc. pen.), trattandosi di meccanismo che risulta utilizzabile unicamente per porre rimedio alle violazioni della CEDU collegate alla disciplina del processo contumaciale; (c) e neppure esaustiva sarebbe la soluzione che vorrebbe fondarsi sull’incidente di esecuzione regolato dall’art. 670 cod. proc. pen., giacché il rimedio “congela” il giudicato, impedendone l’esecuzione, ma non lo elimina, collocandolo a tempo indeterminato in una sorta di “limbo processuale”, e soprattutto, la mera declaratoria di ineseguibilità non dà risposta all’esigenza primaria della riapertura del processo, in condizioni che consentano il recupero delle garanzie assicurate dalla Convenzione.
Proprio nell’ambito di tale disamina degli strumenti processuali previsti dal vigente codice di rito penale la Corte prende atto dell’impossibilità di avvalersi, ai fini considerati, dello strumento della revisione, non essendo l’ipotesi in questione riconducibile ad alcuno dei casi contemplati dall’art. 630 cod. proc. pen.
Infatti, la Corte costituzionale afferma che i casi di revisione riflettono la tradizionale configurazione dell’istituto quale strumento volto a comporre il dissidio tra la “verità processuale”, consacrata dal giudicato, e la “verità storica”, risultante da elementi fattuali “esterni” al giudicato stesso, trattandosi, dunque, di un rimedio contro il difettoso apprezzamento da parte del giudice del fatto storico-naturalistico, difetto che può emergere per contrasto con i fatti stabiliti da decisioni distinte da quella oggetto di denuncia (lett. a e b dell’art. 630 cod. proc. pen.), per insufficiente conoscenza degli elementi probatori al momento della decisione (lett. c), o per effetto di dimostrata condotta criminosa (lett. d). Ed inoltre, la revisione risulta strutturata in funzione del solo proscioglimento della persona già condannata, obbiettivo che si trova immediatamente espresso come oggetto del giudizio prognostico circa l’idoneità dimostrativa degli elementi posti a base della domanda di revisione, che l’art. 631 cod. proc. pen. eleva a condizione di ammissibilità della domanda stessa.
Per la Corte costituzionale, invece, nel caso di accertamento da parte della Corte di Strasburgo della violazione dell’art. 6 CEDU la prospettiva è affatto diversa. Si tratta, in tal caso, di porre rimedio, oltre i limiti del giudicato (considerati tradizionalmente comunque insuperabili con riguardo agli errores in procedendo), a un “vizio” interno al processo, tramite una riapertura del medesimo che ponga l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della lesione. Pur specificando che rimediare al difetto di “equità” di un processo non significa affatto giungere necessariamente a un giudizio assolutorio, giacché chi è stato condannato, ad esempio, da un giudice non imparziale o non indipendente – secondo la valutazione della Corte europea – deve vedersi assicurato un nuovo processo davanti a un giudice rispondente ai requisiti di cui all’art. 6, par. 1, CEDU, senza che tale diritto possa rimanere rigidamente subordinato a un determinato tipo di pronostico circa il relativo esito (il nuovo processo potrebbe bene concludersi, ad esempio, anziché con l’assoluzione, con una condanna, fermo naturalmente il divieto della reformatio in peius).
Sulla base di tali premesse la Corte costituzionale accoglie la questione di legittimità prospettata dalla Corte di appello di Bologna che aveva individuato proprio nell’art. 630 cod. proc. pen. la sede dell’intervento additivo per salvaguardare i diritti garantiti dalla CEDU, comportando la revisione, quale mezzo straordinario di impugnazione a carattere generale, la riapertura del processo, che implica una ripresa delle attività processuali in sede di cognizione, estesa anche all’assunzione delle prove, il che fa sì che la revisione costituisca il rimedio, fra quelli attualmente esistenti nel sistema processuale penale, che presenta profili di maggiore assonanza con quello la cui introduzione appare necessaria al fine di garantire la conformità dell’ordinamento nazionale al parametro evocato.
Dunque, per la Corte l’art. 630 cod. proc. pen. deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo proprio perché (e nella parte in cui) non contempla un “diverso” caso di revisione, rispetto a quelli ora regolati, volto specificamente a consentire (per il processo definito con una delle pronunce indicate nell’art. 629 cod. proc. pen.) la riapertura del processo – intesa, quest’ultima, come concetto di genere, funzionale anche alla rinnovazione di attività già espletate, e, se del caso, di quella integrale del giudizio – quando la riapertura stessa risulti necessaria, ai sensi dell’art. 46, par. 1, CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo (cui va equiparata la decisione adottata dal Comitato dei ministri a norma del precedente testo dell’art. 32 CEDU). Non senza precisare che la necessità della riapertura andrà apprezzata – oltre che in rapporto alla natura oggettiva della violazione accertata (è di tutta evidenza, così, ad esempio, che non darà comunque luogo a riapertura l’inosservanza del principio di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6, par. 1, CEDU, dato che la ripresa delle attività processuali approfondirebbe l’offesa) – tenendo naturalmente conto delle indicazioni contenute nella sentenza della cui esecuzione si tratta, nonché nella sentenza “interpretativa” eventualmente richiesta alla Corte di Strasburgo dal Comitato dei ministri, ai sensi dell’art. 46, par. 3, CEDU.
D’altra parte, per la Corte, è chiaro che, laddove ricorra l’evenienza considerata, il giudice dovrà procedere a un vaglio di compatibilità delle singole disposizioni relative al giudizio di revisione, dovendosi ritenere inapplicabili, infatti, le disposizioni che appaiano inconciliabili, sul piano logico-giuridico, con l’obiettivo perseguito (porre l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della violazione accertata, e non già rimediare a un difettoso apprezzamento del fatto da parte del giudice, risultante da elementi esterni al giudicato), prime fra tutte quelle che riflettono la tradizionale preordinazione del giudizio di revisione al solo proscioglimento del condannato (così, per esempio, rimarrà inoperante la condizione di ammissibilità, basata sulla prognosi assolutoria, indicata dall’art. 631 cod. proc. pen.; come pure inapplicabili saranno da ritenere – nei congrui casi – le previsioni dei commi 2 e 3 dell’art. 637 cod. proc. pen., secondo le quali, rispettivamente, l’accoglimento della richiesta comporta senz’altro il proscioglimento dell’interessato, e il giudice non lo può pronunciare esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio).
Ed infine, occorre ulteriormente considerare che l’ipotesi di revisione in parola comporta, nella sostanza, una deroga – imposta dall’esigenza di rispetto di obblighi internazionali – al ricordato principio per cui i vizi processuali restano coperti dal giudicato. In questa prospettiva, il giudice della revisione valuterà anche come le cause della non equità del processo rilevate dalla Corte europea si debbano tradurre, appunto, in vizi degli atti processuali alla stregua del diritto interno, adottando nel nuovo giudizio tutti i conseguenti provvedimenti per eliminarli.
Tanto affermato, la Corte costituzionale, ciò nonostante, non manca di ribadire e sottolineare che l’incidenza della declaratoria di incostituzionalità sull’art. 630 cod. proc. pen. non implica una pregiudiziale opzione a favore dell’istituto della revisione, essendo giustificata soltanto dall’inesistenza di altra e più idonea sede dell’intervento additivo. Per la Corte, il legislatore resta infatti ovviamente libero di regolare con una diversa disciplina – recata anche dall’introduzione di un autonomo e distinto istituto – il meccanismo di adeguamento alle pronunce definitive della Corte di Strasburgo, come pure di dettare norme su specifici aspetti di esso sui quali questa Corte non potrebbe intervenire, in quanto involventi scelte discrezionali (quale, ad esempio, la previsione di un termine di decadenza per la presentazione della domanda di riapertura del processo, a decorrere dalla definitività della sentenza della Corte europea). Allo stesso modo, rimane affidata alla discrezionalità del legislatore la scelta dei limiti e dei modi della possibile introduzione di condizioni per la riapertura del procedimento, collegate alla natura delle conseguenze prodotte dalla decisione interna e all’incidenza su quest’ultima della violazione accertata, come da indicazioni della Raccomandazione R(2000)2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa.
Certo proprio quest’ultima sottolineatura lascia trasparire un certo imbarazzo della Corte per aver deciso la questione promossa con un dispositivo additivo non proprio nei limiti canonici delle “rime obbligate”, in una materia dove è ampia la discrezionalità del legislatore.
avv. Leo Mercurio, Foro di Roma - aprile 2011
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