Come è noto, nel nostro sistema, la legge penale condiziona la punibilità alla presenza dell’elemento soggettivo: il dolo, la colpa e la preterintenzione.
In questa breve disamina si ritiene che l’indagine tesa ad individuare i rapporti tra la legge penale ed il mobbing debba addentrarsi nella valutazione di questi coefficienti esistendo condotte dolose e condotte colpose, a seconda della volontà e consapevolezza delle conseguenze.
In via preliminare si precisa che si tralasciano nella presente analisi le dinamiche colpose e quelle preterintenzionali.
Nel nostro ordinamento penale caratterizzato dal principio di stretta legalità e di tassatività e difficile trovare una collocazione sicura al fenomeno mobbing, connotato da una indeterminatezza di contorni, a meno di non voler accedere alla nozione di mobbing come una sorta di “scenario” all’interno del quale possono coesistere - in un unicum - condotte illecite e condotte di per sé neutre che, però, si colorano di illiceità per esser finalizzate ad una strategia, appunto, mobbizzante.
Ed allora, posto che esistono varie fattispecie criminose che il mobber può porre in essere, in esecuzione del proprio progetto illecito, si possono individuare almeno tre accezioni in cui la nozione di mobbing può trovare diritto di cittadinanza nel diritto penale:
- la condotta mobbizzante quale elemento costitutivo del reato in relazione a varie specie di condotte sussistenti in astratto in diverse ipotesi di reato: dalle lesioni, alla violenza privata, dall’abuso d’ufficio ai maltrattamenti;
- il mobbing quale movente nel disegno criminoso del mobber. Invero, la finalizzazione ad una strategia mobbizzante può essere utile per individuare, con riferimento alla condotta, la sussistenza di un dolo specifico tale da inquadrare il fatto in una fattispecie di reato piuttosto che in un’altra. Per esempio, la qualificazione di certe condotte mobbizzanti nell’ambito del delitto di violenza privata ( art. 610 c.p.), fattispecie di carattere generico e sussidiario, che resta esclusa, in base al principio di specialità, qualora sussista un dolo specifico che renda configurabile una ipotesi delittuosa più grave; a tal riguardo, se il fine perseguito dal mobber, posto in essere con atti violenti o minatori, fosse quello di procurarsi un ingiusto profitto con altrui danno (come, liberarsi del mobbizzato costringendolo alle dimissioni), si potrebbe individuare, con meno difficoltà, il reato di estorsione ( art. 629 c.p.) piuttosto che quello di violenza privata, anche se di recente la Suprema Corte ha sussunto la condotta vessatoria di un datore di lavoro nella fattispecie della violenza privata di cui all’art. 610 c.p. statuendo che “può esservi condotta molesta e vessatoria o, comunque mobbing anche in presenza di atti di per sé legittimi e che, simmetricamente, non ogni demansionamento così come non ogni altro atto illegittimo da luogo, a cascata, a mobbing»…ed affinché ciò avvenga “è necessario che quell’atto emerga come l’espressione, o meglio come uno dei tasselli, di un composito disegno vessatorio” [1].
- il mobbing quale circostanza aggravante del reato posto in essere dal mobber, circostanza che, di volta in volta, potrà assumere i connotati del motivo abietto (per esempio: indurre il mobbizzato alle dimissioni o ad accettare trattamenti inumani o mansioni sgradevoli o pericolose) o del motivo futile (come potrebbe essere, sempre ad esempio, il caso del mobbing orizzontale posto in essere da colleghi al solo scopo di attaccarne un altro, per divertimento o per sfogare frustrazioni proprie (un pò come capita nel fenomeno del cd. “nonnismo da caserma” o del cd. “bullying scolastico”).
Altre volte il mobbing si configurerà quale circostanza di stampo soggettivo ai sensi dell’art. 61, n° 11, c.p., nel momento in cui la condotta venga posta in essere con abuso del rapporto gerarchico lavorativo, o con abuso di pubblici poteri proprio come nel caso di mobbing nel pubblico impiego, che è posto in essere da soggetti titolari di cariche pubbliche la cui posizione apicale sia tale da incutere sul soggetto passivo una doppia soggezione, quella derivante dalla subordinazione lavorativa e quella connessa al potere da quella carica - e posizione- derivante.
Si ritiene, quindi, prospettabile l’ipotesi per cui nell’ambito del pubblico impiego - e laddove il mobber rivesta la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio - la condotta mobbizzante possa integrare il reato di abuso d’ufficio: l’art. 323 c.p., invero, punisce tali soggetti sia quando agiscano in violazione di precisi doveri stabiliti da leggi o regolamenti (anche di contenuto disciplinare e procedimentale), sia quando non ottemperino ad obblighi di astensione previsti dalla legge.
I molti comportamenti integranti il mobbing possono essere penalmente sanzionati se collegati o all’evento - cioè alle conseguenze psicofisiche in capo alla vittima - o con riferimento alla condotta - perché alcuni comportamenti sono già stati tipicizzati dal legislatore penale - o, ancora, alla luce di una serie di principi formulati, per settori particolari ed affini alla tematica in questione, dalla giurisprudenza di legittimità in tema di nesso di causalità tra condotta ed evento.
Ed invero, tanto nella giurisprudenza di merito quanto in quella legittimità sembra essere in via di consolidamento l’orientamento secondo il quale la condotta mobbizzante rilevi quale elemento costitutivo di numerose fattispecie criminose.
A tal riguardo si evidenzia la teorica applicabilità ai casi di specie dell’articolo 572 c.p. (maltrattamenti) [2] che sta assumendo un ruolo preminente nell’azione giudiziaria contro le vessazioni sul luogo di lavoro [3]: di rilievo, al riguardo, la recentissima pronuncia della Suprema Corte che ha statuito che “ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 572 c.p. lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all'interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere dei soggetti attivi, i quali ne siano tutti siano consapevoli, a prescindere dall'entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi. (Fattispecie relativa alla continua espressione di frasi ingiuriose e a maltrattamenti fisici da parte delle operatrici di un istituto pubblico di assistenza nei confronti di persone anziane ivi ricoverate nel reparto di lunga degenza)” [4], dell’articolo 582 c.p. (lesione personale) eventualmente aggravato ex articolo 577 c.p. comma 1, n. 3 e n. 4, dell’articolo 586 c.p. (morte o lesioni come conseguenza di altro delitto) che risulta quanto mai confacente per perseguire i casi di mobbing realizzati mediante ripetuti comportamenti vessatori che già in sé integrano una figura di delitto punito a titolo di dolo, degli articoli 594 e 595 c.p. (ingiuria e diffamazione) in caso di espressioni denigratorie non necessarie, dell’articolo 323 c.p. (abuso d’ufficio): a tal riguardo di notevole interesse è la recente sentenza della Corte di Cassazione che per la prima volta si è pronunciata sulla rilevanza penale del mobbing all’interno della pubblica amministrazione, in particolare dando applicazione, appunto, alla fattispecie penale di abuso d’ufficio [5], dell’articolo 328 c.p. (omissione atti d’ufficio), dell’articolo 610 c.p. (violenza privata), dell’articolo 660 c.p. (molestia o disturbo alle persone), delle molestie sessuali, dell'articolo 17 legge n. 626/1994( art.40 c.p.) la responsabilità per il datore di lavoro e per il medico competente, dell’articolo 35 legge n. 675/1996 per il trattamento illecito di dati personali, dell’aggravante prevista dall’articolo 61, n. 11 c.p.; la riconducibilità della malattia da mobbing alla generale categoria della malattia professionale ex D.P.R. n. 30 giugno 1965, n 1124; la possibilità di comminare la sanzione accessoria della pubblicazione della sentenza di condanna ai danni del “mobber” e, da ultimo, per la persona offesa e per il danneggiato l’opportunità di costituirsi parte civile nei correlati processi penali.
Francesco Chiaia - Avvocato penalista, cultore di diritto penale nella facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro, componente dell'Organismo di Controllo dell'Unione Camere Penali Italiane - dicembre 2010
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[1] Cass., Sez. VI, 8 marzo 2006, n. 31413, in Dir. giust., 38, 2006, p. 59, con nota di F.M. Ferrari, Se il dipendente è confinato «nel lager» Mobbing, il persecutore è perseguibile; in Giur. it., 2007, p. 1764, con nota di M. Bellina, sulla rilevanza penale del mobbing.
[2] Vedasi l’equiparazione del lavoratore dipendente con la “persona sottoposta alla sua autorità” in Cass., Sez VI Pen., n. 10090 del 12 marzo 2001, in Igiene e sicurezza del lavoro, 11, 2001, con nota di Guariniello ed anche Cass. 18 marzo 1997, in CED, rv. 207527. (pubblicato in “Lavoro e previdenza Oggi, 4-5/2002).
[3] in una delle rare occasioni in cui la giurisprudenza di legittimità si è occupata esplicitamente di mobbing è stata fatta applicazione dell’art. 572 c.p. il quale punisce il reato di maltrattamenti in famiglia (Cass.Pen., 12 marzo 2001, n. 10090, Erba, in Dir. giust., 13, 2001, p. 55 ss.).
[4] Cass. Pen. Sez.VI, 3 marzo 2010 n. 8592, in banca dati lex 24 - repertorio 24 – de “ il sole 24 ore”.
[5] Cass. Pen, sez. VI, 7 novembre 2007, n. 40891, in banca dati lex 24 - repertorio 24 – de “ il sole 24 ore”.
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