(Nota a sentenza Cass. Pen. Sez. III^ n. 9157/2010)
Il tema delle domande suggestive è stato ancora una volta ripreso dalla Corte di Cassazione in una recente sentenza (1) che ha ribadito il principio che il giudice (o un suo ausiliario) può porre al teste domande che suggeriscono la risposta non ostandovi alcun divieto legislativo.
L’affermazione di tale principio, secondo i giudici di legittimità, risiede nelle norme procedurali che disciplinano il contesto dell’esame incrociato.
Il divieto delle domande suggestive, sostiene la Suprema Corte, è circoscritto solo alle parti che hanno chiesto l’esame e a quelle che hanno un interesse comune ma non a quelle del giudice e del suo eventuale ausiliario.
Già in precedenza il Supremo Collegio si era occupato della questione che era stata risolta allo stesso modo: il divieto di porre domande suggestive non opera nell’esame condotto direttamente dal giudice poiché, si è anche sostenuto, non vi è il rischio di un precedente accordo tra il testimone e l’esaminante (quasi che tra il teste e le parti private vi sia sempre un accordo pregresso). (2)
Il processo penale accusatorio italiano nell’ambito della formazione della prova su tale aspetto mette a nudo le sue debolezze e le sue deficienze.
Infatti, se l’art. 111 della Carta Costituzionale sancisce che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a giudice terzo ed imparziale, le norme che disciplinano l’esame testimoniale (artt. 498, 499 c.p.p.), ove consentono un’intromissione senza limiti del giudice terzo ed imparziale, non possono che ritenersi non in linea con il precetto costituzionale soprarichiamato.
Il nostro metodo esaminatorio, in virtù di tali orientamenti giurisprudenziali, sembrerebbe quindi non “perfetto” e non “aderente” alla norma costituzionale.
Nella formazione della prova, è noto, il legislatore impone alle parti che hanno chiesto l’esame e a quelle che hanno un interesse comune di muoversi con passo felpato al fine di rendere più genuina possibile la ricostruzione del fatto.
E ciò sotto l’attenta regìa e vigilanza del giudice terzo ed imparziale che deve evitare la proposizione di domande suggestive e di quelle che possono nuocere alla sincerità delle risposte.
La regola impone al giudice di intervenire durante l’esame, anche d’ufficio, per assicurare la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni.
L’invadenza del giudice durante l’esame testimoniale era stata avvertita dal legislatore tant’è che nel 1999 è intervenuto per modificare il secondo comma dell’art. 506 c.p.p. prevedendo che il presidente può rivolgere domande, ai testimoni, ai periti ecc.. alle parti esaminate solo dopo l’esame ed il controesame.
Tale norma, però, nella pratica non viene quasi mai osservata soprattutto perché priva di sanzione.
Si assiste il più delle volte a questa generale tendenza da parte del giudice ad intromettersi durante l’esame incrociato che compromette spesso la sincerità delle risposte così sviando la parte interessata dall’obiettivo che si prefiggeva di raggiungere e demolendo, talvolta, la strategia accusatoria o difensiva.
Tutte le ragioni che sono sottostanti al divieto di domande suggestive nel corso dell’esame (assicurare la genuinità dell’acquisizione degli elementi di prova) vengono in un solo colpo demolite dal potere attribuito al giudice di porre domande senza alcun limite.
Nessuna invocazione, quindi, di inutilizzabilità della prova, ex art. 191 c.p.p., può essere fatta se si ritiene che la disciplina degli artt. 498 e 499 c.p.p. non riguarda il giudice “terzo ed imparziale”.
Il potere accordato al giudice di porre domande, di indicare i temi di prova nuovi o più ampi, utili per la completezza dell’esame (ex art. 506 c.p.p.) non può essere visto solo come un intervento dell’ultimo momento teso a colmare le lacune dell’esame incrociato, atteso che il II° comma del citato art. 506 c.p.p., facultando il presidente a porre domande senza alcun divieto, consente di stravolgere il principio costituzionale secondo cui la prova si forma nel contraddittorio delle parti dinanzi a giudice terzo ed imparziale.
Le parti durante la cross examination spesso subiscono impotenti l’introduzione da parte del presidente del collegio di domande suggestive e talvolta nocive accompagnate da toni severi che incutono timore al teste specie quando non sembra allineato alla tesi accusatoria, in barba al principio di presunzione di non colpevolezza.
Ma quello che più può essere considerato devastante è l’esame del minore condotto dal presidente o di un suo ausiliario quando non si osservano le regole, anche non codificate, di massima cautela che l’età del soggetto impone.
Quindi, mentre da un lato il legislatore ha inteso proteggere il minore nel suo racconto, specie nei delitti sessuali e ciò per evitargli altre conseguenze negative psicologiche, dall’altro, il consentire domande che possono alterare ed influenzare il ricordo, comporta un netto squilibrio che inevitabilmente inquina la prova.
Ora, se è vero che i principi posti dalla “Carta di Noto” non hanno alcun valore normativo, trattandosi di suggerimenti diretti a garantire l’attendibilità…. delle dichiarazioni del minore e la protezione psicologica dello stesso, è anche vero però che un esame del minore condotto dal presidente o da un suo ausiliario deve pur sempre seguire le regole di cui agli artt. 498 e 499 c.p.p.. (3)
Invero, l’art. 498 4° comma c.p.p. dispone che l’esame testimoniale del minorenne è condotto dal presidente su domande e contestazioni proposte dalle parti cosicché il presidente rappresenta soltanto la longa manus della parte che ha chiesto l’esame del minore con la conseguenza che egli deve non ammettere quelle domande che sono suggestive o che nuocciono alla sincerità.
Consentire allo stesso o al suo ausiliario di muoversi liberamente durante il racconto del minore non può che costituire una chiara alterazione della formazione della prova.
Per evitare tale anomalia si dovrà assistere ad un radicale mutamento del pensiero di chi ancora sostiene che il processo penale accusatorio italiano è improntato più che ad un processo delle parti alla ricerca spasmodica di una verità; e fin quando nel nostro ordinamento troveranno alloggio gli artt. 506 2° comma e 507 c.p.p. sarà difficile eliminare le incongruenze del sistema che portano ad una grave alterazione della formazione della prova.
Il giudice delle leggi è intervenuto più volte sul tema se la facoltà del giudice di intervenire attraverso il potere di integrazione della prova sia costituzionalmente legittimo nell’ambito dell’esercizio del diritto della prova riconosciuto alle parti.
Si è sostenuto da più parti che il nuovo codice processuale penale “non tenderebbe alla ricerca della verità ma solo ad una decisione correttamente presa in una contesa dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatorio nel quale un esito vale l’altro, purchè correttamente ottenuto”.
Un processo penale, quindi, che vede il giudice meramente arbitro dell’osservanza delle regole di una contesa tra parti contrapposte, e il giudizio avrebbe la funzione di non accertare i fatti reali onde pervenire ad una decisione il più possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale, ma di attingere – nel presupposto di un’accentuata autonomia finalista del processo – quella sola “verità” processuale che sia possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali coerenti nel modello.
Tale concezione, però, non era stata accettata prima dell’avvento del principio del giusto processo dal giudice delle leggi (cfr. sent. Corte Cost. 26-03-1993 n. 111) che richiamando il tessuto normativo positivo (la legge delega e i principi costituzionali di cui questa richiede l’attuazione) ha evidenziato che “fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità” (4).
Il fantasma dell’inquisitore, come è facile rilevare, è stato ed è sempre dietro l’angolo, anche se con la modifica costituzionale dell’art. 111 il giudice delle leggi ha, in un certo qual modo, invertito la rotta. (5)
S’impone, però, un intervento legislativo che delimiti i poteri del giudice durante l’esame incrociato, in quanto l’interpretazione data dalla Corte di Cassazione con la sentenza in commento, è estremamente lesiva della genuinità della prova testimoniale e non in sintonia con il principio del giusto processo.
In dottrina, è stato osservato che “il divieto di porre domande suggestive abbia il suo ambito operativo solo per l’esame diretto, ovvero per quello condotto dalla parte che abbia un interesse comune a quella richiedente, e come ciò abbia suo fondamento giustificativo nell’esigenza di garantire la genuinità della prova e di evitare che la possibile pregressa conoscenza dei fatti della parte richiedente, nonché l’astratta o anche solo potenziale comunione di intenti tra la stessa ed il teste, possa indurre l’esaminante a “guidare” l’esame verso un scopo predeterminato” (6).
Con ciò, com’è stato giustamente rilevato, si tende a scongiurare il pericolo che la parte che ha chiesto l’esame possa influenzare la risposta attraverso domande a cui il teste si limiti a rispondere con un sì o con un no.
Mentre tale divieto non è posto per la parte che deve controesaminare in quanto il controesame assolve al compito di verifica dell’attendibilità del teste con funzioni distruttive e confutative (7).
Ma non si può, però, convenire con la stessa dottrina che sostiene che “se il controesame assolve alla funzione di verificare l’attendibilità del teste al fine di garantire la genuinità della prova (..) sarebbe assimetrico riconoscere solo alla parte controinteressata il potere di porre domande suggestive e non anche al presidente del collegio”. (8)
Dimentica tale concezione che ora il processo penale italiano, con la riformacostituzionale dell’art. 111, è più “accusatorio” di prima.
Infatti, perché mai dovrebbe ritenersi “assimetrico” vietare al giudice di porre domande in un sistema in cui la prova si appartiene alle parti? D'altronde il giudice non conosce il fatto e quindi non si comprende come egli possa far rilevare eventuali contraddizioni o colmare lacune nel racconto; egli, tra l’altro, non è portatore di alcun interesse contrapposto ad una delle parti.
Infine, il principio costituzionale (art. 111) del giusto processo non può consentire di spuntare le armi alle parti contendenti senza dire, poi, che il potere suppletivo del giudice è ridondante della vecchia concezione del giudice – inquisitore che non subisce alcun controllo quando pone domande che nuocciono alla sincerità delle risposte.
Conclusivamente, “è auspicabile che il presidente eviti domande che possano condizionare la risposta; e per altro verso, che il legislatore intervenga anche su questo nodo (..)” (9).
.- Avv. Giuseppe DACQUI’ - aprile 2010
(riproduzione riservata)
(1) Cass. Pen. Sez. III^, 28-10-2009 n. 9157
(2) Cass. Sez. III^, 12-12-2007 n. 4721, Muselli
(3) Tale principio è in controtendenza con gli altri arresti giurisprudenziali che hanno invece valorizzato la validità del metodo suggerito dalla “Carta di Noto” (cfr. Cass. Pen. Sez. IV^ 29-09-2006 n. 32281; Cass. Sez. III^ 18-09-2007 n. 852). Se ci trovassimo nel sistema di Common Low potremmo sostenere che si tratti di un caso di Overruling. Nella fattispecie, però, ci sembra un’abrogazione del precedente assolutamente immotivata.
(4) sent. Corte Cost. 26-03-1993 n. 111
(5) sentenze Corte Cost. n. 440/2000 e n. 32/2002
(6) Piero Silvestri – in Cass. Pen. n. 04 del 2009 pag. 1568
(7) ut supra
(8) ut supra pag. 1569
(9) Ettore Randazzo – Insidie e strategie dell’esame incrociato – pag. 116 – Giuffrè Editore 2008
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