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 Glauco Giostra - Il crepuscolo dello Stato di diritto

1. Chiamato a commentare la sent. n. 262 del 2009, che ha dichiarato l’incostituzionalità della l. 124/2008 (c.d. “lodo Alfano”) dovrei forse attenermi ad una valutazione tecnica di quel pronunciamento, ripercorrendo criticamente gli argomenti che vi sono svolti e, al più, cercando di trarne indicazioni de iure condendo, come peraltro mi riservo di fare. Ma l’idea che il giurista – al pari di un anatomopatologo delle norme e delle sentenze – debba lavorare chino sull’oggetto esaminato, senza alzare lo sguardo a quanto accade intorno ed a causa di esso, non mi appartiene. Le disdicevoli pressioni politiche sulla Corte costituzionale in vista della pronuncia in esame e soprattutto le inquietanti convulsioni istituzionali che ne sono seguite rivestono un’importanza maggiore della pronuncia stessa: il vulnus recato alla costituzione vivente dalle improprie e scomposte reazioni che questa ha provocato è incomparabilmente superiore al vulnus recato alla Costituzione dalla l. 124/2008.
    Quando un Presidente del Consiglio si spinge a dire che l’attuale  Corte costituzionale non è un organo di garanzia, bensì un organo politico, in quanto molti dei suoi componenti sono stati votati da maggioranze di sinistra o nominati da Presidenti della Repubblica di sinistra, assesta colpi d’ascia inesorabili alla pianta dello Stato di diritto, su un ramo della quale egli stesso è seduto; senza dire della inquietante luce che getta sui giudici della Consulta eletti dalla propria maggioranza. Quando un Presidente del Consiglio lamenta che il Capo dello Stato non sia intervenuto sui componenti della Consulta per far mutare loro avviso, gli rimprovera, in fondo, di non aver abusato del ruolo che la Costituzione gli assegna; senza dire della inquietante luce che getta sulla propria ordinaria condotta istituzionale.
  Beninteso, è fuori discussione il diritto di criticare le decisioni della Corte costituzionale come quelle di ogni altro organo, anche apicale, dello Stato, sebbene nel farlo si  dovrebbe avere tanta maggiore  misura, quanto più alta è la carica rivestita. Ciò che in uno Stato di diritto nessuno dovrebbe consentirsi – e meno che mai chi ha responsabilità istituzionali – è di delegittimare la funzione e il ruolo di un organo costituzionale. Molti esponenti politici mostrano di non cogliere la differenza, eppure non dovrebbe essere difficile intendere, ad esempio, che un conto è giudicare la politica economica del Governo   gravemente inadeguata, un conto è negare a quel Governo legittimazione asserendo che il consenso elettorale da cui è sorretto è frutto di brogli o dei voti assicurati dalla criminalità organizzata. Nel primo caso si rientra, a pieno titolo, nel diritto di critica politica, non solo consentito, ma anche democraticamente fecondo. Nel secondo, contestando non già il modo, ma il  diritto di governare,  si corre il rischio – tanto più alto, quanto più autorevole è la fonte della contestazione – di smagliare il tessuto istituzionale della convivenza civile.
So bene che considerazioni simili suscitano ormai la degnata attenzione che si riserva alle verità sopravvissute a se stesse: quasi fossero un’ingombrante eredità tardo-settecentesca, non più al passo dei tempi, di cui bisognerebbe avere il “coraggio” politico di disfarsi. Ma è proprio questa diffusa, ancorché non sempre esplicitata, idea a misurare il degrado culturale che stiamo vivendo: abbiamo smarrito la nostra “etica costituzionale”. Mantenere la capacità di scandalizzarcene è un modo per sperare ancora.
2. Prima di passare all’esame della sentenza, una breve premessa di metodo. Poiché l’obbiettivo politico alla base della legge censurata dalla Consulta – evitare che il Presidente del Consiglio debba subire processi durante il suo mandato – non ha certo perso di attualità, si sta ancora alacremente lavorando intorno a diverse ipotesi di riforma (v. postea  parr. 5 e 6 ), alcune delle quali non poco preoccupanti (riproposizione per via costituzionale delle stesse norme censurate; presunzione di permanente legittimo impedimento per l’imputato che ricopre una delle quattro cariche apicali dello Stato; riesumazione dell’autorizzazione a procedere; termini iugulatori di prescrizione per ogni fase del processo).
Viene quindi spontaneo guardare ai princìpi fissati dalla pronuncia della Corte, con la stessa apprensiva cura con cui, rientrata l’esondazione a monte, si procede ad una ricognizione degli argini più a valle, in attesa della tumultuosa piena, che trasporta con sé materiale molto contundente.
 È con questa strabica attenzione – alla decisione della Corte e all’orizzonte legislativo, già gravido di inquietanti procellarie – che ci accingiamo a svolgere qualche considerazione a prima lettura della sentenza, privilegiandone i profili che hanno una maggiore proiezione verso il futuro.
 
 3. La sentenza individua un primo profilo di illegittimità nella natura ordinaria della legge sottoposta al suo scrutinio.  L’ omologa pronuncia della Corte (sent. n. 24 del 2004) sull’omologo “lodo Schifani” (l. 140/2003),  avendone dichiarato l’incostituzionalità per alcuni specifici  profili, senza prioritariamente bollarne l’inadeguatezza formale,   aveva invero  inopportunamente lasciato più di un margine di ambiguità al riguardo. Se  dal punto di vista strettamente giuridico non si può certo sostenere che la precedente sentenza esercitasse una forza di giudicato implicito in ordine alla    praticabilità della via ordinaria, si  può  tuttavia “psicologicamente” comprendere il forte disappunto di quanti avevano ravvisato, in quella pronuncia e nel “lasciapassare” che il Capo dello Stato aveva concesso alla l. 124/2008, motivi di ragionevole aspettativa che questa potesse superare indenne il sindacato di costituzionalità, almeno sotto il profilo dell’adeguatezza formale.
  Nel merito, tuttavia, il recente pronunciamento della Corte costituzionale, articolato in una stringente sequenza sillogistica, appare assai difficilmente controvertibile. Premesso il concetto di prerogative costituzionali (si inquadrano nel genus degli istituti diretti «a tutelare lo svolgimento delle funzioni degli organi costituzionali attraverso la protezione dei titolari delle cariche ad essi connesse», sottraendoli «all’applicazione delle regole ordinarie»); chiarito che al legislatore ordinario è precluso di intervenire in questa materia che trova organica disciplina nella Carta fondamentale («uno specifico sistema normativo», frutto di «un delicato ed essenziale equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, potendo incidere sulla funzione politica propria dei diversi organi», «che non è consentito al legislatore ordinario alterare né in peius, né in melius»);constatato che il legislatore ordinario ha inteso introdurre nel caso di specie una prerogativa costituzionale a favore delle quattro più alte cariche dello Stato (dato che «la ratio della norma denunciata» deve essere «individuata nella protezione delle funzioni di alcuni organi costituzionali», mediante «un regime differenziato riguardo all’esercizio della giurisdizione»); l’incostituzionalità della legge “torna” come il risultato di un conto.
   
3.1  Per scongiurare tale risultato, sarebbe stato necessario modificare una delle “voci”. Ciò aveva ben intuito la difesa dell’imputato, che ha tentato di sottrarre la testa della norma alla ghigliottina della Consulta, sostenendo che si era praticamente in presenza di un “errore di persona”: non si trattava di una prerogativa costituzionale, ma di una provvidenza a tutela del diritto di difesa. La sospensione dei processi, in questa chiave, non servirebbe ad evitare che l’esercizio del diritto di difesa comprometta l’assolvimento del munus publicum, quanto piuttosto che questo assolvimento finisca per  compromettere quell’esercizio. Tesi spericolata, per corroborare la quale la parte privata si acconciò a sostenere che la guarentigia introdotta intendeva assicurare «lo svolgimento del giusto processo attraverso la protezione del diritto di difesa, che del giusto processo è condizione ineliminabile, il quale subisce un arresto temporaneo sino al momento in cui cessa la carica esercitata, ossia la causa di legittimo impedimento a comparire». Giungendo persino a giustificare la non reiterabilità della sospensione  con questo singolare argomento: la durata di un mandato sarebbe stata considerata dal legislatore  periodo di tempo sufficiente  per prepararsi ad «affrontare contemporaneamente gli impegni istituzionali di un eventuale nuovo incarico e il processo penale». Se la difesa della parte privata ha ritenuto di dar fondo ad ogni risorsa argomentativa spingendosi anche a queste imprese di free climbing esegetico, è perché evidentemente aveva ben intuito che – ove non fosse riuscita a scardinare la tesi della prerogativa costituzionale – la partita sarebbe stata persa. Come poi in effetti è stato, poiché la Corte ha avuto gioco facile a rispondere a tali preventive obiezioni, strategicamente lungimiranti, ma argomentativamente debolissime. Tra l’altro, alla Corte è bastato osservare come questa sorta di «presunzione legale assoluta di legittimo impedimento derivante dal solo fatto della titolarità della carica», risulterebbe «intrinsecamente irragionevole e sproporzionata» rispetto alla finalità di tutela del diritto di difesa. Essa opererebbe, infatti,  ingiustificatamente nei casi in cui l’impedimento non sussista e inutilmente ove sussista, dal momento che l’imputato potrebbe, già in base alla normativa codicistica, addurre l’impedimento a comparire, avendo diritto al riconoscimento delle peculiarità e della rilevanza delle funzioni svolte (cfr. già in tal senso, Corte cost. sentt. n. 225 del 2001; n. 39 e 391 del 2004; n. 263 del 2003; n. 451 del 2005). Quanto alla non reiterabilità del beneficio sospensivo, i giudici della Consulta hanno tagliato corto: la disposizione censurata intende soltanto fissarne un limite massimo di durata, «e non garantisce affatto (…) un periodo minimo per approntare la difesa»; meno che mai un periodo pari alla durata di un mandato. Basti pensare, esemplifica la Corte, al caso in cui il processo venga instaurato nei confronti del titolare della carica poco prima della sua cessazione, qualora il medesimo soggetto ne assuma subito dopo una nuova.
   3.2 Che la normativa censurata, del resto, non si limitasse a stabilire una impossibilità dell’imputato di comparire nel processo e di difendersi adeguatamente a causa delle alte responsabilità di cui è gravato, è agevolmente dimostrabile con argomenti ulteriori rispetto a quelli usati dalla Corte, sui quali, peraltro, non conviene attardarsi. Vi è, infatti,  un argomento inespugnabile offerto dalla stessa Costituzione: il postulato difensivo – alla cui stregua il processo penale richiederebbe un dispendio di tempo ed energie non compatibile con le responsabilità istituzionali – è seccamente smentito  dagli artt. 68, 90 e 96 Cost., là dove implicitamente prevedono processi penali per le stesse alte cariche dello Stato, sull’evidente presupposto della piena compatibilità del munus publicum con lo status di imputato. Certo, si può sempre sostenere che ad essere sbagliata sia la scelta costituzionale, ma si dovrebbe almeno riconoscere che non possano ragionevolmente convivere nello stesso ordinamento due opzioni basate su presupposti contraddittori e che a cedere il passo debba essere quella veicolata dalla norma ordinaria. Dunque, anche la strada percorsa dalla difesa per evitare l’incostituzionalità portava in definitiva allo stesso capolinea cui è giunta la Corte.
              3.3 Semmai va aggiunto che la linea della parte privata, fragilissima quando cerca di configurare l’automatica sospensione dei processi penali come espressione di tutela del diritto di difesa, è invero piuttosto efficace quando porta il suo affondo critico all’impostazione fatta propria dalla Corte: se la sospensione processuale prevista dalla norma censurata costituiva una prerogativa indissolubilmente legata alla carica o alla funzione ricoperta dall’imputato, come mai era previsto che, in caso di nuovo incarico, la sospensione non potesse essere reiterata? In effetti, è difficile negare che non presenti qualche incongruenza “fisiognomica” una prerogativa costituzionale che non si accompagni sempre al titolare della carica alla quale è correlata. Se di ciò, come si è visto, la difesa privata dà una spiegazione improbabile (con la rammentata torsione funzionale della norma) e la Corte nessuna, limitandosi ad ammettere l’incongruenza («incoerente con entrambe le rationes ipotizzate»), è perché la vera ragione risiedeva in un dato di realtà, ammettere il quale sarebbe stato per la prima impossibile, per la seconda altamente inopportuno. Sotto la maschera della prerogativa costituzionale si celava, infatti, l’inequivocabile volto del privilegio: volendosi assicurare un “salvacondotto” processuale al Presidente del Consiglio lo si è camuffato da guarentigia costituzionale; poi, considerato politicamente incauto abusare dell’abuso, se ne è esclusa la reiterabilità in caso di assunzione di nuova carica. In definitiva, si può convenire con i giudici della Consulta sul fatto che, formalmente, la normativa censurata configurava una prerogativa costituzionale. Se poi non corrispondeva pienamente al modello tipico di un tale istituto è perché non era la sospensione dei processi penali che “serviva” alla carica ricoperta dall’imputato, bensì questa alla immediata sospensione dei processi in corso. La temporanea sottrazione alla giurisdizione penale, cioè, rappresentava un fine e non un mezzo: era fatale che in più punti il travestimento scoprisse le reali sembianze dell’operazione politica. Ciò non può bastare, tuttavia, a far vacillare il principio enunciato dalla Corte: quando si introducono trattamenti differenziati rispetto alla giurisdizione in ragione dell’alta carica istituzionale ricoperta dall’imputato, si interviene sul delicato rapporto tra gli organi dello Stato e sull’assetto delle prerogative costituzionali previsto dalla nostra Carta fondamentale; tale assetto non deve considerarsi immodificabile, ma può essere cambiato soltanto con le forme della revisione costituzionale.
  3.4 Tale principio fa giustizia ante litteram dei tentativi in atto (v. postea par. 6.) di evocare la tutela del diritto di difesa nel processo penale – introducendo, ad esempio, il legittimo impedimento a comparire stabilito per legge – con l’intento di far rientrare da una porta secondaria ciò che è appena stato estromesso da quella principale.
  Difficile dire se l’idea di eludere questo principio ricorrendo ad escamotages che ripropongano, mutato nomine, il medesimo meccanismo censurato dalla Corte intrattenga più stretti rapporti con la sfrontatezza o con la callidità. Di certo, non può essere frutto di inconsapevolezza, poiché sarebbe oltremodo offensivo pensare che a qualcuno possa sfuggire l’imbarazzante somiglianza tra il riconoscimento di un legittimo impedimento a comparire per l’intero mandato e la sospensione del processo per la medesima durata: sono gemelli eterozigoti partoriti dal medesimo utero politico. Va da sé che anche nel caso di legittimo impedimento presunto iuris et de iure, cioè collegato in modo generale ed automatico alla circostanza che l’imputato ricopre una carica apicale dello Stato, siamo in presenza di una prerogativa costituzionale che non può mai essere veicolata dalla legge ordinaria. Lo stesso discorso vale per ogni altro meccanismo che, sotto le mentite spoglie dell’istituto di carattere processuale, tenda ad assicurare un esonero, sia pure temporaneo, dalla giurisdizione. Puntualizzazione probabilmente inutile; ma poiché in certe materie tutto fa difetto al nostro legislatore tranne che la fantasia, non si può escludere che si decida ad introdurre, ad esempio, un termine a comparire per l’imputato lungo quanto il suo mandato istituzionale oppure il diritto dell’imputato titolare di alte funzioni di chiedere un termine a difesa della stessa durata. In questi ed in altri casi simili avremmo a che fare con “immunità taroccate”.
4. Una volta stabilito che per introdurre una forma di temporanea immunità processuale sarebbe stato necessario seguire l’iter della revisione costituzionale, la Corte avrebbe potuto pronunciare l’illegittimità ex art. 138 Cost. della normativa sottoposta al suo vaglio, dichiarando assorbita ogni ulteriore questione. Ha opportunamente ritenuto, invece, di esplorare anche il rapporto della disciplina scrutinata con l’art. 3 Cost., ravvisando più di un profilo di illegittimità. Qui non interessano tanto le conclusioni, quanto l’approccio, perché sconfessa di per sé la fallace convinzione che il mezzo di trasporto (legge costituzionale) possa “sdoganare” qualsiasi materiale trasportato. Ammonisce implicitamente la Corte che, se la disciplina di una nuova immunità dovesse porsi in rotta di collisione con i supremi valori costituzionali, in particolare con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza presidiati dall’art. 3 Cost., introdurla con il procedimento stabilito dall’art. 138 Cost. non basterebbe a sottrarla ad una declaratoria di incostituzionalità. De futuro, non ci si potrà, quindi, limitare ad issare la previsione dichiarata illegittima sulle spalle di questa più alta fonte di normazione per superare l’asticella del costituzionalmente necessario. Bisognerà evitare che il contenuto precettivo delle disposizioni che si intendono introdurre sia lesivo dei « principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali», in quanto appartengono «all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana» (Corte cost., sent. n. 1146 del 1988). In particolare, per le peculiarità della materia de qua, è necessario che non vi sia una relazione antinomica tra tali norme e i principi di uguaglianza e di ragionevolezza espressi dall’art. 3 Cost. Da questo punto di vista, dunque, l’alternativa è segnata.  Ove il differente statuto processuale consista in una doverosa diversità di disciplina di situazioni diverse (in tal modo realizzando e non violando il principio di uguaglianza dinanzi alla giurisdizione), intesa ad apprestare necessaria e proporzionata protezione all’organo costituzionale cui si riferisce, in coerenza con il sistema delle prerogative previsto dalla Costituzione, introdurla con le forme di cui all’art. 138 Cost. è condizione necessaria e sufficiente. Ove, invece,  la differenza di trattamento di fronte alla giustizia sia irragionevolmente eccentrica in riferimento a quel sistema ovvero esorbitante rispetto alle effettive esigenze di protezione degli organi costituzionali, non basterebbe una procedura di revisione costituzionale a renderla legittima. 
4.1 Sotto il primo profilo dell’“irragionevolezza sistematica”, l’insegnamento della Corte appare inequivocabile. Dopo aver ravvisato un deficit formale nella natura ordinaria della l. 124/2008, ha significativamente posto in evidenza come il meccanismo “immunitario” da questa introdotto presentasse aspetti censurabili ai sensi dell’art. 3 Cost., sia «sotto il profilo della disparità di trattamento fra i Presidenti e i componenti degli organi costituzionali», sia «sotto quello della parità di trattamento di cariche tra loro disomogenee».  Ma quand’anche si ponesse rimedio a questi aspetti, resterebbe sempre, sino a quando si procederà “per addizione” rispetto all’attuale disciplina delle prerogative costituzionali, «l’ulteriore vulnus all’art. 3 Cost. derivante dal fatto [di] prevedere, per tutti i reati extrafunzionali, un meccanismo generale e automatico di sospensione del processo, che non può trovare ragionevole giustificazione in un supposto maggior disvalore dei reati funzionali rispetto a tutti, indistintamente, gli altri reati». Permanendo queste ingiustificate disparità di trattamento, la mera riproposizione, pur nelle più impegnative forme dell’art. 138 Cost., della normativa appena “bocciata” dalla Corte non la sottrarrebbe, dunque, alle censure di incostituzionalità.
4.2  Là dove il faro di questa sentenza non arriva a proiettare luce a sufficienza  è, invece, sul terreno di quali debbano essere i requisiti di idoneità intrinseca dello strumento protettivo apprestato (“ragionevolezza funzionale”), affinché si possa parlare di fisiologica diversità e non di patologica disparità di trattamento di fronte alla giurisdizione. Se, ad esempio, si introducesse con legge costituzionale un “lodo Alfano” bis, accuratamente purgato delle mende riscontrate dalla sentenza in commento, la sospensione dei processi penali potrebbe avere le carte in regola? Tale profilo problematico rimanda al delicato e complesso problema – che chiaramente esorbita dall’economia di questo breve commento – dell’individuazione di cosa possa giustificare un trattamento differenziato di fronte alla giurisdizione e di come, cioè con quale strumento, questo si possa realizzare. In prima approssimazione, si potrebbe dire che ci si può discostare dalle regole ordinarie della giurisdizione a tutela di talune cariche di vertice dello Stato, quando l’applicazione di quelle potrebbe pregiudicare l’assolvimento di queste. Non certo, dunque, quando tale applicazione potrebbe turbare «il sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche» – come infelicemente si esprimeva la sent. n. 24 del 2004 in un passaggio, poi opportunamente sottoposto a “rilettura” dalla  sentenza de qua (punto 7.3.2.1. del considerato in diritto) – ma solo quando potrebbe compromettere il funzionamento dell’organo costituzionale, consentendo la legittima persecuzione di comportamenti che a questo sono essenziali o non contrastando a sufficienza il rischio di indebite interferenze giudiziarie. In presenza di simili evenienze si possono introdurre deroghe alla giurisdizione ordinaria, purché siano strettamente necessarie e proporzionate al conseguimento dell’obbiettivo che le legittima. Ed è questo il profilo che più interessa il processualpenalista in una prospettiva de iure condendo.
5. Ebbene, nell’armamentario dei diversi strumenti a disposizione del legislatore per proteggere il funzionamento degli organi pubblici dai possibili vulnera “da giurisdizione” conserva, ancor oggi, immeritato credito e  pervicace attualità proprio quello della sospensione ope legis dei procedimenti penali riguardanti i componenti o i titolari di quegli organi (naturalmente ci si riferisce alla interruzione automatica del processo per tutta la durata della carica, a prescindere dal nomen iuris che si vuol dare all’istituto che la determina: assoluto impedimento previsto per legge, termini a difesa della durata del mandato, difetto di condizione di procedibilità contro i titolari di alcune organi o quanti altri la fantasia legislativa saprà escogitarne). 
  Ad avviso di chi scrive, la sospensione dei processi penali nei confronti di quanti ricoprano cariche apicali dell’ordinamento, almeno nella forma generale e automatica in cui è stata e viene tuttora prospettata, deve considerarsi  costituzionalmente e tecnicamente improponibile.
 
5.1 Dal punto di vista costituzionale, una simile tutela della funzione svolta risulterebbe sempre sproporzionata per eccesso, in quanto non potrebbe mai dirsi necessaria, né per sottrarre eccezionalmente alla giurisdizione talune condotte coessenziali al funzionamento dell’organo, né per mettere al riparo da indebite interferenze del giudiziario l’espletamento della funzione costituzionalmente rilevante. A soddisfare il primo ordine di esigenze bisognerebbe semmai continuare a lavorare, nel solco degli esempi costituzionali, intorno ad una eccezionale e circoscritta irresponsabilità relativamente a condotte che, nell’interesse generale – stabilito per legge o a seguito di apprezzamento dell’Autorità a ciò espressamente preposta – è meglio consentire che reprimere. A soddisfare il secondo, si potrebbero istituire filtri idonei ad evitare azioni penali azzardate o persecutorie (tra l’istituto dell’autorizzazione a procedere da esercitare secondo  insindacabile arbitrio “domestico” – che, avendo dato invereconda prova di sé, sembra difficilmente riproponibile – e la ordinaria perseguibilità giudiziaria del rappresentante politico, anche investito di responsabilità apicali, vi è una serie di soluzioni intermedie che andrebbero attentamente e serenamente vagliate). Quanto alle maggiori difficoltà che comprensibilmente può incontrare il titolare o il componente di un organo costituzionale nel partecipare alle attività giurisdizionali, basterebbe, per farsene adeguatamente carico, semplicemente modulare l’applicazione degli ordinari istituti processuali (come condivisibilmente suggeriva, ad esempio, Corte cost., sent. n. 225 del 2001).
 
5.2 Dal punto di vista tecnico, lo strumento dell’automatica sospensione dei processi presenta insormontabili controindicazioni, che dovrebbero consigliare il definitivo abbandono dell’idea di farvi ricorso.
Innanzitutto, non ci potrà mai essere una sospensione in termini assoluti: il black out processuale, infatti, non potrà riguardare in nessun caso anche le indagini. Ove venissero anch’esse bloccate, non di sospensione si tratterebbe, ma di impunità: sostenere che l’inquirente possa plausibilmente mettersi in cerca delle prove  a distanza di cinque o sette anni dal fatto significherebbe davvero, ancora una volta, proporre una soluzione farisaica. Consentire lo svolgimento delle indagini, d’altra parte, pregiudicherebbe il più delle volte quegli stessi interessi, a tutela dei quali è prevista la sospensione del processo: basti pensare alla possibilità che siano disposte, in questa fase, misure limitative della libertà personale.
Si aggiunga poi che, ad intervenuta sospensione del  processo, sarebbe comunque necessario introdurre meccanismi di assicurazione della prova deperibile. Gli atti urgenti e non rinviabili debbono sempre poter essere compiuti (cfr. Corte cost., sent. n. 77 del 1994). E gli atti non rinviabili saranno tanto più numerosi, quanto più lungo ed incerto si prospetterà il periodo della sospensione. È facile prevedere che il “letargo processuale” verrà frequentemente interrotto da uno stillicidio di episodici “risvegli” giurisdizionali. Di conseguenza, il bene a tutela del quale è intervenuta la sospensione – e che dobbiamo presumere vulnerato dallo svolgimento di attività processuale – sarà leso dai tanti interventi occasionali, ma di crescente frequenza, dettati dal periculum in mora: un pregiudizio “a rate”, certo, ma non per questo, data la sua imprevedibilità e la sua accentuata ricorrenza, meno  lesivo.
Va inoltre considerato che, pur a voler  prescindere dalle necessità di assunzione urgente della prova, solo apparentemente il procedimento resterà fermo al “fotogramma” del momento della sospensione. Non si potrà certo impedire alla difesa di svolgere un’attività investigativa dopo la sospensione del processo. Impensabile interdire al difensore, che può addirittura espletare indagini in vista di un processo penale non ancora attuale (art. 391-nonies c.p.p.), di svolgerne nelle more della sospensione: sarebbe incostituzionale proibirgli di cercare prove a discarico, che, alla ripresa del processo, potrebbero essere andate irreparabilmente disperse. Ma se concediamo alla difesa la facoltà di continuare medio tempore le investigazioni, non si può non riconoscere anche al pubblico ministero, in base al principio di parità delle parti sul piano probatorio, sancito dall’art. 111 Cost., la possibilità di svolgere indagini pur a processo sospeso. Ne consegue che questo deve ammettere, da un lato, l’assunzione di prove non rinviabili e, dall’altro, la prosecuzione, sia pure carsicamente realizzata, dell’azione investigativa delle parti.
Incapace di garantire l’effettivo arresto di ogni attività giudiziaria, lo strumento della sospensione presenta un ulteriore connotato di inadeguatezza funzionale: colpisce, per dir così, alla cieca, a seconda dell’accidentale momento in cui l’imputato assume una carica “protetta”. Il processo, ad esempio, potrebbe essere “ibernato” al momento della richiesta di rinvio a giudizio, o all’inizio dell’istruzione dibattimentale, o alla vigilia della deliberazione della sentenza di primo grado, o nelle more del ricorso per cassazione, con criterio del tutto casuale. Nell’ultimo caso, non si comprende come possa giustificarsi l’interruzione del giudizio, dato che si tratta di un segmento processuale, che certo non distoglie  l’imputato dal suo munus publicum, non essendo appunto prevista una sua partecipazione; negli altri, non si vede come possa sostenersi che la sospensione sia soltanto una innocua soluzione di continuità nell’amministrazione della giustizia.
Qualora lo stop intervenga con l’esercizio dell’azione penale si rischia di dover far trascorrere cinque o sette anni, prima di tenere un’udienza preliminare in cui verrà dichiarato il non luogo a procedere o, evenienza non meno imbarazzante, in cui verrà chiesto il giudizio abbreviato. Se la sospensione interviene all’inizio dell’istruzione dibattimentale, si cagiona un irreparabile nocumento al valore dell’assunzione orale della prova: è pensabile assumerla dopo sette-dieci anni dal fatto (tale sarebbe, infatti, il lasso temporale se   ai tempi lunghi   per arrivare all’istruttoria dibattimentale si sommano i  cinque o sette anni di sospensione)? Quale credibilità, quale affidabilità, che tipo di verità potrà garantire un accertamento di questo tipo? Se il fattore sospensivo interviene, invece, dopo l’istruttoria dibattimentale, alla ripresa, dopo cinque o sette anni, il giudice dovrà pronunciare sentenza sulla base dei verbali e di qualche sbiaditissimo ricordo, non propriamente all’insegna dei fondanti principi dell’oralità e della concentrazione dibattimentale (già, per la verità, sin troppo usurati nell’ordinario quotidiano giudiziario). Si aggiunga che, probabilmente, alla ripresa  del processo sarà estremamente difficile o addirittura precluso (nei non infrequenti casi di procedimenti con una pluralità di imputati, uno soltanto dei quali protetto dall’immunità processuale) comporre il medesimo collegio che aveva istruito il dibattimento. Allora si ha un bel dire che la decorrenza dei termini di prescrizione è sospesa. In realtà il giudizio, che ha subìto una lunga interruzione, va spesso rifatto da capo: con la fatua ripetizione dell’assunzione delle medesime prove a distanza di anni e il rischio incombente della prescrizione.
Dietro l’angolo di un processo sospeso ci sarebbe comunque, se non la prescrizione, la sua irragionevole durata. Proprio nella sentenza che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 1 l. 140/2003, la Corte costituzionale ha puntualizzato – disattendendo recisamente la considerazione avanzata dalla difesa secondo cui, in definitiva, con la sospensione del processo tutti i diritti rimanevano impregiudicati –  che «all’effettività dell’esercizio della giurisdizione non sono indifferenti i tempi del processo» (sent. n. 24 del 2003, con interessanti richiami alle sentenze n. 353 e n. 354 del 1996). Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, del resto, ha più volte precisato che una maggiore lunghezza del processo può essere tollerata solo quando serve a meglio espletare i diritti di difesa oppure a meglio approfondire l’accertamento del fatto (si vedano, con diversa angolazione, Corte eur. dir. uomo, 17 dicembre 2009, Kolchinayev c. Russia e Corte eur. dir. uomo, 12 agosto 1999, Ledonne c. Italia, nonché la giurisprudenza ivi richiamata).
  Risulta, inoltre, fatalmente pretermesso da soluzioni di questo tipo, il diritto  della persona offesa ad avere una sentenza in un tempo ragionevole. Al riguardo, varrebbe la pena di andarsi a rileggere le pronunce della Corte di Strasburgo (cfr., ad esempio, Corte eur. dir. uomo, 3 aprile 2003, Anagnastopoulos c. Grecia), che hanno ravvisato una violazione del diritto al giudice e al processo, là dove il danneggiato dal reato, dopo essersi rivolto al giudice penale, possa essere costretto, a distanza di molti anni, a “trasferire” le sue pretese in sede civile. Si potrebbe obiettare che, almeno nei casi in cui il processo penale “impatta” sin dall’inizio con la sospensione, basterebbe  prevedere – come faceva la legge censurata – la possibilità per la parte civile di andare dinanzi al giudice civile. Ma anche ad ammettere che ciò possa essere sufficiente dal punto di vista da ultimo evidenziato, ci si troverebbe sempre – in questo caso, come negli altri di trasferimento dell’azione civile nella sede propria – dinanzi alla stranezza di un ordinamento che, da un lato,  sospende l’accertamento penale  del reato a tutela della carica ricoperta dall’imputato, dall’altro, consente che in sede civile – per liquidare l’eventuale danno – il giudice si pronunci sulla sussistenza di quel medesimo reato.
  Un ultimo rilievo. Dopo la scadenza del mandato “giurisdizionalmente immune”, ove l’interessato venga confermato nella carica o ne assuma un’altra coperta da tutela, gli si dovrebbe riconoscere la possibilità, come sarebbe coerente con la natura del beneficio, di continuare a godere della stessa prerogativa. Ma si determinerebbe una indifendibile situazione di giustizia sospesa sine die, che con l’andare del tempo assomiglierebbe sempre di più ad una impunità travestita. D’altra parte, l’unico modo per evitare questa inaccettabile protrazione della guarentigia, sarebbe quello di prevedere la non rieleggibilità – almeno sino alla  definizione del processo –  di chi ha goduto della sospensione, incidendo intollerabilmente, però, su un suo diritto costituzionale (art. 51 Cost.).
 
5.3 Spostandoci dalle implicazioni tecnico-giuridiche a quelle lato sensu politiche, si deve notare come nel caso, frequentissimo, di concorso di persone nel reato, il processo può essere sospeso a carico  dell’alto funzionario, ma non nei confronti dei coimputati. Questi potrebbero, in costanza di sospensione del processo per la parte riguardante il concorrente che ricopre un’alta magistratura, essere giudicati e    condannati, come la realtà si è incaricata di esemplificare. Quali ombre si allungherebbero, in simili evenienze, sull’immagine personale e sul prestigio istituzionale dell’“immune”? Che idea potrebbe farsi la collettività di una simile situazione? Fatalmente penserebbe dell’alto funzionario, magari innocente, che è semplicemente un colpevole privilegiato: i suoi correi sono stati condannati, mentre lui vive in questa sorta di intangibile limbo processuale, grazie alla carica ricoperta, che lo rende più uguale degli altri dinanzi alla legge. E questa sensazione, democraticamente rovinosa, sarebbe destinata a rafforzarsi, qualora l’imputato “privilegiato”, alla ripresa del suo processo dopo la pluriennale sospensione, venisse prosciolto per l’impossibilità di formare la prova o per intervenuta prescrizione. 
 
 6. Come si diceva, anche in  questi ultimi giorni ci si sta febbrilmente affaccendando per aprire al Presidente del Consiglio, dichiaratamente ormai, una via di fuga dalla giurisdizione penale. Viene ancora una volta rappresentata nel teatro politico nazionale la deprimente pièce, fischiata ed applaudita dalle opposte tifoserie, imperniata, con minime varianti, intorno ad una scena ormai consueta: un panzer cieco che prova a sfondare il muro di cinta della legalità, lesionandolo in diversi punti. Più in auge delle altre, questa volta, sembra la soluzione, politicamente contrabbandata come frutto di rassegnato realismo, che si ispira alla filosofia della riduzione del danno. Una soluzione “ponte” per sottrarre alla giurisdizione il Presidente del Consiglio riconoscendogli per legge un assoluto legittimo impedimento “a tempo”, il tempo necessario per apprestare un altro rimedio meno precario, attraverso una «legge costituzionale recante la disciplina organica delle sue prerogative» (come se il legittimo impedimento per legge non fosse esso stesso una prerogativa, trattandosi – come abbiamo detto – di una sospensione processuale sotto mentite spoglie). Una pezza a colore che servirebbe per fare uscire il Paese da una penosa impasse, evitando laceranti scompaginamenti del sistema normativo. Che l’obbiettivo sia apprezzabile e forse per tal via anche conseguibile, si può al limite concedere. Purché si abbia l’onestà intellettuale di indicarne la contropartita. Ci si comporta un po’ come in economia si è fatto con il debito pubblico: i problemi contingenti si affrontano con soluzioni il cui costo dovrà essere pagato dalle generazioni future. Espedienti come questo, dai quali la Costituzione esce umiliata, lasceranno macerie culturali che impediranno per molti anni di riedificare quel senso di condivisione di regole e di istituzioni comuni che rende i coabitanti di un dato territorio cittadini di uno Stato di diritto. 
 
Glauco Giostra - febbraio 2010 (in corso di pubblicazione su Criminalia, 2010)
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