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 Giuseppe Dacquì, L'inutilizzabilità delle dichiarazioni tardive

Quando venne approvata dal nostro legislatore la norma (1) che sanziona l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese, oltre il termine stabilito di 180 giorni, dai collaboratori di giustizia, da parte di molti operatori del diritto si tirò un sospiro di sollievo poiché, finalmente, veniva posto fine all’intollerabile stillicidio di dichiarazioni rese secondo tempi talvolta ben stabiliti.
 
Ma tale dirompente novità legislativa non fu digerita da una parte della dottrina e della giurisprudenza.
 
Fu scritto che “il limite dei 180 giorni che la nuova normativa ha voluto imporre al rivelante, perché enumeri, in tale termine, tutti i fatti di cui è a conoscenza appare, più che altro, una pedanteria ragionieristica, motivo di disturbo e causa di errore, piuttosto che strumento di impossibile controllo”. (2)
 
Affermazione dura e severa che, per quanto autorevole, si scontra però con le angherie ma soprattutto con i torti che si subiscono in sede di accertamento della verità.
 
Spesso la dottrina che non respira “l’aria” dell’aula di giustizia è lontana dal toccare con mano l’inaffidabilità del chiamante in reità o in correità che tende spesso ad  allinearsi, per rafforzare la sua credibilità, ai vari teoremi accusatori.
 
La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con ben quattro sentenze in virtù del compito assegnatole di nomofilachia, è intervenuta nel Settembre 2008 per sancire il principio che “la sanzione di inutilizzabilità della prova, prevista per le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia dopo il termine di centottanta giorni dalla manifestazione della volontà di collaborare, opera esclusivamente nel dibattimento”. (3)
 
Occorre chiedersi, pertanto, se il dictum del Supremo Collegio in materia offra una sicura risposta agli interrogativi che vengono posti ogniqualvolta la dichiarazione nuova sfori il termine massimo consentito.
 
Che il P.M. abbia comunque e sempre l’obbligo di raccogliere tutte le dichiarazioni in qualunque luogo e in qualunque momento della fase processuale è un conto ma altra cosa è la piena validità di tali dichiarazioni rese oltre il periodo consentito.
 
Le Sezioni Unite correttamente hanno fatto rilevare che l’articolo 16 quater L. 15-03-1991 n. 82, introdotto dall’art. 14 della L. n. 45/2001, fu espressamente voluto dal nostro legislatore per ridurre l’ambito delle collaborazioni non attendibili ed evitare, ove possibile, tentativi di vendetta da parte dei collaboratori.
 
A questo punto, però, le Sezioni Unite non hanno approfondito più di tanto la vera volontà legislativa.
 
Dopo aver, sia pure elegantemente, definito la norma dibattuta “certamente singolare” perché “sembra non tenere nel debito conto” che la dichiarazione “tardiva” può essere dettata “da finalità diverse di quelle paventate e cioè da timore, o meglio paura, dovuto al fatto che chi dovrebbe essere accusato si trovi ancora in stato di libertà”, i giudici del puro diritto, su tale presupposto, hanno fatto la scelta di differenziare i momenti processuali sì permettendo la piena utilizzabilità delle propalazioni “apparse” a tempi ormai “scaduti”.
 
La giustificazione, posta a base dell’utilizzabilità delle dichiarazioni tardive, a nostro giudizio, non può essere condivisa per la semplice ed evidente ragione che chi collabora, unitamente ai propri familiari, è immediatamente sottoposto alla protezione dello Stato e che la persona accusata in stato di libertà o ristretta non conosce e non può conoscere  il contenuto delle dichiarazioni rese a suo carico se non dopo che, di regola, è stata raggiunta dal provvedimento restrittivo.
 
Se si accettasse questo ragionamento si dovrebbe sempre sostenere che in tutte le dichiarazioni dovremmo sospettare il silenzio, su alcuni fatti e soggetti, protetto dal timore di un’eventuale vendetta da parte degli accusati.
 
Ma già la scelta di collaborare comporta una serie di prevedibili rischi di cui lo Stato si assume l’onere di evitarli o comunque ridurli al minimo.
 
Sul valore insostituibile, ai fini della prova dei fatti, delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia nessuna obiezione. Anzi!
 
Ma ciò non può costituire un paravento o uno schermo di protezione per le manifeste calunnie o racconti di fantasia di taluni pentiti “interessati”.
 
Non possono sottacersi le svariate “vendette” consumate nei confronti sì di delinquenti ma comunque assolutamente estranei al fatto delittuoso.
 
Accettare ancora le dichiarazioni rateali di taluni astuti e sedicenti collaboratori di giustizia comunque è pur sempre molto faticoso.
 
Chi si aspettava un’indicazione definitiva e concreta da parte del Supremo Collegio non può che essere rimasto deluso.
 
Sono diversi gli interrogativi che il pronunciamento pone, ma uno più di tutti: in che termini e come verranno dichiarate inutilizzabili le dichiarazioni “postume” (per intenderci i ricordi apparsi dopo la scadenza dei 180 giorni)?
 
Dovremmo, per un attimo, calarci in una cross examination classica. Il collaboratore esaminato dall’accusa riferisce in dibattimento una circostanza nuova e come tale mai dichiarata prima (e per nuova deve intendersi quella circostanza mai descritta né direttamente né indirettamente e comunque rilevante ai fini del giudizio).
 
A questo punto al difensore non resta che il compito di “contestare” e fare evidenziare al giudice che mai prima d’allora il collaboratore aveva fatto cenno alla “nuova” circostanza.
 
Trattasi, per come in gergo viene definita, della cosiddetta “contestazione in negativo”.
 
Quid iuris ?
 
Se il P.M. attesta per vero quanto sostenuto dal difensore, il giudice dovrà pronunciarsi sulla questione dell’inutilizzabilità o meno della dichiarazione; se, invece, l’organo accusatore sostiene il contrario, perché per esempio dal verbale illustrativo si ricaverebbe anche indirettamente che la “circostanza contestata” era già stata riferita, ci si troverà di fronte all’inevitabile ma delicata scelta, di fare acquisire (naturalmente solo al fine della verifica) il verbale illustrativo nonché tutte le dichiarazioni rese entro i palliattivi termini dei sei mesi.
 
Ed a  questo punto, se il nodo aggrovigliato si scioglierà in favore di chi ha dimostrato la tardività delle dichiarazione accusatoria, il giudice dovrà dichiarare quella parte inutilizzabile. Ma sarà così?
 
Dubito fortemente che un soggetto imprigionato nella fase delle indagini preliminari sulla base di sole dichiarazioni tardive possa essere successivamente nella fase del giudizio rimandato a casa con tante scuse.
 
Non pare che si stia percorrendo la giusta via: sembra riecheggiare il celeberrimo motto gattopardesco: “tutto muti perché nulla cambi”.
 
Dopo aver fatto una premessa di carattere generale “al fine di una precisa interpretazione del comma IX del citato articolo 16 quater del decreto – legge 15 gennaio 1991 n. 8, così come modificato dalla legge n. 45 del 2001” il Supremo Collegio ha ritenuto “che quella prevista dalla norma citata costituisca una ipotesi di inutilizzabilità relativa, ovvero limitata alla fase dibattimentale, e parziale perché fa salvi i casi di irripetibilità”. (4)
 
Ciò posto, sembrerebbe che tale inutilizzabilità, sia pure relativa, mantenga in vita la sanzione di inutilizzabilità prevista dalla norma dibattuta.
 
Il dibattimento, nato per la verifica giudiziale, dovrebbe costituire, quindi, l’effettivo ostacolo alle dichiarazioni tardive.
 
Ma tale assunto immediatamente viene vanificato dalle successive affermazioni contenute nella citata sentenza:
 
Del resto quanto affermato trova conforto nella considerazione che la inutilizzabilità determina la impossibilità per il giudice di servirsi per il suo convincimento della prova di un determinato fatto in quanto assunta in violazione di un esplicito divieto, ma essa, ovviamente, non colpisce il fatto come rappresentazione della realtà, ma il mezzo attraverso il quale il fatto viene documentato; di conseguenza tale fatto non solo può costituire oggetto delle indagini necessarie per un compiuto accertamento, ma anche oggetto di una successiva prova assunta nelle forme di legge; cosicchè, con riferimento al caso di specie, non vi è alcun dubbio che le dichiarazioni del collaboratore, non utilizzabili nella fase dibattimentale perché rese tardivamente nel corso delle indagini preliminari, possano costituire oggetto di prova dibattimentale – interrogatorio del collaboratore – assunta ritualmente nel contraddittorio delle parti. (5)
 
Cosicchè i giudici della legittimità nel salvaguardare il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale hanno sacrificato il principio legislativo della inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai collaboranti oltre il termine dei 180 giorni.
 
Infatti, hanno sostenuto che “neppure è ravvisabile nell’ipotesi di cui al comma IX dell’articolo 16 quater citato una inutilizzabilità assoluta per violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento perché è del tutto lecita, ed anzi, doverosa, nel nostro sistema processuale l’assunzione e la utilizzazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che valgono come prova – anche se questa deve essere valutata secondo i criteri dettati dall’articolo 192 comma III e IV c.p.p. -, né le dichiarazioni tardivamente rese dal collaboratore sono in grado di arrecare un pregiudizio grave ed irreparabile al diritto di difesa, dal momento che si tratta di una assunzione che si svolge secondo i canoni prescritti per siffatti atti nella fase delle indagini preliminari.” (6)
 
Se è così la norma controversa non può che essere incostituzionale. Una chiara disparità di trattamento tra chi “subisce” le dichiarazioni tardive in fase di indagini preliminari e chi invece nella fase dibattimentale.
 
Ma ad ogni modo l’obbligatorietà dell’azione penale è pur sempre legata a delle regole di garanzie nell’ambito della raccolta dell’utilizzazione della prova.
 
L’inutilizzabilità che dovrebbe indicare e stabilire “un divieto d’uso(7),con il nuovo principio dettato dalle Sezioni Unite si riducono notevolmente (se non addirittura si vanificano) le intenzioni del legislatore del 2001.
 
Secondo il dictum della Suprema Corte la norma, essendo stata disegnata nell’ambito del regime probatorio dibattimentale, non può che essere applicata in quella la sede.
 
Era questa la volontà legislativa?
 
E la questione diventa ancor più complessa e interessante nell’ambito del rito abbreviato anche se è notorio, secondo la giurisprudenza consolidata, che “l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai <<collaboratori di giustizia>> oltre il termine di 180 giorni dall’inizio della collaborazione (art. 16 quater del D.L. n. 8 del 1991, conv. con modd. in L. n. 82 del 1991, quale introdotto dall’art. 14 della L. n. 45 del 2001) non rientra fra le inutilizzabilità qualificabili come <<patologiche>> da cui sono colpiti gli atti probatori assunti contra legem e non è pertanto deducibile o rilevabile nel giudizio abbreviato.(8)   
 
L’atto, a nostro giudizio, però, è pur sempre viziato sin dalla sua origine e aver voluto separare le fasi processuali per salvare “l’efficacia” dell’atto compiuto fuori termine ci sembra una forzatura atteso che ci si pone sempre in contrasto con l’art. 191, comma 2° c.p.p. e con la precisa volontà del legislatore dell’anno 2001.
 
Riteniamo che sia assolutamente ragionevole e coerente con il dettato normativo, l’orientamento, ora disatteso, che le dichiarazioni tardive sono radicalmente e funzionalmente inidonei sotto l’aspetto probatorio, ex art. 191 c.p.p., non solo nelle fase di valutazione della prova ma in tutte le altri fasi del procedimento.
 
Si è sempre di fronte ad un’evidente trasgressione della legge. Né la scelta del rito abbreviato può ridurre le garanzie di legge poiché altrimenti si ha un illecito senza alcuna sanzione.
 
Se un atto è inutilizzabile per una fase del procedimento (nel caso che ci occupa in quella dibattimentale) non è dato comprendere perché mai debba ritenersi non assunto “contra legem” nelle fasi delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare.
 
In un interessante volume “L’inutilizzabilità nel processo penale”, Filippo Raffaele Dinacci (9)  scrive che: “mentre il diritto sostanziale costituisce con il suo apparato sanzionatorio la <<cintura del principe>>, il diritto processuale realizza quell’insieme di regole attraverso le quali deve o può trovare applicazione la norma penale; in altre parole, costituisce un apparato normativo che ha la funzione di limitare e non estendere il potere di chi lo esercita. Si è, quindi, al cospetto di un sistema di garanzia dell’individuo a fronte dell’aggressione che a questi porta l’autorità attraverso l’instaurazione di un procedimento.
Si comprende, pertanto, perché spesso e volentieri le regole processuali generino momenti di insofferenza operativa. Dietro lo schermo di un disprezzo delle forme quali inutili pretesti idonei solo a ritardare l’accertamento, non si tollera che il principio di legalità del processo implica che la procedura va riguardata <<come regola superiore e come limite al potere della magistratura>>”.
 
Da qui “una fioritura normativa di matrice giurisprudenziale diretta a qualificare come innocuo il vizio ovvero a ritenerlo rilevante solo se produttivo di una lesione in concreto del bene tutelato.
 
Secondo l’illustre autore nel nostro ordinamento sono state introdotte “regole giuridiche dirette a rimettere alla valutazione del giudice non la violazione dell’atto bensì la rilevanza sostanziale di quella violazione. In sostanza, si è perseguito un risultato esattamente opposto a quello che i conditores avevano immaginato. E non è un caso che l’azione giurisprudenziale diretta a <<svilire>> la conseguenza del vizio dell’atto genere, e dell’atto probatorio in specie, si concentri nella individuazione della violazione dei divieti e delle conseguenti sanzioni;; laddove divieti e sanzioni costituiscono “regole e limite al potere… antidoto all’errore ed a possibili abusi… tutela di valori talvolta antagonistici e superiori rispetto alle stesse esigenze dell’accertamento penale>>. Ecco allora che l’incapacità di sopportare i limiti di un potere che sono, come dire, l’altrui diritto.
 
 Il pronunciamento del Supremo Collegio di fatto ha “abrogato” l’articolo in commento.
 
 
 
 Giuseppe  Dacquì - giugno 2009
(riproduzione riservata)
 
 
(1) art. 14 L. 45/2001 che ha modificato l’art. 16 quater L. 15 Marzo 1991 n. 82
(2) cfr. Cass. Pen. 2003 – M. Fumo, Il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, tra velleità di riforma e resistenza del sistema pagg. 2910 – 2925
(3) cfr. sentenza Sez. Un. n. 1150/09 pag. 23
(4) cfr. ut supra pag. 10
(5) cfr. ut supra pagg. 13 – 14
(6) cfr. ut supra pagg. 13 – 14
(7) cfr. La prova penale – capitolo XLVII – pagg. 172-173 – UTET – anno 2008
(8) cfr. Cass. Pen. , Sez. V, 6 Agosto 2008, n. 32960, Bianco e altri
(9) cfr. Filippo Raffaele Dinacci  - L’inutilizzabilità nel processo penale – Struttura e funzione del vizio - pagg. 16 – 17 - Giuffrè Editore anno 2008

 
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