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 Corte Costituzionale, Sentenza 22 aprile 2009 (dep. 11 giugno 2009), n. 173

Sulla distruzione delle intercettazioni. Illegittimità costituzionale dell’art. 240, commi 4 e 5, c.p.p. nella parte in cui non prevede, per la disciplina del contraddittorio, l’applicazione dell’art. 401, commi 1 e 2, dello stesso codice. Illegittimità costituzionale dell’art. 240, comma 6, c.p.p. nella parte in cui non esclude dal divieto di fare riferimento al contenuto dei documenti, supporti e atti, nella redazione del verbale previsto dalla stessa norma, le circostanze inerenti l’attività di formazione, acquisizione e raccolta degli stessi documenti, supporti e atti.

 

SENTENZA N. 173
ANNO 2009
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco                AMIRANTE                                                    Presidente
- Ugo                         DE SIERVO                                                      Giudice
- Paolo                       MADDALENA                                                      ”
- Alfio                        FINOCCHIARO                                                    ”
- Alfonso                    QUARANTA                                                         ”
- Franco                     GALLO                                                                  ”
- Luigi                        MAZZELLA                                                           ”
- Gaetano                   SILVESTRI                                                            ”
- Sabino                     CASSESE                                                              ”
- Maria Rita                SAULLE                                                                ”
- Giuseppe                 TESAURO                                                             ”
- Paolo Maria             NAPOLITANO                                                     ”
- Giuseppe                 FRIGO                                                                   ”
- Alessandro               CRISCUOLO                                                        ”
- Paolo                       GROSSI                                                                 ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 1 del decreto-legge 22 settembre 2006, n. 259 (Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2006, n. 281, promossi dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con ordinanza del 30 marzo 2007, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Vibo Valentia con ordinanza del 21 maggio 2007 e dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con ordinanza del 13 dicembre 2007, rispettivamente iscritte al n. 508 del registro ordinanze 2007 ed ai nn. 50 e 84 del registro ordinanze 2008, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2007 e nn. 11 e 15, prima serie speciale, dell’anno 2008.
 Udito nella camera di consiglio del 22 aprile 2009 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.
Ritenuto in fatto
1. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, con ordinanza del 30 marzo 2007 (r.o. n. 508 del 2007), ha sollevato – in riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo, secondo e quarto comma, e 112 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 1 del decreto-legge 22 settembre 2006, n. 259 (Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2006, n. 281.
Il rimettente è investito del procedimento incidentale promosso dal pubblico ministero, in applicazione delle norme censurate, per la distruzione di supporti digitali recanti informazioni acquisite illegalmente, sequestrati e trattenuti dallo stesso pubblico ministero, con produzione per l’udienza di documenti cartacei che descrivono quanto in sequestro.
Il giudizio principale concerne il rapporto associativo asseritamente instaurato tra soggetti in diverse condizioni professionali: dirigenti e dipendenti di società riferibili ad un gruppo operante nel settore della telefonia, dirigenti e dipendenti di agenzie di investigazione privata, appartenenti o già appartenenti all’Arma dei Carabinieri, alla Guardia di Finanza, alla Polizia di Stato, al Sismi. Scopo dell’associazione criminosa sarebbe stata la raccolta illegale di informazioni riguardanti i più vari soggetti, con accesso a banche dati riservate per il tramite di pubblici funzionari corrotti o di dipendenti delle società di telefonia sopra citate. I dati sarebbero stati raccolti per conto dei responsabili delle agenzie di investigazione, in vista della remunerazione loro versata dai committenti delle attività investigative.
Le contestazioni elevate dal pubblico ministero – secondo quanto riferisce il rimettente – attengono al delitto previsto dall’art. 416 del codice penale, ed inoltre prospettano fatti di corruzione per atto contrario ai doveri dell’ufficio (art. 319 cod. pen.) e di rivelazione ed utilizzazione del segreto d’ufficio (art. 326 cod. pen.).
L’udienza camerale è stata promossa dal pubblico ministero con esclusivo riguardo ai documenti concernenti quattro delle numerose persone assoggettate ad illecite attività di indagine. Il giudice a quo riferisce che, in apertura dell’udienza medesima, questioni di legittimità costituzionale della disciplina concernente l’immediata distruzione dei supporti contenenti le informazioni acquisite illegalmente sono state prospettate dal rappresentante della pubblica accusa, dai difensori di tre delle quattro persone offese, ed anche dalla difesa di una delle persone soggette alle indagini.
1.1. – Allo scopo di motivare il proprio giudizio di rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, il rimettente ricostruisce i tratti essenziali del procedimento regolato dal nuovo testo dell’art. 240 cod. proc. pen. In particolare, viene posto in luce come il pubblico ministero debba formulare richiesta di distruzione del materiale informativo entro quarantotto ore dall’acquisizione (comma 3), come il giudice debba fissare l’udienza camerale entro le successive quarantotto ore e non oltre il decimo giorno dalla richiesta (comma 4), come l’eventuale provvedimento di accoglimento debba essere deliberato e pronunciato nell’udienza medesima, con contestuale ed immediata esecuzione (comma 5).
Sebbene sia chiaro che la sequenza deve muovere da un accertamento ragionevolmente sicuro della peculiare qualità del materiale da distruggere, l’intera struttura del procedimento esprime, a parere del rimettente, il carattere precoce e preliminare dell’adempimento, in armonia del resto con la ratio della previsione, che mira ad elidere in radice il rischio della pubblicazione di notizie riservate ed acquisite in modo illecito.
Sarebbe evidente inoltre, sempre secondo il giudice a quo, come la procedura di distruzione debba essere avviata anche quando le informazioni riservate coincidano con l’oggetto dell’attività delittuosa cui si riferisce il procedimento principale (nel caso di specie, la rivelazione del segreto di ufficio concernente dette informazioni).
1.2. – Il Tribunale ritiene che le norme censurate contrastino, anzitutto, con il secondo comma dell’art. 24 Cost., data l’illegittima compressione che ne deriva circa il diritto di difesa del soggetto indagato o imputato nell’ambito del procedimento principale.
In particolare, il rito camerale disciplinato dall’art. 240 cod. proc. pen. – anche attraverso il richiamo al modello generale dell’art. 127 – non varrebbe ad assicurare garanzie adeguate rispetto alla funzione cui la procedura è deputata, cioè la produzione di una prova, con valenza dibattimentale, della provenienza illecita delle informazioni recate dal documento destinato alla distruzione. La sola possibilità per il giudice di approfondire aspetti del fatto, data anche la forzata celerità del procedimento, consisterebbe nell’audizione delle parti presenti, e detta presenza, d’altro canto, sarebbe del tutto facoltativa (anche per quanto concerne i difensori tecnici e lo stesso pubblico ministero). In altre parole, la precostituzione della prova d’accusa sarebbe rimessa ad un contraddittorio solo eventuale e comunque sommario, il che varrebbe ad integrare l’ulteriore violazione dell’art. 111, primo, secondo e quarto comma, Cost.
Il rimettente precisa che non intende mettere in discussione la scelta legislativa per una formazione anticipata della prova rispetto alla sede dibattimentale. Tuttavia tale anticipazione dovrebbe riguardare anche le forme dell’accertamento dibattimentale, come avviene per l’incidente probatorio, in guisa da garantire l’effettivo contraddittorio tra le parti e la pienezza del loro diritto alla prova.
Peraltro, secondo il Tribunale, il disposto costituzionale sarebbe comunque violato per effetto della disciplina che concerne il verbale cui resta rimessa – a norma del comma 1-bis dell’art. 512 cod. proc. pen. – la prova delle attività illecite connesse alla formazione od acquisizione del materiale da distruggere. È infatti prescritto (comma 6 dell’art. 240 cod. proc. pen.) che il giudice «dia atto» della condotta illecita riscontrata e delle relative modalità, ed elenchi le persone interessate, ma è precluso ogni riferimento «al contenuto» dei «documenti, supporti e atti», e dunque alle informazioni la cui acquisizione sarebbe stata illegittima.
Ciò comporta, secondo il rimettente, che il giudice del merito non possa prendere diretta cognizione della prova, e limita la possibilità per l’accusato di difendersi, ad esempio negando il carattere segreto della notizia raccolta o la sua acquisizione con modalità illecite. Il riscontro delle tesi in questione resterebbe precluso, infatti, dopo la distruzione del supporto. Inoltre, quand’anche fosse raggiunta la prova di colpevolezza, il giudice sarebbe privo di informazioni essenziali per una adeguata quantificazione della pena, che non potrebbe prescindere dalla natura delle informazioni acquisite.
In sostanza, a parere del giudice a quo, «la procedura di distruzione non è solo una modalità di anticipazione nella formazione della prova – pure realizzata con modalità che non garantiscono il diritto di difesa – ma anche di anticipata eliminazione definitiva della prova, con diretto pregiudizio del diritto di difesa».
1.3. – La disciplina censurata implicherebbe conseguenze negative, con specifica violazione del primo comma dell’art. 24 Cost., anche nei confronti della persona offesa dal reato integrato con l’illecita acquisizione delle informazioni. Il diritto al risarcimento del danno sarebbe pregiudicato, infatti, dalla dispersione della prova necessaria per documentarne la sussistenza e la rilevanza in termini quantitativi, che dipende anche dalla natura dell’informazione carpita. In breve – e considerato che la prova circa il fondamento della pretesa risarcitoria deve essere fornita da colui che l’avanza – sarebbe pregiudicato proprio quel diritto alla riservatezza che la legge censurata vorrebbe garantire con la massima efficacia.
1.4. – Il giudice a quo prospetta, ancora, una violazione dell’art. 112 Cost., perché la distruzione della prova pregiudicherebbe l’esercizio del potere-dovere di perseguire, da parte del pubblico ministero, i reati finalizzati all’acquisizione illegittima delle relative informazioni. Il verbale «sostitutivo» prescritto dal legislatore, per le ragioni già indicate, potrebbe infatti risultare insufficiente. La precocità della distruzione, rispetto allo stesso sviluppo delle investigazioni preliminari, varrebbe d’altra parte a pregiudicare l’identificazione e la punizione di tutti i responsabili del fatto accertato.
1.5. – L’ordinanza di rimessione prospetta, in conclusione, una «irragionevolezza di fondo della normativa in oggetto, in comparazione con i valori che essa vuole proteggere». In sostanza, il legislatore non avrebbe compiuto un corretto bilanciamento tra le esigenze contrapposte, sacrificando completamente, in favore del diritto alla riservatezza, i valori connessi all’accertamento del fatto, tra i quali primeggia, per altro, proprio la tutela (in chiave sanzionatoria) del diritto di riservatezza della persona offesa.
2. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Vibo Valentia, con ordinanza del 21 maggio 2007 (r.o. n. 50 del 2008), ha sollevato – in riferimento agli artt. 24, 111, primo, secondo e quarto comma, e 112 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 1 del decreto-legge n. 259 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 281 del 2006.
Il rimettente è investito del procedimento incidentale promosso dal pubblico ministero, in applicazione delle norme censurate, per la distruzione di materiali pertinenti ad informazioni acquisite illegalmente. Si tratta, nella specie, del supporto digitale contenente documenti sonori, asseritamente relativi a conversazioni intrattenute da una persona di sesso femminile nell’abitacolo della propria vettura. I colloqui, stando alle contestazioni elevate dal pubblico ministero, sarebbero stati captati mediante l’uso di una microspia collocata nel veicolo dal marito dell’interessata. Quest’ultimo avrebbe minacciato di diffondere pubblicamente il contenuto delle conversazioni registrate se la donna non avesse rinunciato al giudizio di separazione da lei promosso ed al versamento della somma mensile già assegnatale dalla competente autorità giudiziaria.
Nel giudizio principale si procede, quindi, per i delitti di cui all’art. 615-bis (Interferenze illecite nella vita privata) ed agli artt. 56 e 629 (Estorsione tentata) del codice penale. Il supporto digitale indicato è stato prodotto nel corso dell’udienza preliminare dalla persona offesa, cui l’imputato l’aveva fatto pervenire per mezzo di un intermediario. Dopo l’acquisizione, la polizia giudiziaria ne ha verificato il contenuto, comunicando che si tratta di conversazioni scarsamente intellegibili, anche tra più persone, con forti rumori di traffico sullo sfondo. Il pubblico ministero, di conseguenza, ha promosso il procedimento incidentale regolato dalle norme censurate.
Nel corso dell’udienza camerale, peraltro, lo stesso pubblico ministero ha chiesto sollevarsi una questione di legittimità costituzionale con riguardo alla procedura avviata, ed alla richiesta si sono sostanzialmente associati i difensori della persona offesa e dell’imputato.
2.1. – In punto di rilevanza il rimettente osserva, anzitutto, come il materiale del quale è richiesta la distruzione costituisca il corpo del reato di cui all’art. 615-bis cod. pen., oltre che il mezzo per l’esecuzione del tentato delitto di estorsione. Lo stesso rimettente, tuttavia, pone un diverso problema circa l’effettiva applicabilità dell’art. 240 cod. proc. pen. alla fattispecie oggetto del giudizio.
La questione nasce dal tenore della norma censurata, che prescrive la distruzione «dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti». La lettera della legge, secondo il Tribunale, non comprende le comunicazioni tra presenti, e non potrebbe essere forzata fino al punto di ritenere che la specificazione circa l’uso di strumenti telefonici o telematici riguardi unicamente i «dati», con la conseguenza che il riferimento alle «conversazioni o comunicazioni» si estenderebbe anche ai casi di scambi comunicativi captati nell’ambiente in cui si svolgono.
Tuttavia, sempre a parere del Tribunale, la normativa sarebbe applicabile al caso di specie per il mezzo dell’analogia, che l’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile preclude per le sole leggi penali od eccezionali. Le previsioni censurate non sarebbero riconducibili ad alcuno dei due concetti. Per legge eccezionale, in particolare, dovrebbe intendersi una disposizione che, stante una disciplina generale per un dato fenomeno, introduce per alcune fattispecie una «interruzione della conseguenza logica» di tale disciplina. Nel caso in esame, secondo il rimettente, non esisterebbe una regola di portata generale rispetto alla quale le disposizioni censurate possano porsi in rapporto di deroga.
2.2. – Un primo profilo di illegittimità costituzionale è individuato dal giudice a quo nella violazione del diritto di difesa dell’indagato. Pur dovendo culminare la procedura camerale nella formazione di una prova circa l’illecita acquisizione dei dati, è adottato un modello procedimentale di forma semplificata, che non contempla accertamenti su iniziativa delle parti o del giudice e non prescrive la partecipazione necessaria del difensore dell’accusato. In sostanza, la procedura vorrebbe emulare quella dell’incidente probatorio, senza però riprodurne il carattere anticipatorio delle forme e delle garanzie dibattimentali, e dunque violando il secondo comma dell’art. 24 e l’art. 111, primo, secondo e quarto comma, Cost.
D’altra parte, il verbale la cui redazione è prescritta al giudice deve necessariamente omettere la descrizione delle informazioni acquisite illegalmente, ed è dunque inidoneo alla piena verifica dei fatti, che resta preclusa irrimediabilmente dopo la distruzione del supporto cui si riferisce il procedimento.
Proprio tale circostanza, secondo il rimettente, vale a documentare la violazione concomitante dell’art. 112 Cost., atteso che la precoce ed irrimediabile eliminazione della prova del reato contraddirebbe il principio del perseguimento obbligatorio del reato medesimo. In effetti la procedura regolata dalle norme censurate non è finalizzata ad accertare la responsabilità dell’indagato e, d’altra parte, nella sede deputata a tale accertamento, la prova necessaria non sarebbe più disponibile. La disciplina censurata, dunque, non varrebbe ad assicurare un ragionevole bilanciamento tra l’esigenza di protezione della riservatezza e l’interesse, di rango costituzionale, al perseguimento dei reati.
Infine, a parere del rimettente, sussiste una violazione del primo comma dell’art. 24 Cost. in relazione al diritto della persona offesa di ottenere un risarcimento per il torto subito, dato che la distruzione della prova pregiudica la possibilità di documentare in giudizio il fondamento della relativa pretesa. Giudizio che, nella specie, è lo stesso finalizzato alla verifica della responsabilità penale dell’imputato, posto che la vittima dell’illecita captazione si è costituita parte civile e si è opposta, non casualmente, all’applicazione di regole che pure dovrebbero tutelare il suo diritto alla riservatezza.
3. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, con ordinanza del 13 dicembre 2007 (r.o. n. 84 del 2008), ha sollevato – in riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo, secondo e quarto comma, e 112 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 1 del decreto-legge n. 259 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 281 del 2006.
Il rimettente è investito della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero in un procedimento per falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.), relativamente alle dichiarazioni rese, dal dirigente di una grande azienda multinazionale, nel giudizio civile che un dipendente della stessa azienda aveva promosso impugnando il proprio licenziamento. Tale dipendente, nell’opporsi ex art. 410 cod. proc. pen. all’accoglimento della richiesta di archiviazione, ha riferito tra l’altro di comportamenti vessatori dell’azienda, che si sarebbero spinti fino allo svolgimento di illecite attività di indagine sulla sua vita privata.
Secondo quanto riferito dal giudice a quo, le indagini in questione sarebbero state commissionate ad una delle agenzie investigative coinvolte nel procedimento ove è stata deliberata l’ordinanza r.o. n. 508 del 2007 (supra, § 1). Nel contesto di tale procedimento, sempre secondo il rimettente, sarebbe stato rinvenuto e sequestrato, tra gli altri, un incartamento relativo al dipendente poi licenziato.
Il Tribunale riferisce d’avere respinto una prima volta la richiesta di archiviazione, ordinando il compimento di ulteriori indagini, una delle quali consistente nell’acquisizione del dossier commissionato dalla società convenuta nella causa di lavoro cui già si è fatto cenno. Il pubblico ministero avrebbe dato corso alle altre richieste, facendo però constatare la giuridica impossibilità di procedere all’acquisizione dei documenti recanti le informazioni illegalmente raccolte con riguardo all’odierno opponente.
Tali informazioni infatti – sempre stando alle indicazioni poi riprese dal rimettente – sarebbero state acquisite mediante la corruzione di pubblici ufficiali. Il relativo materiale di supporto sarebbe dunque oggetto, a norma del comma 2 dell’art. 240 cod. proc. pen., di un divieto assoluto di utilizzazione e di riproduzione, ivi comprese le attività necessarie per «travasare» ed apprezzare gli elementi di prova nel procedimento in corso avanti al giudice rimettente.
Il Tribunale prosegue riferendo d’aver celebrato, a questo punto, una nuova udienza camerale, «per prendere cognizione della situazione», e che nel corso di tale udienza pubblico ministero ed indagato avrebbero insistito per l’accoglimento della richiesta di archiviazione, mentre la persona offesa avrebbe sollecitato un provvedimento di «imputazione coatta» con riguardo all’ipotizzato delitto di falsa testimonianza. Nessuna di tali soluzioni, però, risulterebbe «soddisfacente». Per un verso, infatti, la prova del dolo di falsa testimonianza non sarebbe allo stato adeguata. Essa potrebbe essere integrata, però, alla luce delle informazioni desumibili dal dossier (lo stesso rimettente riferisce, per altro, che il dirigente chiamato a testimoniare nella causa di lavoro, su circostanze pertinenti al rendimento del dipendente licenziato, era stato assunto dall’azienda in epoca successiva all’esaurimento delle «attività di spionaggio»).
A questo punto il giudice a quo, dato atto che nel procedimento concernente l’acquisizione illegale di informazioni (condotto da altro magistrato del suo stesso Ufficio) è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 240 cod. proc. pen. (supra, § 1), assume che, nell’ambito del procedimento di archiviazione che lo riguarda, sarebbe «necessario muoversi nella medesima direzione».
3.1. – Le questioni di legittimità sono prospettate, in sostanza, attraverso una sintesi del petitume degli argomenti che caratterizzano l’ordinanza r.o. n. 508 del 2007.
Venendo al caso per cui procede, il Tribunale evidenzia in particolare la compressione «dei diritti del denunziante e opponente alla richiesta di archiviazione». Infatti, il procedimento per falsa testimonianza sarebbe «collegato» a quello che concerne l’illecita raccolta delle informazioni, e la «testimonianza e l’atteggiamento soggettivo» dell’indagato potrebbero essere «illuminati e meglio compresi proprio disponendo di una conoscenza completa degli episodi assai inquietanti che l’avrebbero preceduta e cioè lo “spionaggio” illegale in danno del dipendente poi licenziato». La vittima delle illecite attività investigative potrebbe poi subire un pregiudizio, in vista della tutela della propria onorabilità, per la mancata conoscenza di dettaglio delle informazioni acquisite in suo danno, poiché il relativo supporto potrebbe essere stato riprodotto e distribuito a terzi prima dell’intervenuto sequestro.
Per tali ragioni la questione di legittimità dell’art. 240 cod. proc. pen. sarebbe rilevante anche nel giudizio a quo. In particolare, «pur apparendo di più diretta rilevanza, per le caratteristiche del caso in esame, con riferimento alla prospettabile violazione dell’art. 24 comma primo della Costituzione e quindi dei diritti delle persone offese», la questione dovrebbe essere sollevata per tutti i profili già evocati con l’ordinanza r.o. n. 508 del 2007, in forza di una loro asserita «inscindibilità».
Considerato in diritto
1. – Con le tre ordinanze indicate in epigrafe, i Giudici per le indagini preliminari dei Tribunali di Milano e Vibo Valentia sollevano questioni di legittimità costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 1 del decreto-legge 22 settembre 2006, n. 259 (Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2006, n. 281.
Le disposizioni vengono censurate in quanto stabiliscono che i supporti recanti dati illegalmente acquisiti a proposito di comunicazioni telefoniche o telematiche, o informazioni illegalmente raccolte, debbano essere distrutti in esito ad una udienza camerale celebrata dal giudice per le indagini preliminari, e che in proposito debba essere redatto un verbale, nel quale si dia «atto dell’avvenuta intercettazione o detenzione o acquisizione illecita», nonché «delle modalità e dei mezzi usati oltre che dei soggetti interessati», e tuttavia venga omesso qualsiasi «riferimento al contenuto» dei documenti, supporti ed atti concernenti le informazioni raccolte.
Anzitutto la disciplina contrasterebbe con gli articoli 24, secondo comma, e 111, primo, secondo e quarto comma, della Costituzione. Infatti la procedura prescritta dalle norme censurate, pur essendo finalizzata alla distruzione del corpo del reato concernente l’illecita acquisizione dei dati, e pur dovendo culminare nella formazione di un verbale destinato alla lettura in sede dibattimentale, si svolge in forma camerale, alla presenza solo eventuale delle parti e dei difensori, senza possibilità di approfondimenti istruttori, e dunque con esercizio solo eventuale del diritto di difesa e del contraddittorio.
Gli stessi parametri costituzionali risulterebbero violati anche in una diversa prospettiva: la distruzione dei supporti recanti le informazioni acquisite illegalmente, e la concomitante assenza di riferimenti all’oggetto ed alla natura di tali informazioni nel verbale destinato alla lettura dibattimentale, sarebbero pregiudizievoli per il diritto di difesa ed il diritto alla prova del soggetto accusato dell’illecita raccolta, impedendo la verifica del carattere riservato delle informazioni e, comunque, della loro acquisizione mediante modalità illecite.
Viene prospettata, ancora, una violazione del primo comma dell’art. 24 Cost., poiché la distruzione dei supporti di cui si tratta, e la concomitante assenza di riferimenti all’oggetto ed alla natura delle informazioni illegalmente acquisite nel verbale destinato alla lettura dibattimentale, pregiudicherebbero il diritto della persona offesa di agire in giudizio per ottenere il risarcimento del danno subito.
Sarebbe infine vulnerato il principio sancito nell’art. 112 Cost., in quanto la soppressione della prova del reato connesso all’illecita acquisizione dei dati comprometterebbe l’efficace esercizio dell’azione penale in relazione a tale reato, anche con riferimento ai fattori che rilevano per la quantificazione della pena in caso di condanna.
2. – In via preliminare, data la sostanziale identità delle questioni proposte dai Giudici rimettenti, è opportuno disporre la riunione dei relativi giudizi.
3. – La questione sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Vibo Valentia (r.o. n. 50 del 2008) è inammissibile.
Il rimettente ha posto in adeguato rilievo la circostanza che, nel caso sottoposto alla sua valutazione, non si discute dell’intercettazione di comunicazioni telefoniche o telematiche, ma dell’illecita captazione di colloqui tra persone presenti (trascurando, per altro, il problema della qualificazione penalistica di intercettazioni effettuate da soggetti privati nell’abitacolo di veicoli, la cui considerazione come luoghi di privata dimora è da lungo tempo controversa). Lo stesso giudice a quo, in particolare, ha osservato come il secondo comma dell’art. 240 cod. proc. pen. – cioè la norma che delimita l’oggetto della procedura regolata dalle disposizioni immediatamente successive – si riferisca a «dati e contenuti» concernenti comunicazioni relative a «traffico telefonico e telematico», e ne ha dedotto che la previsione non comprende la captazione di conversazioni attuate senza l’ausilio di mezzi tecnici di teletrasmissione. Tale opinione, che trova riscontro nella lettera della norma censurata, è stata significativamente anticipata nel corso della discussione parlamentare culminata con l’approvazione della legge n. 281 del 2006 ed è condivisa, inoltre, da molti degli studiosi che hanno commentato la disciplina in esame.
Sennonché, proprio in aderenza alla conclusione cui perviene il rimettente, deve constatarsi l’irrilevanza della questione sollevata, posto che il materiale preso in esame nel giudizio a quo non è compreso nell’ambito dei documenti assoggettabili alla procedura di distruzione. Non può condividersi, in particolare, l’assunto secondo cui l’elencazione contenuta nel comma 2 dell’art. 240 cod. proc. pen. sarebbe suscettibile di estensione in via analogica, secondo il disposto dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile. L’interpretazione analogica è preclusa tra l’altro, a norma dell’art. 14 delle disposizioni appena citate, per le cosiddette leggi eccezionali. Si comprende facilmente, pur senza accedere ad una ricostruzione di dettaglio delle norme sull’utilizzazione processuale e sulla destinazione delle cose in sequestro, che la procedura di distruzione immediata dei materiali in discussione costituisce, per una molteplicità di profili, una deroga a disposizioni di carattere generale.
La durata del sequestro cosiddetto probatorio, quando non ricorrono i presupposti per la restituzione della cosa sequestrata all’avente diritto, coincide con la durata del relativo procedimento penale (art. 262 cod. proc. pen.), fatta eccezione per alcune ipotesi che, a loro volta, sono derogatorie d’una regola generale. Gli stessi documenti anonimi, alla cui disciplina il legislatore del 2006 ha voluto accostare la normativa censurata in questa sede, sono distrutti solo dopo cinque anni, sempre che non si tratti di corpo del reato e che non provengano comunque dall’imputato, nel qual caso sono acquisiti agli atti del procedimento (art. 240, comma 1, cod. proc. pen., e art. 5 del regolamento per l’esecuzione del codice di procedura penale, approvato con decreto ministeriale 30 settembre 1989, n. 334).
Si deve ribadire, dunque, che la disciplina censurata presenta carattere eccezionale e come tale va applicata secondo regole di stretta interpretazione. Da ciò deriva che il rimettente non è chiamato a fare applicazione delle norme da lui stesso sospettate di illegittimità costituzionale. La questione sollevata, di conseguenza, è inammissibile per difetto di rilevanza.
4. – Ad una conclusione analoga si deve pervenire con riguardo alla la questione sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con l’ordinanza r.o. n. 84 del 2008.
Risulta infatti, con chiarezza, che il rimettente non deve fare alcuna applicazione delle norme oggetto di censura, non essendo giudice di una procedura incidentale regolata dai commi 3 e seguenti dell’art. 240 cod. proc. pen.
Le doglianze del rimettente si concentrano, in sostanza, sulla preclusione dell’accesso ad una prova raccolta in un diverso procedimento. Sennonché tale preclusione scaturisce, per il divieto di utilizzazione e comunque per l’impossibilità di formare copie del materiale sequestrato, dal secondo comma dell’art. 240 cod. proc. pen., norma che lo stesso rimettente non ha censurato. Egli ha inteso riprendere, piuttosto, rilievi concernenti la procedura finalizzata alla distruzione dei supporti recanti le indagini asseritamente compiute a carico dell’opponente, cioè disposizioni procedurali che, nella sua prospettiva, sono del tutto irrilevanti. La questione dei diritti e delle garanzie spettanti alla vittima della presunta acquisizione illegale di informazioni ha motivo di porsi solo nella procedura incidentale finalizzata alla distruzione dei relativi supporti, e questo vale per qualunque conseguenza possa derivare, in via di fatto, dall’accoglimento della relativa richiesta.
5. – La questione di legittimità costituzionale proposta dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con l’ordinanza r.o. n. 508 del 2007 è fondata, nei limiti di seguito precisati.
5.1. – Le ragioni delle censure del rimettente nei confronti delle disposizioni oggetto del presente giudizio poggiano sulla ritenuta irragionevole sproporzione tra la tutela apprestata per il diritto alla riservatezza e quella assicurata al diritto di difesa, al diritto di azione ed ai principi del giusto processo e di obbligatorietà dell’azione penale. Nel bilanciamento tra i suddetti diritti e principi fondamentali, il legislatore avrebbe sacrificato pressoché interamente i secondi in favore del primo. Da questa considerazione il giudice a quo fa discendere il petitum dell’atto introduttivo, consistente nella richiesta di declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate.
5.2. – L’assunto del rimettente può essere condiviso solo in parte, proprio per l’esigenza, dallo stesso sottolineata, di mantenere nella disciplina in materia un corretto equilibrio tra diritti e principi fondamentali.
Deve preliminarmente porsi in rilievo che la normativa oggetto della presente questione è stata approvata per porre rimedio ad un dilagante e preoccupante fenomeno di violazione della riservatezza, che deriva dalla incontrollata diffusione mediatica di dati e informazioni personali, sia provenienti da attività di raccolta e intercettazione legalmente autorizzate, sia – fatto più grave, che riguarda direttamente il presente giudizio – effettuate al di fuori dell’esercizio di ogni legittimo potere da pubblici ufficiali o da privati mossi da finalità diverse, che comunque non giustificano l’intrusione nella vita privata delle persone.
La preoccupazione del legislatore è stata quella di evitare che la doverosa osservanza delle norme che impongono la pubblicità degli atti del processo possa risolversi in un ulteriore danno per le vittime delle illecite interferenze, le quali, oltre ad aver subito indebite intrusioni nella propria sfera personale, rimarrebbero esposte, per un lungo periodo, al rischio che il frutto dell’attività illegale di informazione e intercettazione possa diventare strumento di campagne diffamatorie e delegittimanti nei loro riguardi. Il pericolo è apparso aumentato per la constatazione, di comune esperienza, che non è garantita, nelle condizioni normative ed organizzative attuali, una adeguata tenuta della segretezza degli atti custoditi negli uffici giudiziari, come purtroppo dimostrano le frequenti «fughe» di notizie e documenti.
L’intento di prevenire tali possibili abusi ha indotto lo stesso legislatore ad introdurre una disciplina derogatoria rispetto alla normativa ordinaria sulla conservazione del corpo di reato: i documenti, i supporti e gli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni e comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati e acquisiti, devono essere distrutti, per disposizione del giudice per le indagini preliminari, al più presto possibile, nell’ambito di un procedimento incidentale molto rapido, che deve precedere la chiusura delle indagini preliminari.
6. – Ritiene questa Corte che la finalità di assicurare il diritto inviolabile alla riservatezza della corrispondenza e di ogni altro mezzo di comunicazione, tutelato dagli artt. 2 e 15 Cost. (ex plurimis,sentenze n. 366 del 1991, n. 81 del 1993, n. 463 del 1994, n. 372 del 2006), cui deve aggiungersi uguale diritto fondamentale riguardante la vita privata dei cittadini nei suoi molteplici aspetti, non giustifichi una eccessiva compressione dei diritti di difesa e di azione e del principio del giusto processo. La limitazione in eccesso deriva dall’aver delineato il procedimento incidentale, volto alla distruzione del materiale sequestrato di cui sopra, secondo il modello processuale di cui all’art. 127 cod. proc. pen., nella parte in cui configura un contraddittorio solo eventuale.
Peraltro lo stesso comma 5 dell’art. 240 cod. proc. pen. fa riferimento all’obbligo per il giudice di sentire solo le parti «comparse» e rende in tal modo incontrovertibile il carattere tendenzialmente sommario della procedura.
A ciò si deve aggiungere che il provvedimento con cui il giudice ordina la distruzione del corpo di reato (a prescindere dalla sua discussa impugnabilità) determina, in forza dell’immediata esecuzione materiale, la conseguenza che qualunque violazione dei diritti delle parti, derivante dall’imperfezione del contraddittorio, diviene irreparabile.
6.1. – L’irreparabilità delle eventuali violazioni dei diritti delle parti non è compensata dalla sostituzione dei documenti, atti e supporti fisicamente eliminati con il verbale di cui al comma 6 dell’art. 240 cod. proc. pen., giacché il divieto di inserire nel verbale alcun riferimento al contenuto dei predetti documenti, supporti e atti e l’espressa limitazione della descrizione alle «modalità e ai mezzi» con cui il materiale è stato acquisito, determinano, nel seguito del procedimento, una condizione di estrema difficoltà nell’esercizio del diritto di difesa degli imputati, del diritto al risarcimento dei danni delle parti offese e nell’effettivo esercizio dell’azione penale, da parte del pubblico ministero.
Inoltre, una restrizione del contraddittorio nell’ambito di un procedimento che, per il fatto di culminare nella distruzione di corpi di reato, incide fortemente sullo svolgimento successivo del processo, costituisce, di per sé, una violazione dei principi del giusto processo, dettati dall’art. 111 Cost. La medesima restrizione produce pure, come conseguenza inevitabile della prima illegittimità, una eccessiva limitazione dei diritti di difesa e di azione e dell’efficiente esercizio dell’azione penale. Sulla base di questa considerazione, lo scrutinio di costituzionalità si deve appuntare sull’effetto combinato della norma che limita il contraddittorio nel procedimento incidentale de quo e di quella che prescrive la formazione di un verbale – come si vedrà meglio appresso – troppo povero di contenuti.
Nel corso dei lavori parlamentari, che hanno preceduto l’approvazione delle norme censurate, è stato sottolineato che, a causa del contenuto troppo limitato del verbale sostitutivo, si introduceva una «prova diabolica», che le parti non sarebbero state in grado di sostenere. A tal proposito, si deve ricordare che questa Corte ha affermato e ribadito nella propria giurisprudenza che non è sufficiente l’astratta previsione del diritto di difesa (e, più in generale, dei diritti delle parti nel processo), ma è necessario che sia garantito il suo effettivo esercizio (ex plurimis, sentenze n. 212 del 1997, n. 62 del 2008, n. 20 del 2009). La determinazione, per effetto di previsioni normative, di situazioni di grave difficoltà nel normale esercizio del diritto delle parti alla prova incide sulla sua effettività ed è, alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza citata, costituzionalmente inaccettabile.
6.2. – D’altra parte, la pressante esigenza di dare al diritto fondamentale alla riservatezza una tutela più intensa, rispetto a quella, rivelatasi insufficiente, del recente passato, induce a ritenere non irragionevoli particolari modalità di trattamento del materiale probatorio, che riescano a contemperare tutti i diritti e principi fondamentali coinvolti in questa delicata materia. Le modalità di bilanciamento tra i suddetti diritti e principi sono molteplici e non spetta a questa Corte, ma al legislatore, individuare possibili soluzioni nell’ambito della disciplina del processo penale. Nel presente giudizio le valutazioni che il giudice delle leggi è chiamato ad esprimere sono necessariamente limitate dall’oggetto della questione ed in questa cornice deve essere ricercato il punto di equilibrio tra le diverse e potenzialmente opposte esigenze, tutte costituzionalmente protette, che vengono in rilievo. Diversi e migliori equilibri possono essere individuati dal legislatore – dotato di poteri innovativi non istituzionalmente attribuiti a questa Corte – nel rispetto dei diritti e dei principi evocati nel presente giudizio.
Se si parte da questo presupposto, si deve escludere che la caducazione totale delle norme censurate dal rimettente possa essere idonea a restaurare l’equilibrio alterato dalle stesse. Ad uno squilibrio infatti se ne sostituirebbe un altro, giacché, come sopra detto, le regole del processo e l’insicurezza della tenuta del segreto degli atti custoditi negli uffici giudiziari esporrebbero le vittime ad un pericolo di divulgazione contrario alla misura minima di tutela della riservatezza delle persone in un ordinamento liberale e democratico, dove le ragioni di giustizia devono trovare adeguati strumenti processuali di realizzazione, senza però sacrificare eccessivamente ed inutilmente i diritti delle vittime incolpevoli di gravi interferenze nella loro vita privata, per di più con la motivazione che si vogliono tutelare proprio i loro interessi.
Ove fossero introdotte nell’ordinamento processuale precauzioni sufficienti ad impedire che la pubblicità del dibattimento determini inevitabilmente la pubblicazione di tutto il materiale probatorio, come, ad esempio, attualmente si verifica nei casi in cui il codice di rito prescrive l’udienza a porte chiuse; ove si avesse, inoltre, la ragionevole certezza che la custodia dei materiali relativi ad illecite interferenze nelle comunicazioni e nella vita privata fosse circondata da misure organizzative efficaci e presidiata da norme rigorose sulla tracciabilità dei percorsi dei materiali stessi e sull’individuazione dei soggetti istituzionalmente responsabili, anche a titolo di culpa in vigilando, allora drastiche misure di salvaguardia, come quelle introdotte dalle norme censurate, potrebbero non essere considerate indispensabili. Nell’attuale situazione di incertezza sull’effettività della tutela del diritto alla riservatezza, non è possibile cancellare, puramente e semplicemente, le norme che impongono la distruzione dei documenti, supporti e atti illecitamente acquisiti. Si devono invece ricondurre tali norme, nei limiti del possibile, al rispetto sia dell’equilibrio costituzionalmente necessario, sia della ratio emergente dalle medesime.
7. – Il risultato prima delineato si può conseguire recidendo il legame, istituito dal comma 4 dell’art. 240 cod. proc. pen., tra la procedura speciale di cui ai commi 3 e seguenti dello stesso articolo e l’art. 127 cod. proc. pen., nella misura in cui il richiamo a tale norma fa ricadere sulla procedura medesima le limitazioni del contraddittorio che connotano il modello generale del rito camerale. D’altronde, lo stesso legislatore ha manifestato in modo chiaro l’intenzione di dettare una normativa mirata alla formazione di una fonte di prova anticipata rispetto alle successive fasi del processo. Ne consegue che tale scopo deve essere perseguito nel rispetto dei principi del giusto processo, del diritto di difesa e di azione e dell’effettivo esercizio dell’azione penale, che si concretizzano in una rigorosa prescrizione del contraddittorio tra le parti, come quella contenuta nell’art. 401, commi 1 e 2, cod. proc. pen., che disciplina l’udienza relativa all’incidente probatorio. Tale ultima normativa deve naturalmente estendersi ad una fattispecie processuale, come quella oggetto del presente giudizio, per effetto dei principi costituzionali di cui agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo, secondo e quarto comma, e 112 Cost.
Il contraddittorio è garanzia insostituibile nell’ordinamento processuale di uno Stato di diritto e i potenziali aggravi di lavoro – in presenza di procedimenti con molte parti – si devono fronteggiare con idonee misure organizzative e di gestione dei processi, non certo con la irragionevole compressione dei diritti garantiti dalla Costituzione.
8. – Il secondo fattore che contribuisce all’effetto combinato di illegittimità costituzionale – di cui s’è detto al paragrafo 6 – si deve individuare nella insufficiente attitudine del verbale sostitutivo, quale prefigurato dal censurato comma 6 dell’art. 240 cod. proc. pen., a rappresentare i fatti, dai quali il giudice del merito dovrà trarre le sue valutazioni. Il rimettente pone a base di uno dei motivi addotti per sostenere l’illegittimità costituzionale di tale norma la considerazione che la stessa introdurrebbe una sorta di giudizio anticipato, destinato a condizionare indebitamente la pronuncia del giudice del merito. Si deve osservare, in proposito, che la lettura della suddetta disposizione porta a conclusioni diverse.
La legge prescrive che nel verbale in questione si dia «atto dell’avvenuta intercettazione o detenzione o acquisizione illecita dei documenti, dei supporti e degli atti», anzitutto in considerazione del fatto che l’atto deve documentare le conclusioni delle parti. Il verbale non può esplicare alcuna efficacia valutativa che non sia strettamente circoscritta alla decisione di distruggere il materiale, e, nella propria funzione concomitante (e primaria) di prova «sostitutiva» del corpo di reato, non può esercitare alcun condizionamento sulla decisione da assumere nell’ambito del procedimento principale.
Proprio la necessaria natura descrittiva del verbale sostitutivo impone che lo stesso non si limiti a contenere i dati relativi alle «modalità e ai mezzi» usati ed ai soggetti interessati, ma debba altresì contenere tutte le indicazioni utili ad informare il giudice e le parti del successivo giudizio in merito alle circostanze da cui si possano trarre elementi di valutazione circa l’asserita illiceità dell’attività contestata agli imputati. La semplice descrizione delle modalità e dei mezzi utilizzati per raccogliere informazioni può non essere sufficiente a consentire un adeguato successivo controllo giudiziale, nel contraddittorio delle parti, sulla liceità o non della condotta degli imputati. Né questi ultimi, né le parti offese, né il pubblico ministero disporrebbero, nel giudizio di merito, di dati obiettivi sufficienti a suffragare le rispettive posizioni, difensive o accusatorie. Ecco perché è costituzionalmente necessario allargare le potenzialità rappresentative del verbale in questione, includendovi anche tutte le circostanze che hanno caratterizzato l’attività diretta all’intercettazione, alla detenzione ed all’acquisizione del materiale per il quale il pubblico ministero ha chiesto l’avvio del procedimento incidentale de quo. Il giudice del merito deve poter disporre di tutti gli elementi necessari per valutare, senza alcun condizionamento derivante dalla decisione presa nel procedimento incidentale, e nel contraddittorio tra le parti, se l’assunto accusatorio del pubblico ministero abbia o non fondamento.
L’inserimento nel verbale della descrizione delle circostanze relative all’attività asseritamente illecita di cui sopra comprende, ove sia necessario, soltanto i dati conoscitivi sulla natura e sulle caratteristiche formali dei documenti, supporti ed atti (con esclusione, ai sensi del comma 6, di ogni riferimento alle informazioni in essi contenute), da cui, in correlazione alle circostanze di luogo, di tempo e di contesto della loro acquisizione, si possono trarre elementi di giudizio sulla liceità dei comportamenti degli imputati.
La correttezza e l’obiettività del verbale sostitutivo sono garantite dalla formazione dello stesso nel contraddittorio tra le parti. Il rischio che nel corso di tale procedura possa verificarsi una illecita divulgazione delle notizie riservate, in ipotesi illegalmente acquisite, è attenuato dal divieto di effettuare copia in qualunque forma degli stessi, contenuto nel comma 2 dell’art. 240 cod. proc. pen.; sarà cura degli uffici giudiziari e dei responsabili degli stessi prevenire ogni violazione di tale divieto.
Per le ragioni sopra esposte, questa Corte ritiene di dover accogliere solo parzialmente la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice rimettente, per ripristinare un corretto equilibrio tra i parametri costituzionali evocati. È appena il caso di ripetere che l’equilibrio così raggiunto non è l’unico in assoluto possibile, ma è l’unico realizzabile tenendo conto della legislazione data e dei limiti costituzionali di intervento del giudice delle leggi.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 240, commi 4 e 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede, per la disciplina del contraddittorio, l’applicazione dell’art. 401, commi 1 e 2, dello stesso codice;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 240, comma 6, cod. proc. pen., nella parte in cui non esclude dal divieto di fare riferimento al contenuto dei documenti, supporti e atti, nella redazione del verbale previsto dalla stessa norma, le circostanze inerenti l’attività di formazione, acquisizione e raccolta degli stessi documenti, supporti e atti;
dichiarainammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, cod. proc. pen., sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Vibo Valentia, in riferimento agli artt. 24, 111, primo, secondo e quarto comma, e 112 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n. 50 del 2008);
dichiarainammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, cod. proc. pen., sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, in riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo, secondo e quarto comma, e 112 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n. 84 del 2008).
  Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 aprile 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 giugno 2009.

 

 
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