Con il D.L. 23 febbraio 2009, n. 11 (“Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”) il Governo era intervenuto nuovamente in materia di sicurezza pubblica. La materia oggetto dell’intervento è stata in questa occasione quella dei reati sessuali ed infatti il preambolo del decreto esplicitamente giustificava la sua adozione con «l’allarmante crescita degli episodi collegati alla violenza sessuale», ma il testo normativo presentava orizzonti più ampi, raffinando ulteriormente alcune disposizioni in materia di immigrazione clandestina, regolamentando il coinvolgimento dei cittadini nel controllo del territorio ed introducendo l’inedita disciplina penale di “Atti persecutori”, il cd. stalking.
Va peraltro subito sottolineato che alcune delle disposizioni che hanno caratterizzano il decreto – e cioè quelle penali e processuali in materia di violenza sessuale – sono state estrapolate dal d.d.l. n. 733 (il cd. collegato sicurezza, destinato a completare il pacchetto normativo varato l’anno passato con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito nella legge 24 luglio 2008, n. 125), già approvato dal Senato il 5 febbraio scorso ed attualmente in discussione alla Camera dei Deputati.
Le disposizioni sullo stalking a loro volta provengono da un testo parlamentare e più precisamente il d.d.l. n. 1440, anch’esso già approvato da uno dei due rami del Parlamento (la Camera) il 29 gennaio scorso e gia trasmesso all’altro.
La legge 23 aprile 2009, n. 38, ha ora convertito il d.l. n. 11 del 2009, apportando alcune modifiche anche alle disposizioni penali.
1. Le modifiche al codice penale.
1.1 Le modifiche all’art. 576 n. 5) cod. pen.. L’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto legge (convertito senza modifiche sul punto dalla legge n. 38 del 2009) ha riformulato l’aggravante del reato di omicidio doloso prevista al n. 5) dell’art. 576 cod. pen., configurando la comminatoria dell’ergastolo nell’ipotesi in cui il delitto venga realizzato «in occasione della commissione» dei delitti di violenza sessuale (art. 609-bis cod. pen.), di atti sessuali con minorenne (art. 609-quater cod. pen.) e di violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies cod. pen.).
La novella realizza, dunque, quell’opportuno adeguamento dell’aggravante “sessuale” dell’omicidio volontario che la diversa collocazione, ad opera della L. n. 66 del 1996, dei reati sessuali imponeva e che il legislatore dell’epoca aveva invece trascurato.
Infatti, l’art. 576, primo comma, n. 5) cod. pen., che già contemplava l’aggravante in questione, continuava a fare esplicito riferimento ai reati previsti dagli abrogati artt. 519, 520 e 521 cod. pen..
Alla lacuna legislativa ha fino ad ora posto rimedio la giurisprudenza di legittimità, la quale, qualificando come “mobile” o “formale” e non “recettizio” il rinvio operato agli articoli abrogati dalla norma in commento, ha sostanzialmente riconosciuto l’irrilevanza del difetto di coordinamento legislativo e la riferibilità dell’aggravante alle fattispecie di violenza sessuale, non abolite dalla loro formale ricollocazione ad opera della riforma del 1996, piuttosto che alle norme che le contemplano (in questo senso si v. da ultima Sez. I, 12 dicembre 2007, n. 2120, Barbato, rv. 238638).
Interpretazione questa che parte della dottrina ha ritenuto insufficiente a consentire di estendere l’ambito di applicazione dell’aggravante anche alla fattispecie di violenza sessuale di gruppo di cui all’art. 609-octies cod. pen., non prevista nell’assetto normativo previgente.
La Suprema Corte ha avuto modo però di superare anche queste riserve, rilevando come il nucleo essenziale del nuovo reato introdotto dalla riforma del 1996 coincida con quello dell’art. 609-bis cod. pen., fattispecie da cui si differenzia esclusivamente per l’elemento specializzante del necessario concorso di più persone nella perpetrazione della violenza sessuale. In tal senso, secondo la Corte, la condotta tipica del nuovo reato ha trovato una autonoma e più severa punizione nella norma di più recente introduzione, ma non era certo estranea al sistema di incriminazioni definito dagli artt. 519-521 richiamati dal n. 5) dell’art. 576 cod. pen. (v. in tal senso Sez. I, 28 gennaio 2005, n. 6775, p.g. in proc. Erra, rv 230149).
L’intervento del legislatore comunque dissolve ogni residuo dubbio sull’applicabilità dell’aggravante in caso di violenza di gruppo, atteso che la relativa fattispecie viene ora espressamente contemplata dalla norma che configura la circostanza.
La reale novità introdotta attraverso la riformulazione dell’aggravante è però costituita dalla ridefinizione del vincolo di connessione tra la condotta omicidiaria e quella a sfondo sessuale.
Mentre, infatti, il testo previgente dell’art. 576 n. 5) cod. pen. connotava tale vincolo attraverso la formula: «nell’atto di commettere», tradizionalmente interpretata negli ultimi vent’anni dalla giurisprudenza in termini di necessaria contestualità cronologica tra la condotta (non necessariamente anche l’evento) dell’omicidio e quella di abuso sessuale (v. ex pluribus e da ultima Sez. I, 12 dicembre 2007, Barbato, cit.), quello introdotto dal decreto legge, come accennato, è ricorso alla diversa formula: «in occasione della commissione».
Appare dunque opportuno interrogarsi sull’effettiva portata di tale modifica e va detto, sin da ora, che in proposito potrebbe risultare in qualche modo fuorviante quanto si legge nella Relazione illustrativa del decreto legge, e cioè che la modifica renderebbe «applicabile la pena dell’ergastolo nel caso in cui dalla commissione dei reati di cui trattasi derivi la morte della vittima» (né, peraltro, durante l’iter della legge di conversione si è sviluppato un qualche dibattito sul punto).
In proposito va ricordato come l’area di operatività dell’aggravante in questione sia tradizionalmente delimitata, secondo il parere unanime della dottrina, per un verso dal suo assorbimento in quella teleologica di cui all’art. 576, primo comma, n. 1) cod. pen., qualora lo stupro costituisca il mezzo per cagionare la morte della vittima, e per l’altro dall’eventualità che la morte della vittima rappresenti invece una conseguenza non voluta della condotta di abuso sessuale, circostanza che esclude la configurabilità stessa del reato di omicidio volontario, incasellando il fatto nella la figura criminosa di cui all’art. 586 cod. pen.
La nuova formula adottata dal Governo non sembra, come detto, travolgere questi paletti, quanto, piuttosto, voler attenuare la rigidità del vincolo di contestualità tra le due condotte criminose così come emerge dall’interpretazione giurisprudenziale.
In tal senso la scelta del criterio di connessione occasionale sembra poter attribuire all’aggravante un ambito di applicazione più ampio che nel passato, consentendo di ritenere, tra l’altro, che non necessariamente la vittima dell’omicidio e dell’abuso sessuale debbano coincidere (si pensi ad esempio allo stupratore che, dopo aver consumato la violenza, si accorga della presenza di un testimone che vi abbia assistito e decida di ucciderlo).
Se questa fosse effettivamente la nuova latitudine da attribuire all’aggravante, in tutti i casi in cui non dovesse ritenersi sussistere concorso formale (quindi, unicità di azione) tra omicidio e violenza sessuale potrebbe allora doversi rivedere un altro tradizionale arresto della giurisprudenza e della dottrina e cioè quello per cui il secondo delitto rimane assorbito nel primo secondo lo schema del reato complesso di cui all’art. 84 cod. pen. (v. in questo senso da ultimo Sez. I, 29 gennaio 2008, n. 12680, Giorni, rv 239365).
2. Il nuovo delitto di atti persecutori, c.d. stalking. L’art. 7, comma 1, del decreto legge (convertito anch’esso senza modificazioni dalla legge n. 38 del 2009) ha introdotto nel codice penale, all’art. 612-bis, l’inedita fattispecie di «Atti persecutori», formula con la quale è stato interpretato il termine di estrazione anglosassone (stalking: da to stalk, letteralmente “fare la posta alla preda”), utilizzato anche dalla dottrina italiana per definire le condotte di insistita interferenza nella sfera privata altrui.
Si tratta di un delitto doloso (che si prescrive in sei anni ed è di competenza del tribunale monocratico) inserito tra quelli contro la libertà morale e punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni, la cui fattispecie ha ad oggetto le «condotte reiterate» di minaccia o molestia che determinano nella persona offesa «un perdurante e grave stato di ansia o paura», ovvero ingenerano nella medesima «un fondato timore» per la propria incolumità o per quella di un prossimo congiunto o di altra persona alla stessa legata da un vincolo affettivo, o, ancora, la costringono «ad alterare le proprie abitudini di vita».
La condotta tipica si identifica, in definitiva, in quelle di minaccia e di molestia già contemplate dall’ordinamento penale.
La prima, oltre a costituire elemento costitutivo di diversi reati (si pensi, ad esempio, alla violenza privata, alla rapina o all’estorsione), è oggetto della specifica incriminazione di cui all’art. 612 cod. pen. e nella tradizionale e consolidata interpretazione essa consiste nella prospettazione di un male futuro, in adesione al significato che il termine assume nel linguaggio comune.
Molestare significa invece, sempre secondo il senso comune, alterare in modo fastidioso od importuno l’equilibrio psichico di una persona normale. E questo è sostanzialmente il significato evocato nell’art. 660 cod. pen. (l’unica fattispecie che utilizzi tale terminologia), laddove viene fatto riferimento alla molestia alle persone (peraltro la norma citata utilizza il concetto non per definire la condotta, bensì il suo risultato e cioè la molestia sofferta dalla vittima di una condotta idonea a produrla).
Va peraltro evidenziato, a scanso di equivoci, che solo apparentemente il reato in oggetto presenta una forma vincolata.
Per un verso, infatti, la stessa condotta di minaccia può assumere molteplici forme, per l’altro quella di molestia si caratterizza per l’intrusione nella sfera individuale altrui, ma, al di là di questo vincolo, rimane a forma libera.
Quelle di minaccia e di molestia sono comunque nozioni elastiche, idonee a provocare qualche tensione dei principi di tassatività e determinatezza, ma la selezione da parte del legislatore di una terminologia che vanta una robusta tradizione interpretativa può ritenersi tutto sommato tranquillizzante argine contro pericolose estensioni dell’ambito della norma incriminatrice nella prassi applicativa.
In fondo rinchiudere una realtà criminologia così vasta e complessa, come quella cui intende fare riferimento la nuova incriminazione, in formule di maggior dettaglio, ma anche più rigide, avrebbe rischiato di renderla inefficace e dunque il punto di equilibrio raggiunto, tra principi costituzionali ed esigenze di tutela, pare ragionevole.
Del resto la prospettiva comparatistica dimostra come anche gli ordinamenti stranieri che hanno deciso di dotarsi di incriminazioni analoghe, hanno incontrato simili difficoltà nel confezionare sintesi normative completamente soddisfacenti nella prospettiva segnalata.
Così ad esempio (naturalmente senza ambizione di completezza e rinviando per una più esaustiva analisi del profilo al dossier sullo stalking predisposto nel febbraio del 2009 dal Servizio Studi del Senato, che si può leggere all’indirizzo: www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Ddliter/dossier/33128_dossier.htm) nel Regno Unito il Protection from Harrasment Act del 1997 contempla una figura di reato corrispondente a quella dell’art. 612- bis cod. pen. che consiste in qualsivoglia condotta che possa costituire molestia per una persona oppure possa indurla a temere una imminente violenza su di sé. Analogamente in Germania, l’art. 238 StGB, riformulato nel marzo del 2007, punisce chi perseguiti illecitamente una persona cercando insistentemente la sua vicinanza, tenti di stabilire con essa un contatto tramite i mezzi di telecomunicazione o l’ausilio di terzi, ordini merci o servizi utilizzando abusivamente i suoi dati personali oppure induca un terzo a mettersi in contatto con esso, minacci con lesioni corporali l’incolumità, la salute e la libertà della vittima o di una persona ad essa vicina, oppure compia azioni simili che rechino grave pregiudizio all’organizzazione di vita di tale persona.
Come si vede, dunque, perfino la tecnica legislativa “casistica” utilizzata dal legislatore tedesco (indubbiamente quella che maggiormente consente il rispetto del vincolo di determinatezza) ha richiesto la configurazione di una clausola estensiva indefinita di “chiusura” al fine di garantire che la norma incriminatrice possa aderire alle infinite (e non prevedibili dall’astrazione normativa) sfaccettature che la condotta tipica può assumere nella realtà.
Tornando all’esame dell’art. 612-bis cod. pen., va evidenziato che la tipicità delle condotte di minaccia o di molestia è caratterizzata, per espressa volontà della norma incriminatrice, dalla loro reiterazione.
Per la sussistenza del reato è dunque necessaria la realizzazione di una pluralità di comportamenti tipici, non importa se omogenei od eterogenei tra loro.
Quello introdotto dal decreto è un modello che evoca la figura del cd. reato “abituale” o a condotta reiterata.
Quello di atti persecutori, tuttavia, a differenza delle riconosciute figure di reato abituale, è caratterizzato, come si ribadirà, dalla necessità che le “condotte reiterate” producano determinati eventi.
L’utilizzo del verbo “reiterare” suggerisce altresì che tali comportamenti debbano necessariamente succedersi nel tempo e non rilevino, invece, qualora realizzati in un unico contesto. Conclusione asseverata, come subito si vedrà, proprio dalla natura degli eventi che completano la fattispecie oggettiva e che appare compatibile con le stesse ragioni dell’intervento legislativo.
Come infatti emerge dal dibattito parlamentare sul d.d.l. n. C1440 (il cui testo, approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati nei mesi scorsi, è stato utilizzato, come già accennato, per la redazione del D.L. n. 11 del 2009 ed i cui lavori parlamentari, dunque, costituiscono un importante punto di riferimento per l’interprete) la nuova norma incriminatrice intende colmare una lacuna di tutela determinata dall’incapacità delle incriminazioni di minaccia, molestie, e violenza privata a fornire una adeguata risposta repressiva al peculiare profilo criminologico di colui che pone in essere comportamenti consimili in maniera seriale.
Mentre le incriminazioni tradizionali sono tendenzialmente calibrate sull’episodio singolo, potendo al più la reiterazione della condotta illecita dare vita ad un ipotesi di reato continuato, quella di nuovo conio elegge proprio la serialità dei comportamenti ad elemento costitutivo, perché è in tale serialità (e non già nell’entità delle condotte che la compongono) che individua l’effettiva misura della lesione del bene tutelato, come suggerito dalla stessa rubrica legis.
Se dunque lo stillicidio persecutorio rappresenta “l’in sé” dell’incriminazione, appare inevitabile concludere che i singoli comportamenti, per essere rilevanti, debbano, per l’appunto, succedersi nel tempo.
Condivisibilmente, peraltro, il legislatore non ha posto in proposito dei vincoli precisi, atteso che la determinazione di questo “tempo” non è misurabile a priori (dipendendo dalle peculiarità del caso concreto), potendo essere concentrato nell’arco di pochi giorni, come dilatato in quello di molti mesi.
Come accennato, il delitto in esame è (anche) reato di evento.
La fattispecie incriminatrice, infatti, richiede, in forma alternativa, la realizzazione di uno tra tre tipi di evento.
Le “condotte reiterate” di minaccia o molestia devono cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura nella vittima ovvero ingenerare nella stessa un fondato timore per la propria incolumità o per quella di persone a lei vicine o, infine, costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita.
Il primo tipo di evento è indubbiamente quello che presenta il profilo più problematico.
Per soddisfare il requisito di determinatezza (nella parte in cui esprime l'esigenza che le norme penali descrivano fatti suscettibili di essere accertati e provati attraverso i criteri messi a disposizione dalla scienza e dall'esperienza attuale) deve ritenersi che la formula normativa intenda riferirsi a forme patologiche caratterizzate dallo stress e specificamente riconoscibili proprio come conseguenza del tipo di comportamenti incriminati, le quali, sebbene non sempre compiutamente codificate, trovano riscontro nella letteratura medica.
In tal senso, infatti, il legislatore non si è limitato a descrivere la momentanea impressione determinata nel soggetto passivo dai comportamenti tipizzati (alcuni dei quali, si pensi ad esempio alla minaccia, sono per loro stessa natura destinati a suscitare “paura”), ma ha descritto lo stato indotto nella vittima attraverso il ricorso a connotazioni come “grave” e “perdurante”, le quali, per l’appunto, sembrano evocare una situazione di disequilibrio psicologico che assume carattere patologico e dunque obiettivo.
Ciò ovviamente comporta che altrettanto oggettiva deve essere la prova del verificarsi dell’evento, la cui causazione deve intendersi, dunque, “misurabile”.
E’ altrettanto ovvio che la circostanza potrebbe incidere sull’effettività della nuova incriminazione.
E, infatti, nel corso dei lavori parlamentari del d.l.l. n. C1440, la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, intuendo l’insidia costituita da difficoltosi accertamenti processuali dello stato patologico di ansia o di paura, aveva riformulato l’evento in questione, configurandolo in termini di reato di pericolo concreto (per cui la condotta doveva essere concretamente idonea a determinare lo stato d’ansia o di paura), ma l’Aula ha riportato il delitto alla sua struttura originaria, quella, per l’appunto, recepita poi dal decreto legge e dalla legge di conversione.
La preoccupazione evidenziata nel dibattito in Assemblea è stata quella che l’avanzamento della soglia di penale rilevanza, attesa la peculiare natura e l’ampio fuoco delle condotte considerate dall’incriminazione, potesse determinare il rischio di punire fatti sostanzialmente inoffensivi.
La Camera ha, dunque, ritenuto più opportuno configurare quella dell’art. 612-bis cod. pen. come fattispecie di danno, considerando l’assetto del pericolo concreto prescelto in Commissione idoneo a determinare una dilatazione eccessiva dell’operatività dell’incriminazione. E questa è stata la prospettiva definitivamente accolta dal Parlamento nell’approvare la legge di conversione del decreto.
Proprio quest’ultimo passaggio dei lavori parlamentari del d.d.l. n.C1440 sembra poi diradare ogni residuo dubbio sulla possibile ambiguità della locuzione «in modo da cagionare» utilizzata nella norma incriminatrice. Infatti “cagionare” è, nel linguaggio normativo, verbo tipico della causalità, il cui utilizzo rivela abitualmente la necessità di un vincolo condizionalistico tra la condotta ed un risultato conseguentemente eletto ad evento naturalistico del reato.
Peraltro la particolare declinazione assunta dal legislatore potrebbe autorizzare anche interpretazioni tese ad affermare la natura di mero pericolo dell’evento selezionato.
In altri termini la norma potrebbe essere letta anche nel senso che la reiterazione degli atti persecutori deve risultare idonea a creare il pericolo della causazione un grave e perdurante stato d’ansia o di paura. Soluzione interpretativa non priva di qualche forzatura se confrontata con il dato normativo complessivo, ma soprattutto apparentemente incompatibile con la volontà espressa dal legislatore.
Per altro verso, va osservato che il carattere necessariamente “perdurante” dello stato patologico indotto nella vittima, ulteriormente conforta le conclusioni assunte in precedenza circa la necessaria dilatazione temporale della condotta.
Più in generale va osservato che questo continuo insistere da parte del legislatore sulla reiterazione della condotta e sulla permanenza nel tempo dei suoi effetti rappresenta l’opportuno rimedio adottato per bilanciare la inevitabile elasticità degli altri requisiti della fattispecie, nonché per distinguere il nuovo reato da quelli eventualmente integrabili attraverso le medesime condotte prese in considerazione dall’art. 612-bis cod. pen.
Non solo, con specifico riguardo alla condotta di molestie, atteso che l’autonoma rilevanza penale delle stesse è fortemente condizionata dai requisiti ulteriori imposti a tal fine dall’art. 660 cod. pen., proprio la reiterazione della condotta e la perduranza dello stato d’ansia o di paura sono in grado di rendere penalmente illeciti fatti che altrimenti non lo sarebbero.
Gli altri due eventi presentano un profilo meno impegnativo, tanto da lasciar prevedere che saranno soprattutto questi oggetto in concreto della contestazione del reato, quantomeno perché risulterà più agevole fornirne la necessaria prova. Del resto, sebbene il reato si perfezioni con la consumazione anche solo di uno degli eventi descritti dalla norma incriminatrice, è ben vero che nulla impedisce che gli stessi vengano realizzati congiuntamente (senza, ovviamente, che ciò comporti la configurabilità di più reati) ed, anzi, l’esperienza insegna che quelli selezionati dal legislatore tendono a sovrapporsi nelle dinamiche dello stalking.
Il timore per l’incolumità propria o delle persone vicine deve essere fondato, requisito che non tanto collega l’evento alla connotazione assunta in concreto dalla condotta (che altrimenti la sua previsione sarebbe stata perfino superflua, atteso che comunque è necessario che questa sia effettivamente causa dell’evento), ma piuttosto richiama il giudice all’accertamento della necessaria oggettività del timore suscitato.
Indubbiamente l’inserimento dell’aggettivo in questione mira a limitare il potenziale espansivo della fattispecie incriminatrice, ma non può non evidenziarsi come lo stesso aggettivo possa essere foriero di qualche confusione in sede di applicazione della norma, atteso che lo stesso sembra evocare comunque una valutazione sull’idoneità ex ante della condotta a suscitare timore in una persona “normale”, valutazione ovviamente poco compatibile con una fattispecie di danno.
Per la nozione di prossimi congiunti la norma rinvia implicitamente a quella generale contenuta nel quarto comma dell’art. 307 cod. pen. (che attribuisce la qualifica agli ascendenti, ai discendenti, al coniuge, ai fratelli e alle sorelle, agli affini nello stesso grado –salvo che il coniuge non sia deceduto e non vi sia prole-, agli zii e ai nipoti), mentre la novella non si premura di fornire una definizione di persona legata alla vittima da “relazione affettiva”.
A parte che l’infelice formulazione letterale della disposizione sembra attribuire rilevanza al vincolo affettivo tra tale persona e il prossimo congiunto della vittima (ovviamente una mera svista, già segnalata nel corso dei lavori parlamentari della legge di conversione e comunque agevolmente rimediabile dall’interprete), la scarsa delimitazione dell’evento sotto questo profilo è indubbiamente problematica, giacché l’orizzonte della “relazione affettiva” è potenzialmente indefinito e avrebbe richiesto ben altro sforzo definitorio da parte del legislatore.
Quanto all’ultimo degli eventi elencati dalla norma incriminatrice, va segnalato come il decreto legge, prima, e la legge di conversione, poi, abbiano recepito una delle modifiche apportate nei lavori parlamentari del d.d.l. n. C1440 al progetto originario presentato in Parlamento e che prendeva in considerazione non solo le “abitudini”, ma anche le “scelte” di vita.
Il legislatore ha ritenuto, condivisibilmente, scarsamente determinata la nozione di “scelta”, concetto proiettato nel futuro e fortemente influenzato dalle convinzioni soggettive dell’individuo a cui la scelta appartiene (in realtà anche il concetto di “abitudine di vita” è foriero di arbitri interpretativi, ma quantomeno presenta una maggiore vocazione ad essere oggettivizzato).
Il dolo richiesto per il reato in commento è quello generico, che deve necessariamente ricomprendere anche la rappresentazione dell’evento quale conseguenza della reiterata abituale voluta dal suo autore.
La peculiare struttura del delitto in commento non appare incompatibile con la figura del tentativo, purché venga raggiunta la prova della ripetuta realizzazione di atti sufficienti ad integrare un numero di condotte in grado di soddisfare il requisito della serialità posto dalla norma incriminatrice.
L’art. 612-bis cod. pen. prevede altresì una clausola di riserva relativamente indeterminata («Salvo che il fatto non costituisca più grave reato») che è stata oggetto di intenso dibattito nel corso dei lavori parlamentari del d.d.l. n.C1440 e che, per come subito si dirà, sembra dover essere catalogata come una vera e propria clausola di sussidiarietà.
La clausola, presente nell’originario progetto, era stata infatti soppressa dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e successivamente reintrodotta dall’Aula in sede di approvazione del disegno di legge, accogliendo il parere in tal senso espresso dalla Commissione affari costituzionali.
La preoccupazione manifestata dalla Commissione Giustizia era quella di vanificare l’intento di introdurre una specifica e differenziata repressione dello stalking, destinando la nuova incriminazione al costante assorbimento in quelle più gravi eventualmente realizzate attraverso le medesime condotte oggetto dell’art. 612-bis cod. pen. (eventualità che nella realtà si preannuncia assai probabile).
La Camera si è dimostrata invece maggiormente sensibile alle esigenze di proporzionalità e ragionevolezza della risposta sanzionatoria, impostazione che è stata condivisa dal Governo nella redazione del decreto legge e, infine, accettata dal Parlamento nel suo complesso all’atto della sua conversione.
Peraltro va sottolineato che potrebbe non doversi escludere il concorso tra gli atti persecutori ed altri reati più gravi, nonostante l’espressa clausola di sussidiarietà.
Quello previsto dall’art. 612-bis cod. pen. è reato che, come già illustrato, può essere integrato da una serie di condotte tanto omogenee, quanto eterogenee tra loro.
E’ dunque ipotizzabile che l’eventuale fattispecie più grave dinanzi al quale il nuovo delitto dovrebbe soccombere possa identificarsi solo con una frazione delle condotte poste in essere dall’agente e sussumibili nella nuova incriminazione.
Sorge a questo punto la necessità di determinare in quale modo la menzionata clausola di riserva si coniughi con la struttura della stessa.
Si è evidenziato come il nuovo reato sia stato inserito nella sezione terza del Titolo dodicesimo del codice penale dedicata ai delitti contro la libertà morale.
Collocazione probabilmente condizionata dalla selezione della minaccia come forma di manifestazione tipica della condotta materiale.
Del resto non v’è dubbio che almeno uno degli eventi alternativi del reato risulti effettivamente compatibile con il bene giuridico della categoria.
Infatti, il costringimento all’alterazione delle abitudini di vita sembra caratterizzare la nuova fattispecie come una sorta di ipotesi speciale di violenza privata.
Ma non è dubbio che gli altri eventi considerati dalla norma incriminatrice siano connessi alla tutela di beni giuridici ulteriori rispetto alla libertà di autodeterminazione dell’individuo.
Così ad esempio la causazione di un grave e perdurante stato d’ansia o di paura, una volta ammesso che lo stesso debba essere inteso come un vero e proprio stato patologico, è lesione che attiene alla sfera della salute e, dunque, in tal senso l’interesse tutelato sembra potersi identificare con l’incolumità individuale.
Più in generale deve riconoscersi che l’incriminazione in commento cerca di tutelare nel suo complesso una fascia composita di interessi individuali, non necessariamente omogenei.
Quello di atti persecutori sembra dunque essere un reato (eventualmente) plurioffensivo.
In tal senso il reato più grave destinato ad assorbire, attraverso il meccanismo della sussidiarietà, quello in esame, non solo potrebbe non “contenere” porzioni del suo elemento materiale, ma soprattutto potrebbe non esaurire il disvalore specificamente connesso al suo evento tipico.
La clausola di sussidiarietà, in quanto relativamente indeterminata, non può dunque trovare una indiscriminata ed aprioristica applicazione, che risulterebbe in definitiva irragionevole.
In tal senso, in accordo con le regole generali del concorso apparente di norme, la stessa potrà paralizzare l’operatività dell’art. 612-bis cod. pen. solo in quei casi in cui il reato più grave richiamato dalla clausola risulti in grado di assorbire effettivamente il disvalore dell’evento di quello di atti persecutori.
E ciò potrà avvenire solo quando l’offesa arrecata riguardi il medesimo bene giuridico o, quantomeno, beni giuridici omogenei.
In tutti gli altri casi la clausola in questione non dovrebbe pertanto ritenersi idonea ad impedire il concorso tra il reato di nuovo conio e i reati anche più gravi consumati attraverso le condotte persecutorie.
Per altro verso, vanno a questo punto analizzati anche i rapporti tra la nuova fattispecie e quelle meno gravi (e dunque per questo comunque estranee al fuoco della clausola di sussidiarietà menzionata) che eventualmente concorrano con la stessa.
Ed in particolare, una volta richiamato quanto già detto a proposito dei rapporti con il delitto di violenza privata, l’attenzione deve essere rivolta ai reati previsti dagli artt. 612 e 660 cod. pen.
Quanto al delitto di minaccia, è agevole riconoscerne l’assorbimento, secondo lo schema del reato complesso, nell’elemento materiale di quello di atti persecutori.
Con riguardo invece a quello di molestie, posta un’evidente relazione di specialità reciproca, sembra potersi ricorrere al criterio di sussidiarietà per affermarne l’assorbimento nel reato di atti persecutori.
Il quarto comma dell’art. 612-bis cod. pen. richiede per gli atti persecutori la querela della persona offesa, con l’eccezione delle ipotesi in cui il reato sia commesso ai danni di un minore o di un disabile ovvero quando il fatto sia connesso con altro delitto procedibile d’ufficio (ulteriore eccezione è stata prevista dall’art. 8 del decreto e verrà illustrata in seguito).
Il termine per la presentazione della querela non è tuttavia quello ordinario di cui all’art. 124 cod. pen., bensì quello di sei mesi, analogamente a quanto previsto per i reati sessuali dall’art. 609-septies cod. pen.
Il legislatore non ha invece replicato la disposizione contenuta nell’articolo da ultimo citato sull’irrevocabilità della querela, che può dunque essere rimessa secondo le regole generali. Circostanza che ha suscitato più di una critica (si v. ad esempio il parere sul d.l. n. 11 del 2009 espresso dal CSM il 2 aprile 2009) in ragione dei rischi cui viene esposta la vittima del reato, possibile obiettivo di ulteriori minacce e violenze finalizzate ad ottenere per l’appunto la revoca della querela.
2.1. Le circostanze aggravanti del delitto di atti persecutori. Il secondo e terzo comma dell’art. 612-bis cod. pen. contemplano due circostanze aggravanti del reato di atti persecutori, rispettivamente, ad effetto comune e ad effetto speciale.
La prima riguarda la natura del rapporto intercorrente tra autore e vittima del reato e prevede l’aumento ordinario fino ad un terzo della pena nel caso in cui il soggetto agente sia il coniuge legalmente separato o divorziato della persona offesa ovvero sia stato legato alla stessa da relazione affettiva.
Si ripropongono pertanto i dubbi relativi alla scarsamente impegnativa definizione di “relazione affettiva”, alla cui nozione potrebbero essere riconducibili una pluralità di rapporti assai eterogenei.
Pervero l’accostamento in questa sede di tale rapporto a quello di coniugio sembra consentire di ritenere che per relazione affettiva debba intendersi una relazione di carattere sentimentale, a prescindere dal fatto che vi sia stata o meno convivenza more uxorio.
Ma la previsione normativa pone anche altre perplessità.
Innanzi tutto non si comprende perché il legislatore abbia incluso nel fuoco dell’aggravante colui che in passato abbia intrattenuto una relazione affettiva con la vittima, ma abbia invece escluso il coniuge separato solo di fatto.
Per altro verso discutibile appare anche la scelta di ritenere più grave solo la posizione di colui che ha in passato intrattenuto una relazione coniugale o affettiva con il soggetto passivo del reato, ma non anche chi tale tipo di relazione intrattenga al momento della consumazione dello stesso.
In proposito, sempre nel corso dei lavori parlamentari del d.d.l. n.C1440, la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati aveva infatti modificato in chiave estensiva il testo dello schema originario del progetto, ma ancora una volta l’Assemblea lo ha ripristinato e dal relativo dibattito emerge che la ratio dell’aggravante si identificherebbe con il maggior disvalore conseguente alla mancata accettazione, da parte dell’autore del reato, della rottura della relazione (anche su questo punto i lavori parlamentari della legge di conversione non offrono ulteriori spunti interpretativi).
Giustificazione che invero suscita qualche perplessità, atteso che nulla di tutto ciò si riflette direttamente nella fattispecie tipizzata, per il cui perfezionamento è sufficiente che il reo sia stato in passato il coniuge o comunque il partner della vittima, senza che in qualche modo venga attribuito rilievo ai motivi che lo hanno indotto a commettere il reato.
L’aggravante prevista dal terzo comma comporta, invece, un aumento fino alla metà delle pene previste per il reato di atti persecutori nel caso in cui il fatto è commesso ai danni di un minore, di una donna in stato di gravidanza, di un disabile (così come individuato dall’art. 3 della legge n. 104 del 1992), ovvero con armi o da persona travisata.
Con specifico riferimento alle condizioni soggettive della persona offesa è ovviamente necessario, ai sensi dell’art. 59 cod. pen., che il reo sia consapevole delle stesse ovvero colpevolmente le ignori.
2.2 La procedura di ammonimento. L’art. 8 del decreto legge (anch’esso convertito senza modifiche dalla legge n. 38 del 2009) ha disciplinato una misura che, nell’economia della prevenzione e della repressione dello stalking, assume grande rilievo. Si tratta della inedita procedura di ammonimento dell’autore di atti persecutori.
I primi due commi dell’articolo in commento prevedono che, fino a quando non sia stata proposta querela, la vittima possa rivolgersi all’autorità di pubblica sicurezza con un esposto nel quale richiede l’adozione da parte del Questore di un provvedimento formale di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta.
Il questore, se ritiene fondata l’istanza (anche eventualmente alla luce dell’esercizio dei poteri istruttori che la norma gli conferisce, tra i quali si segnala la facoltà di assumere sommarie informazioni dalle persone informate sui fatti), ammonisce oralmente il soggetto invitandolo a tenere una condotta «conforme alla legge».
Dell’ammonimento orale va redatto processo verbale, del quale copia deve essere rilasciata all’istante e all’ammonito, mentre al Questore è altresì demandata la valutazione dell’eventuale necessità di adottare ulteriori provvedimenti preventivi ai sensi della normativa in materia di armi e munizioni.
L’ammonimento può essere classificato tra le misure di prevenzione.
Lo strumento mutua, del resto, contenuti e finalità dall’avviso orale di cui all’art. 4 legge n. 1423 del 1956.
Peraltro va subito evidenziato che la disciplina contenuta nell’art. 8 del decreto è autosufficiente e dunque è esclusivamente ad essa che deve guardarsi per ricostruire il profilo della nuova misura.
Scopo dell’ammonimento è all’evidenza quella di prevenire la consumazione di atti persecutori e il suo contenuto consiste non tanto in un generico invito al rispetto della legge, quanto, come sembra doversi dedurre dall’interpretazione sistematica di tutte le disposizioni contenute nello stesso articolo, uno specifico invito ad interrompere qualsiasi interferenza nella vita del richiedente in adesione al precetto contenuto nell’art. 612-bis cod. pen..
Come si è visto, l’intervento del Questore può essere richiesto dall’interessato solo fino al momento in cui lo stesso non decida di presentare la querela.
La preoccupazione che ha ispirato in tal senso il legislatore sembra quella di evitare interferenze – anche alla luce dell’attribuzione di autonomi poteri istruttori all’autorità di polizia - tra procedimento penale e procedimento amministrativo di prevenzione.
In tal modo il legislatore sembra però voler escludere da questa ulteriore tutela tutti quei soggetti protagonisti passivi di fatti per cui è prevista la procedibilità d’ufficio, non sembrando praticabile una interpretazione secondo cui, al contrario, l’ammonimento possa essere sempre richiesto in caso di procedibilità officiosa, proprio perché in contrasto con la ratio che ispira la disposizione.
Come accennato, con l’istanza di ammonimento la persona offesa espone i “fatti” di cui è stata vittima.
Tali fatti sono dunque l’oggetto della valutazione compiuta dal Questore sulla fondatezza dell’istanza.
La norma in realtà non sembra richiedere che l’istante denunzi un reato già comunque perfezionatosi.
Conclusione che trova innanzi tutto conforto nella previsione del particolare limite temporale fissato per l’ammissibilità dell’istanza, nonché nella stessa terminologia utilizzata dal legislatore.
Infatti, alla vittima non viene richiesto di denunziare una notizia di reato, ma di esporre dei “fatti” per i quali ancora non è stata proposta querela per il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. Lo scopo dell’intervento legislativo sembra dunque quello di assicurare a chi sia stato oggetto di condotte di stalking una forma di tutela, anche quando tali condotte non abbiano ancora raggiunto il livello di reiterazione ritenuto necessario per la sussistenza del delitto di atti persecutori.
In tal senso si esalta la natura eminentemente preventiva dello strumento creato dal legislatore e si spiega anche il suo profilo scarsamente invasivo della libertà dell’ammonito.
In definitiva con l’ammonimento il Questore non invita il soggetto a desistere dalla ulteriore consumazione di un reato già perfetto, bensì lo avverte di come la reiterazione delle condotte denunziate dalla persona offesa possa sospingere il suo comportamento oltre la soglia della rilevanza penale.
L’ammonimento è adottato attraverso un provvedimento dell’autorità amministrativa, avverso il quale non è specificamente disciplinato nell’art. 8 alcun possibile rimedio esperibile dal suo destinatario. Se dunque, in via generale, lo stesso sembra ricorribile dinanzi al giudice amministrativo, deve evidenziarsi che quello penale, ai fini del riconoscimento dell’aggravante, deve certamente valutarne la legittimità.
Il quarto comma dell’art. 8 prevede, infine, che il delitto di atti persecutori diventi procedibile d’ufficio se commesso da soggetto in precedenza ammonito.
La genericità del dettato normativo propone il dubbio sulla necessaria identità dei fatti per cui è intervenuta l’istanza di ammonimento e quelli oggetto della contestazione mossa in sede penale. Dubbio probabilmente risolvibile in senso positivo alla luce di una interpretazione sistematica di tutte le disposizioni contenute nell’art. 8.
Semmai qualche perplessità la disposizione in oggetto ha suscitato tra i primi commentatori del decreto sotto il profilo dell’opportunità, perché la prospettiva di perdere la possibilità di condizionare la procedibilità del reato potrebbe costituire un disincentivo per la vittima a rivolgersi al Questore.
2.3. Le ulteriori aggravanti connesse agli atti persecutori.Il terzo comma dell’art. 8 ha configurato, invece, un’ulteriore aggravante ad effetto comune del delitto di atti persecutori, per il caso che il suo autore sia stato in precedenza raggiunto dall’ammonimento.
Anche in questo caso la formulazione normativa non precisa se il reato a cui l’aggravante accede debba o meno riguardare la medesima persona vittima delle condotte che avevano comportato l’adozione dell’ammonimento.
In caso di risposta negativa al quesito l’aggravante in questione assumerebbe i contenuti di una sorta di recidiva “impropria”, che non sembra collimare con le effettive intenzioni del legislatore. Infatti, sempre durante i lavori parlamentari del d.l.l. n. 1440 (dal cui testo anche l’art. 8 è stato mutuato), sono stati respinti ripetuti emendamenti tesi, per l’appunto, ad introdurre una specifica circostanza aggravante per lo stalker già condannato in precedenza per il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen..
La disposizione chiarisce implicitamente, come si è già detto, che oggetto dell’ammonimento non può che essere l’invito a conformarsi al precetto dell’art. 612-bis cod. pen..
Ciò che invece non chiarisce è se le condotte oggetto dell’esposto che ha dato luogo all’ammonimento (potenzialmente, come detto, non idonee a ritenere già avvenuta la consumazione del reato) possano essere “sommate” a quelle commesse dopo la sua somministrazione ai fini della configurabilità dell’aggravante.
In altri termini non è chiaro se l’aggravante si applichi anche quando il reato si è perfezionato effettivamente dopo l’ammonimento, perché solo dopo l’adozione del relativo provvedimento è stata reiterata la condotta persecutoria, ma la condotta antecedente risulti comunque essenziale per la sua configurabilità in concreto.
2.4. Il nuovo n. 5.1 del primo comma dell’art. 576 cod. pen. Infine, l’art. 1, lettera b), del d.l. n. 11 del 2009 ha introdotto nell’art. 576 n. 5) cod. pen. una nuova circostanza aggravante del reato di omicidio per l’autore del delitto di atti persecutori.
Disposizione questa che ha suscitato non poche perplessità.
Innanzi tutto la catalogazione dell’aggravante come n. 5.1) del citato art. 576 è totalmente inedita rispetto agli schemi tradizionalmente utilizzati nel codice penale.
La circostanza rischia però di generare qualche confusione.
Infatti, la nuova aggravante viene introdotta nell’ambito della disposizione dedicata all’aggravante sessuale dell’omicidio, ma al tempo stesso il decreto ne ha voluto sottolineare l’autonomia attraverso l’eccentrica numerazione di cui si è dato conto.
A questo punto non è comprensibile il motivo per cui si è voluto mantenere l’ambiguo collegamento sistematico tra le due aggravanti.
Ma i profili problematici sono di ben altro calibro.
Nel disegno di legge presentato dal Governo nel luglio 2008 in Parlamento l’aggravante era già presente (e peraltro collocata al n. 4-bis dell’art. 577 cod. pen.), ma era specificamente destinata all’omicida che si fosse in precedenza reso autore di atti persecutori nei confronti della stessa vittima.
Il senso dell’aggravante era dunque quello di punire più severamente l’omicidio che costituisse il tragico culmine di un percorso persecutorio.
Il fatto di omicidio in sé considerato si presentava, dunque, come oggettivamente più grave se collegato ad una precedente attività di stalking.
Analoga configurazione l’aggravante presentava anche negli altri progetti di legge che sono poi confluiti nel d.d.l. n. C1440 approvato dalla Camera il 29 gennaio scorso.
In alcuni casi si è cercato di tipizzare anche un vero e proprio collegamento causale tra gli atti persecutori e l’evento omicidiario, in altri di collegare quest’ultimo al pregresso stalking attraverso la formula «in occasione di…», in altri ancora di qualificare il collegamento secondo il paradigma della continuazione valorizzando l’identità del disegno criminoso.
Ma in ogni caso la necessità di una connessione tra i due fatti, al fine di giustificare l’aggravamento della pena (e in particolar modo la comminatoria dell’ergastolo), è stata unanimemente riconosciuta nel corso del dibattito tenutosi alla Camera, tanto in Commissione, quanto in Assemblea.
Ciononostante il testo della disposizione approvato dalla stessa Camera dei Deputati è risultato quello poi riproposto dall’art. 7 lett. b) del decreto legge, per cui l’aggravante sarebbe integrata dalla semplice circostanza che l’omicida sia «autore del delitto previsto dall’articolo 612-bis».
La formulazione letterale della norma non operava dunque alcun riferimento al necessario collegamento concreto tra i due fatti (l’omicidio e lo stalking), ma ne proponeva invece uno “astratto” tra i due titoli di reato. In definitiva, sempre interpretando alla lettera la disposizione, questa avrebbe previsto l’applicazione dell’ergastolo per l’autore del reato di cui all’art. 575 cod. pen. che in passato si fosse reso anche autore del delitto di atti persecutori, non necessariamente a danno della stessa vittima dell’omicidio.
Se questo fosse stato il senso da attribuire effettivamente alla novella sarebbe stato lecito dubitare anche della sua compatibilità con i principi costituzionali, ma ancor prima l’aggravante sarebbe risultata di difficile applicazione, atteso che la norma non precisava nemmeno se per il pregresso delitto di atti persecutori l’omicida dovesse essere stato già condannato o meno.
In realtà proprio quest’ultima lacuna forniva l’appiglio per ritenere, alla luce degli esiti del dibattito parlamentare di cui si è detto, che l’effettivo significato da attribuire alla formula normativa fosse altro.
Insomma, la disposizione in commento minus dixit quam voluit.
A prescindere dunque dall’intervenuta condanna per il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen., l’aggravante sembrava presupporre che la vittima dell’omicidio fosse stata oggetto di atti persecutori attribuibili all’autore dello stesso, sebbene quest’ultimo inciso fosse rimasto inespresso nella sua formulazione.
L’infelice formulazione del dato normativo andava probabilmente imputata alla preoccupazione di non esplicitare nella fattispecie tipica alcun vincolo oggettivo di collegamento tra i due fatti che potesse essere interpretata come l’imposizione di un vero e proprio requisito condizionalistico di impossibile accertamento. Ma il risultato è stato quello di configurare una aggravante sostanzialmente soggettiva, legata per l’appunto alla circostanza che l’autore dell’omicidio sia autore anche di atti persecutori.
Sul punto la legge n. 38 del 2009 è assai opportunamente intervenuta, precisando che il reato di atti persecutori che qualifica l’aggravante deve essere stato consumato ai danni della stesso soggetto vittima dell’omicidio. In tal senso il legislatore ha circoscritto la portata dell’aggravante, evitando all’interprete pericolose contorsioni del dato normativo per giungere al medesimo risultato ed attribuendo alla disposizione maggiore coerenza.
Anche dopo la modifica, la norma non richiede formalmente che l’uccisione della vittima risulti oggettivamente connessa ai precedenti atti persecutori, nel senso, come accennato, di rappresentare l’ultimo e più letale di tali atti. In altri termini l’evento omicidiario, stando al tenore letterale della norma, non deve necessariamente essere oggetto del medesimo programma criminoso che ha assistito il percorso dello stalking perché debba ritenersi sussistente l’aggravante, potendo risultare il frutto anche di circostanze occasionali prive di effettiva connessione con l’attività criminosa pregressa. In tal senso va anzi segnalato che nel corso dell’iter della legge di conversione alla Camera è stato respinto un emendamento teso proprio a vincolare l’aggravante esclusivamente all’ipotesi in cui l’omicidio fosse stato consumato “nell’atto” di commettere il reato di stalking.
Certo è che la previsione dell’identità della vittima dei due reati quale necessario presupposto della fattispecie aggravante appare comunque tradire la volontà del legislatore di punire più gravemente l’omicidio solo se effettivamente connesso ai precedenti atti persecutori (volontà ripetutamente emersa nel corso dei lavori parlamentari) e non è dunque da escludersi che in sede applicativa la norma debba essere interpretata in questo senso.
2.5 Problemi applicativi. La peculiare struttura del reato di atti persecutori (fattispecie a condotta reiterata, ma apparentemente anche di evento) già ha evidenziato la sua problematicità in sede applicativa, ad esempio, in riferimento all’arresto nella flagranza del reato, proprio per la difficoltà di definire le condizioni di consumazione del medesimo.
Allo stato, però, l’effettivo profilo problematico evidenziatosi nella prassi meritevole di essere segnalato è quello relativo alla irretroattività della nuova incriminazione. L’ipotesi che genera qualche incertezza è, naturalmente, quella in cui le condotte integranti l’elemento oggettivo del reato solo in parte risultino essere state consumate dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 11 del 2009.
In proposito va ricordato che, ad esempio, la giurisprudenza di legittimità, in occasione della trasformazione da contravvenzione in delitto ad opera della legge n. 155 del 2005 della violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione dell’obbligo di soggiorno, ha ritenuto applicabile la novella nell’ipotesi di frequentazione abituale di pregiudicati anche quando solo uno degli episodi integranti l’abitualità della condotta si era verificato dopo l’entrata in vigore della legge meno favorevole (v. Sez. I 11 maggio 2006, Caffo, rv 234284). Nel caso in questione la Suprema Corte ha ritenuto non operante la regola di cui al quarto comma dell’art. 2 cod. pen. sulla base dell’osservazione che il reato si sarebbe consumato nella vigenza della legge posteriore, poiché proprio l’ultimo comportamento materiale, segnando la cessazione dell’abitualità della condotta, avrebbe per l’appunto determinato l’effettiva consumazione del reato.
Il ragionamento svolto dalla Corte potrebbe essere mutuabile anche con riferimento alla vicenda dello stalking, atteso che, analogamente a quanto previsto da quarto comma dell’art. 2 cod. pen., anche il primo comma dello stesso articolo (nonché il secondo comma dell’art. 25 Cost.) ancora il divieto di retroattività della norma incriminatrice al momento della consumazione del reato (e ciò a prescindere dal fatto che la tipicità degli atti persecutori è in larga parte caratterizzata da comportamenti già penalmente rilevanti prima dell’entrata in vigore del d. l. n. 11 del 2009).
In tal senso, qualora la condotta commessa dopo l’entrata in vigore della novella determinasse effettivamente l’integrazione del requisito della reiterazione, potrebbe ritenersi solo allora consumato il reato e dunque irrilevante che al tempo in cui sono state invece posti in essere gli altri atti persecutori l’art. 612-bis cod. pen. non fosse ancora stato introdotto.
Pur accantonando le perplessità che comunque può suscitare l’interpretazione seguita dai giudici di legittimità nel caso citato, è appena il caso di sottolineare che la questione si ripropone con riferimento all’ipotesi in cui le condotte antecedenti all’introduzione della figura criminosa erano già sufficienti all’integrazione dell’elemento oggettivo del reato, risultando quella successiva ininfluente in tale prospettiva.
In realtà il profilo dell’applicabilità dell’incriminazione ai fatti pregressi è nel caso di specie più complessa, giacché, come accennato, l’elemento oggettivo del delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen. non si esaurisce nella reiterazione delle condotte persecutorie, ma si perfeziona con la verificazione di uno degli eventi descritti dalla citata disposizione e cioè la causazione del perdurante e grave stato d’ansia o di paura ovvero del fondato timore per l’incolumità o la costrizione all’alterazione delle abitudini di vita. E dunque, seguendo l’impostazione prospettata in precedenza, il momento consumativo del reato dovrebbe identificarsi con quello della verificazione di uno di questi eventi, che, a loro volta, potrebbero non essere determinati dalla condotta successiva all’introduzione della norma incriminatrice, ma solo aggravati dalla medesima.
3. Ulteriori misure a sostegno delle vittime di abusi familiari e di atti persecutori. Gli artt. 10, 11 e 12 del decreto (tutti e tre convertiti senza modifiche dalla legge n. 38 del 2009) prevedono infine una serie di ulteriori misure a sostegno delle vittime di abusi familiari e di atti persecutori. In particolare l’art. 10 estende ad un anno l’originario termine semestrale di validità degli ordini di protezione adottati dal giudice civile ai sensi degli artt. 342-bis e ss. cod. civ. L’art. 11 istituisce l’obbligo per le pubbliche autorità che ricevano notizia del reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. di fornire alla vittima dello stesso le informazioni necessarie per l’accesso ai centri antiviolenza presenti sul territorio e a metterla in contatto con i medesimi, qualora la stessa ne faccia richiesta. L’art. 12 invece istituisce presso il Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri un servizio di prima assistenza psicologica e giuridica in favore delle vittime di atti persecutori.
dott. Luca Pistorelli - Magistrato addetto al Massimario della Suprema Corte di Cassazione - maggio 2009
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