Ingiusta detenzione: declaratoria di prescrizione e misura cautelare sofferta superiore alla pena riportata in primo grado
… Omissis …
Rilevato in fatto
Con ordinanza in data 29.4.2004 la Corte di Appello di Reggio Calabria, in parziale accoglimento dell’istanza proposta da P.A. ai sensi degli artt. 314 e 315 cod. proc. pen. di riparazione per ingiusta detenzione subita in carcere dal 23.1.1986 al 22.6.1989, ha condannato il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento della somma di euro 80.000,00 per la detenzione patita dal 26.1.1988 al 22.6.1989, e ha rigettato la richiesta relativa al periodo dal 23.1.1986 al 25.1.1988.
La Corte territoriale ha osservato che il 23.1.1986 era stata applicata all’istante la misura della custodia cautelare in carcere per le imputazioni di associazione di tipo mafioso, di detenzione e porto illegale di armi, nonché, in forza di successiva contestazione, di tentato omicidio. Il 22.1.1988 erano scaduti i termini massimi di custodia cautelare per i reati concernenti l’associazione mafiosa e le armi nonché – stante la retrodatazione per connessione qualificata ex art. 297 cod. proc. pen. – anche per il tentato omicidio, ma per quest’ultimo delitto, avendo il P. riportato condanna a 14 anni di reclusione con sentenza 23.1.1988 della Corte di Assise di Locri, la custodia in carcere era stata mantenuta. La sentenza di appello, che ha ridotto la pena a dieci anni e sei mesi di reclusione, è stata annullata dalla Corte di Cassazione e, nel giudizio di rinvio, il 23.6.1989, altra sezione della Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria ha assolto l’imputato dal reato di tentato omicidio per insufficienza di prove, mentre il processo è proseguito per le imputazioni relative al reato associativo e a quello concernente le armi.
Con sentenza del 17.1.1999 il P. è stato, poi, assolto in primo grado dal reato associativo perché il fatto non sussiste e condannato a dieci mesi di reclusione per i reati concernenti le armi. A seguito di impugnazione del solo imputato, il giudice di appello, in data 7.5.2001, ha pronunciato sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione in ordine al residuo reato di porto e detenzione di armi.
La ragione che ha determinato la Corte di Appello a riconoscere la riparazione per l’ingiusta detenzione soltanto per il periodo compreso tra il 26.1.1988 e il 22.6.1989 risiede nella circostanza che esso riguarda la custodia cautelare riferita alla sola imputazione di tentato omicidio – dalla quale il ricorrente era stato assolto – mentre, in relazione al periodo dal 23.1.1986 al 25.1.1988, la misura coercitiva era risultata legittimata da una pluralità di imputazioni – associazione di tipo mafioso, nonché detenzione e porto illegale di armi – e la declaratoria di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, pronunciata per i reati concernenti le armi, precludeva il riconoscimento del diritto alla riparazione, essendo quest’ultimo configurabile soltanto in caso di proscioglimento nel merito, secondo la previsione del comma 1 del¬l’art. 314 del codice di rito.
P.A., a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione avverso la succitata ordinanza della Corte di Appello, chiedendone l’annullamento per violazione dell’art. 606, 1° comma, lett. c) ed e), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 314 dello stesso codice e 157 e ssgg. cod. pen..
Il ricorrente ha assunto che il provvedimento di rigetto parziale dell’istanza riparatoria era stato emesso erroneamente sulla base della impossibilità di distinguere tra i diversi titoli detentivi quanta detenzione ingiusta fosse stata patita per ciascuno di essi, essendo intervenuta assoluzione nel merito per il delitto associativo e declaratoria di non doversi procedere per intervenuta prescrizione in ordine ai reati attinenti alle armi. Invece, secondo il ricorrente, nel caso di specie la dichiarazione di estinzione per prescrizione del delitto in materia di armi era intervenuta in appello dopo che egli era stato condannato alla pena di dieci mesi di reclusione con sentenza non impugnata dal pubblico ministero e quindi non suscettibile di riforma in senso deteriore per il divieto della reformatio in peius, sicché il residuo periodo di custodia cautelare si sarebbe dovuto imputare al delitto per il quale aveva riportato pronunzia definitiva di assoluzione nel merito già in primo grado.
Con memoria depositata il 14.11.2005, il ricorrente ha poi prodotto copia di due sentenze di questa Corte (ricorrenti Cinanni e Femia, rispettivamente del 6.7.2005 e dell’8.7.2005) con le quali, per posizioni del tutto identiche a quella oggetto del presente procedimento, era stato riconosciuto il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione a favore di persone che erano state coimputate nel medesimo processo svoltosi nei confronti del P..
Con ordinanza in data 15.12.2005 la 4° sezione penale della Corte di Cassazione ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, citando una ampia pregressa giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la pluralità di titoli detentivi è ostativa alla riparazione per ingiusta detenzione, qualora anche per una sola delle imputazioni non vi sia stato proscioglimento nel merito, ovvero l’indennizzo va limitato al periodo eccedente i termini massimi di custodia cautelare per il reato meno grave, qualora solo per quest’ultimo non vi sia stato proscioglimento nel merito. Tale giurisprudenza è fondata sulla disposizione di cui al 4° comma dell’art. 314 cod. proc. pen., il quale dispone che “il diritto alla riparazione è escluso….per il periodo in cui le limitazioni conseguenti all’applicazione della custodia siano state sofferte anche in forza di altro titolo”.
Nella ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite è stato posto in evidenza il diverso orientamento delle sentenze Cinanni e Femia, con le quali, in situazione del tutto analoga a quella in esame, era stato ritenuto che l’indennizzo spettasse per il periodo di custodia cautelare eccedente la pena definitivamente inflitta di dieci mesi di reclusione per i delitti attinenti alle armi. Avendo i suddetti ricorrenti patito per tali reati una custodia cautelare di due anni, in tali casi il giudice di legittimità ha ritenuto che la riparazione spettava per anni uno e mesi due.
Con ordinanza in data 30.5.2006 le Sezioni Unite di questa Corte, pur ritenendo non condivisibile l’orientamento espresso con le sentenze Cinanni e Femia, in quanto in chiaro contrasto con il dettato normativo di cui all’art. 314, 1° e 4° comma, cod. proc. pen., e non essendo consentito al giudice di superare il limite rappresentato dall’univoco senso letterale delle disposizioni, nemmeno impiegando il metodo dell’interpretazione secundum Constitutionem, hanno ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 314 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 2, 3, 24 e 77 della Costituzione, nella parte in cui non è previsto il diritto alla riparazione per la custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena inflitta.
Con sentenza del 20.6.2008 n. 219 la Corte Costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., dell’art. 314 del codice di procedura penale, nella parte in cui, nell’ipotesi di detenzione cautelare sofferta, condiziona in ogni caso il diritto all’equa riparazione al proscioglimento nel merito dalle imputazioni, “secondo quanto precisato in motivazione”.
Pervenuti gli atti, il Primo Presidente aggiunto ha fissato l’odierna udienza camerale per la decisione del ricorso.
Il Procuratore Generale ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della impugnata ordinanza della Corte di Appello di Reggio Calabria, in quanto, a seguito della citata sentenza della Corte Costituzionale, la fattispecie in esame è stata ricondotta nell’ambito di tutela dell’art. 314 del codice di rito.
Motivi della decisione
La questione rimessa alle Sezioni Unite, sulla cui soluzione influisce in maniera decisiva la sentenza della Corte Costituzionale n. 219 del 2008, è la seguente: Se la riparazione per ingiusta detenzione spetti in relazione al periodo di custodia cautelare superiore alla misura della pena inflitta con la sentenza di primo grado, cui poi abbia fatto seguito una sentenza di appello dichiarativa della estinzione del reato per prescrizione.
Prima dell’intervento del Giudice delle leggi, la giurisprudenza di legittimità era prevalentemente orientata nel senso che “in materia di riparazione per ingiusta detenzione, nel caso di processo cumulativo, avente ad oggetto cioè più imputazioni, se il provvedimento restrittivo della libertà è fondato su più contestazioni, il proscioglimento con formula non di merito anche da una sola di queste, semprechè autonomamente idonea a legittimare la compressione della libertà, impedisce il sorgere del diritto, irrilevante risultando il proscioglimento dalle altre imputazioni” (Css. Sez. 4, 3.3.2007 n. 18343 riv. 236411; conformi ex plurimis Cass. Sez. 4, 4.12.2006 n. 3590 riv. 236010; Cass. Sez. 4, 7.10.2003 n. 5949 riv. 226730; Cass. Sez. 4, 13.12.2002 n. 5949 riv. 226152; Cass. Sez. 4, 14.11.2001 n. 707 riv. 220494).
L’unica mitigazione possibile, non in contrasto con la disposizione di cui all’art. 314, 1° e 4° comma, cod. proc. pen., era stata ritenuta la detrazione, dal periodo di custodia cautelare totale, del tempo, nel massimo consentito dalla legge, riferibile all’addebito meno grave, se per quest’ultimo titolo di reato era intervenuta una declaratoria di proscioglimento diversa da quelle previste dal 1° comma. Tale valutazione era stata già ritenuta con la sentenza n. 1522 del 17.12.1992 riv. 193231, oltre che con le citate successive decisioni, essendo inequivocabile l’inciso “semprechè autonomamente idonea a legittimare la compressione della libertà”, espressione contenuta in quasi tutte le suddette sentenze.
A tale orientamento si è peraltro attenuta la Corte di Appello di Reggio Calabria, con l’ordinanza impugnata, là dove invece la giurisprudenza di legittimità è stata notevolmente innovata con le sentenze della 4° sezione, Cinanni del 6.7.2005 n. 1451, e Femia dell’8.7.2005 n. 1467, che hanno costituito una parentesi nell’interpretazione della norma di cui al citato art. 314, in quanto le sentenze successive non si sono discostate dall’orientamento prevalente.
Pur con argomentazioni diverse, con le due predette sentenze la Suprema Corte ha ritenuto che al titolo cautelare venuto meno a seguito del proscioglimento per prescrizione non può essere riferito un periodo corrispondente alla durata massima prevista dalla legge processuale, ma esclusivamente il periodo di detenzione cautelare pari all’entità della pena che sarebbe stata inflitta in caso di condanna.
Le Sezioni Unite – come già precisato – non hanno condiviso tale interpretazione, ma hanno individuato diversi profili di incostituzionalità dell’art. 314 cod. proc. pen., nella parte in cui non è previsto il diritto alla riparazione per la custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena inflitta, rimettendo quindi gli atti alla Corte Costituzionale, la cui decisione, pur chiaramente incisiva sul procedimento in esame, va esaminata ed anche approfondita per individuarne, da un lato, l’ampiezza innovativa, e, dall’altro, il limite applicativo, espresso dal Giudice delle leggi in relazione all’ordinanza di rimessione.
Nella sentenza n. 219 del 2008 si legge infatti che “questa Corte è oggi chiamata a decidere esclusivamente se sia costituzionalmente ammissibile che, in caso di detenzione cautelare sofferta, quest’ultima non fosse causa di riparazione ove l’interessato non sia stato prosciolto nel merito. A tale ipotesi il giudice a quo riconduce il caso, oggetto del processo principale, in cui, nonostante non vi sia stata condanna definitiva in ragione della sopraggiunta prescrizione del reato, tuttavia si sia formata una preclusione processuale a riesaminare la pena inflitta in primo grado, poiché non appellata dal pubblico ministero. Si tratta, anche per tale verso, di una valutazione che, in quanto non implausibile, compete al solo rimettente e non incide sui requisiti di ammissibilità del presente giudizio”.
Esclusi profili di incostituzionalità in relazione agli artt. 76 e 77, prima di passare alla questione ritenuta fondamentale, e cioè il contrasto con l’art. 3 Cost., nella sentenza n. 219 del 2008 sono fatti espressi richiami ai principi di diritto internazionale e della Costituzione sulla materia.
Le fonti normative della riparazione per ingiusta detenzione si possono riassumere in tre categorie: a) i principi internazionali in tema di garanzie dei diritti umani; b) le norme interne di rango costituzionale; c) la legge-delega del codice di procedura penale.
Le norme internazionali sono: a’) l’art. 5, par. 5, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il quale dispone che “ogni persona vittima di arresto o di detenzione….ha diritto ad una riparazione”; a’’) l’art. 9, par. 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, che a sua volta prevede che “chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali ha diritto ad un indennizzo”.
Essendo state recepite tali disposizioni dal nostro ordinamento, in quanto la citata Convenzione europea è stata ratificata con legge 4.8.1955 n. 848 e il Patto internazionale reso esecutivo con legge 25.10.1977 n. 881, è risultato evidente l’obbligo del legislatore di disciplinare con legge ordinaria tale materia nel pieno rispetto dei diritti fondamentali della persona, che hanno valore universale.
Tale rinvio alla legge ordinaria è anche previsto dalla Costituzione, e più precisamente dall’art. 24, ultimo comma, in base al quale “la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”. A sua volta l’art. 13 sancisce l’inviolabilità della libertà personale, conseguendone quindi la necessità di una disciplina particolare per gli errori in tema di custodia cautelare, sia essa subita in carcere sia agli arresti domiciliari, trattandosi di misure detentive che sono applicate prima della sentenza definitiva, quindi nella sola ipotesi che ci sia una previsione di un’alta probabilità di condanna, e trattandosi di un valore fondamentale nello Stato di diritto, che può essere sacrificato solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari specificamente individuate.
Infine, la legge-delega del codice processuale 16.2.1987 n. 81, all’art. 2, comma 1, n. 100, ha disposto che la disciplina della riparazione dell’ingiusta detenzione e dell’errore giudiziario debba essere attuata nell’ambito di un procedimento le cui linee guida debbano essere contenute nel codice di procedura penale, previsione che consente di determinare con certezza la natura dell’istituto nella legislazione vigente, attraverso una collocazione in sintonia con le disposizioni delle convenzioni internazionali, che fanno derivare la riparazione dalla violazione del diritto alla libertà e dalla necessaria eccezionalità della privazione di questo diritto.
Nella normativa italiana, quindi, in sintonia con un principio consacrato quanto meno in molti Stati, la riparazione per l’ingiusta detenzione non ha una funzione di risarcimento del danno, che, per la peculiarità della situazione, in taluni casi – come quello di una custodia cautelare particolarmente lunga subita da persona non adusa all’ambiente carcerario e poi risultata innocente – sarebbe comunque non compensabile, stante il danno non strettamente patrimoniale, per questo motivo tanto meno facilmente risarcibile; ma piuttosto sia la giurisprudenza che la dottrina la hanno inquadrata in una obbligazione di diritto pubblico che lo Stato assume verso colui che ha sofferto l’ingiusta detenzione; e quindi non per risarcirgli il danno, ma per indennizzarlo della carcerazione o comunque dell’arresto che non avrebbe dovuto subire, pur versandosi in responsabilità per un atto lecito dello Stato.
Ciò premesso, va osservato che dall’excursus dell’ampia normativa posta a base dell’art. 314 cod. proc. pen. risulta evidente che il “fondamento solidaristico” dell’obbligazione a carico dello Stato non trova il suo fondamento esclusivamente nell’esito del procedimento penale e nel limite di una soluzione assolutamente tranquillizzante di innocenza per il giudice chiamato a decidere sulla riparazione, quanto piuttosto nel principio etico e sociale di non violare il diritto fondamentale alla libertà di ogni essere umano; e la oggettiva lesione della libertà personale va inquadrata in qualsiasi situazione di eccesso del potere di limitazione di un bene costituzionalmente protetto.
Altra valutazione significativa è che tutte le fonti principali dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione (e anche quella di minore rilevanza, quale la legge-delega) non ricollegano il diritto all’indennizzo ad una formula di proscioglimento nel merito, ma anzi pongono in rilievo la necessaria eccezionalità della privazione del diritto di libertà, in quanto tale privazione comporta la contrazione dello sviluppo di ogni essere umano.
Su tali basi la Corte Costituzionale ha ritenuto manifestamente irragionevole e pertanto lesiva dell’art. 3 Cost. la scelta legislativa di limitare il diritto alla riparazione ai soli casi di assoluzione nel merito dalle imputazioni, quindi dando rilevanza a tale esito del procedimento penale piuttosto che all’incidenza che la custodia cautelare ha esercitato sul bene inviolabile della libertà personale dell’individuo.
Precisato, quindi, che non è di per sé automaticamente indennizzabile una lunga protrazione della custodia cautelare, trattandosi di “inconveniente fattuale” ed essendo probabile che ad una lunga carcerazione preventiva consegua una condanna di durata superiore, e valutata la costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale sono prevalenti, nel bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, le esigenze di protezione della collettività rispetto al sacrificio temporaneo della libertà di chi non è stato giudicato in via definitiva, la Corte Costituzionale perviene ad una soluzione chiara della questione prospettata dalle Sezioni Unite e quindi della fattispecie in esame, che ha dato causa al giudizio di costituzionalità.
Il Giudice delle leggi afferma, infatti, che “ove la durata della custodia cautelare abbia ecceduto la pena successivamente irrogata in via definitiva è di immediata percezione che l’ordinamento, al fine di perseguire le predette finalità, ha imposto al reo un sacrificio direttamente incidente sulla libertà che, per quanto giustificato alla luce delle prime, ne travalica il grado di responsabilità personale”.
Pertanto, la pur legittima compressione della libertà non consente al legislatore di negare l’attivazione del meccanismo solidale di riparazione per ingiusta detenzione, per cui proprio la valutazione delle finalità di tutela della collettività che impongono alla persona il sacrificio di un bene primario costituisce il fondamento solidaristico della riparazione per ingiusta detenzione ed impone “costituzionalmente l’estensione alle ipotesi di detenzione cautelare sofferta in misura superiore alla pena irrogata o comunque a causa della mancata assoluzione nel merito”.
In altre parole la riparazione di cui all’art. 314 cod. proc. pen., se non applicata a tutti i casi in cui l’imputato ha subito una restrizione ingiusta del proprio diritto della libertà personale, viola l’art. 3 Cost.. Ne consegue che l’istituto è applicabile non solo nei casi di assoluzione dalle imputazioni, ma anche in quelli di proscioglimento per altra causa, non di merito, ed infine qualora la custodia cautelare sia stata di durata superiore rispetto alla pena irrogata con sentenza definitiva. E ciò anche se la sentenza della Corte Costituzionale n. 219 del 20.6.2008 ha precisato che “questa sentenza ha per oggetto – secondo quanto già osservato al punto 4 – la sola ipotesi, rilevante ai fini del giudizio a quo, in cui la pena definitivamente inflitta all’imputato, ovvero oggetto di una preclusione processuale che la sottragga a riforma nei successivi gradi di giudizio, risulti inferiore al periodo di custodia cautelare sofferto”.
L’ordinanza impugnata va quindi annullata a norma dell’art. 623 lett. a) cod. proc. pen. e il principio a cui si dovrà attenere il giudice di rinvio è il seguente: “la riparazione per ingiusta detenzione spetta in caso di durata della custodia cautelare superiore alla misura della pena inflitta con la sentenza di primo grado, cui poi abbia fatto seguito una sentenza di appello dichiarativa della estinzione del reato per prescrizione”.
Ulteriori precisazioni, di cui alcune già formulate, vanno comunque fatte a norma dell’art. 627, 3° comma, cod. proc. pen..
Il giudice di rinvio dovrà valutare il diritto alla riparazione, a norma del 1° comma dell’art. 314 cod. proc. pen., e quindi preliminarmente esaminare se nella specie sussistano cause di esclusione del diritto alla riparazione per dolo o colpa grave, anche se in relazione ai soli reati di associazione mafiosa (art. 416 bis cod. pen.) e di detenzione e porto di armi (artt. 10 e 14 legge 14.10.1974 n. 497), e limitatamente al periodo eccedente i dieci mesi di reclusione, non spettando la riparazione per la durata della pena inflitta, in quanto per il delitto di tentato omicidio tale valutazione è stata già eseguita (pag. 5 ordinanza impugnata) e non è stata oggetto di impugnazione alcuna da parte del P.G. ovvero del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
La giurisprudenza di legittimità è costantemente orientata nel senso tracciato dalle sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 34559 del 15.10.2002, secondo la quale “in tema di riparazione per l'ingiusta detenzione, il giudice di merito, per valutare se chi l'ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità”.
Qualora non si ravvisino cause di esclusione del diritto alla riparazione, relativamente al quantum debeatur, il giudice di rinvio dovrà sottrarre dal calcolo dell’indennizzo i primi dieci mesi di custodia cautelare sofferta, in quanto corrispondenti alla condanna inflitta in primo grado e non impugnata dal P.M..
Infine, la liquidazione dell’indennizzo, pur da determinare conciliando il criterio aritmetico con quello equitativo, in base all’orientamento espresso dalle sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 24287 del 9.5.2001, Ministero del Tesoro in proc. Caridi, e da numerose altre decisioni di legittimità, non può prescindere dalla indicazione contenuta nella sentenza della Corte Costituzionale del 20.6.2008 n. 219, secondo la quale “pare evidente che il grado di sofferenza cui è esposto chi, innocente, subisca la detenzione sia in linea di principio amplificato rispetto alla condizione di chi, colpevole, sia ristretto per un periodo eccessivo rispetto alla pena”. Precisa poi il Giudice delle leggi che “spetterà ai giudici comuni valutare le peculiarità di ciascuna fattispecie loro sottoposta, al fine di adeguarvi l’indennizzo previsto dalla legge, alla luce della compromissione del fondamentale valore della persona umana”.
Ne consegue che, pur affermandosi “in linea di principio” che il diritto dell’innocente sia da valutare in maniera privilegiata rispetto al diritto del colpevole, tale soluzione non ha carattere assoluto; e spetta al giudice di merito considerare la peculiarità della specifica situazione.
Pertanto, il giudice di rinvio dovrà uniformarsi ai principi di diritto indicati dalla Corte Costituzionale e da queste Sezioni Unite, valutando nel merito la specificità del caso sottopostogli, e motivando in modo puntuale sulla entità della liquidazione dell’indennizzo, facendo buon uso dei poteri discrezionali a lui riservati.
Per questi motivi
La Corte annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte di Appello di Reggio Calabria.
Così deciso in Roma in camera di consiglio il 30 ottobre 2008.
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