Il commento ripercorre, alla luce della sentenza 28605/08 delle SSUU; il problema della voltivazione cd. domestica di piante stupefacenti, soffermandosi anche sullla scusabilità della ignorantia legis.
1. L’evoluzione storica in materia di coltivazione di piantine stupefacenti
La presente disamina prende le mosse da un recente intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite in materia di coltivazione di piantine stupefacenti c.d. leggere (canapa indica o sativa). La Suprema Corte ha sopito un contrasto che da ormai più di una decade si prolungava in seno alla giurisprudenza.
Il problema della rilevanza penale di chi coltiva piantine stupefacenti parte da lontano, a tal riguardo occorrerà primariamente esaminare l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale in materia il cui ultimo atto è costituito dalla sentenza del Giudice Nomofilattico citata.
L’ordinamento è stato a lungo fermo nel considerare penalmente illecite le condotte connesse all’uso di sostanze stupefacenti, indipendentemente dallo scopo dell’acquisto e dal quantitativo ricevuto (art. 151 del T.U. delle leggi sanitarie approvato con R.D. 27.7.1934 n. 1265; art. 6, co. 4, L. 22.10.1954 n. 1041).
Rispetto a tale stato delle cose la L. 22.12.1975 n. 685 introduceva una innovativa disciplina della materia. In estrema sintesi il legislatore, pur mantenendo ferma in linea di principio l’illiceità della condotta di acquisto, escludeva la punibilità della detenzione, importazione ed acquisto quando le sostanze stupefacenti erano acquistate in modica quantità per uso personale (art. 80).
Con L. 26.6.1990 n. 162, pressoché immediatamente trasfusa nel testo unico tuttora in vigore, seppure rimaneggiato (D.P.R. 9.10.1990 n. 309), il sistema repressivo venne modificato ed inasprito; in particolare, l’acquisto (al pari della importazione e detenzione) per uso personale, nel limite del quantitativo corrispondente alla “dose media giornaliera”, veniva configurato come illecito amministrativo (art. 75 del T.U.), sono, invece, escluse dal regime dell'uso personale e sono, quindi, penalmente rilevanti le condotte di acquisto, importazione e detenzione superiori a tale misura, nonché le altre previste dall'art. 73, ossia quelle di chiunque "coltiva, produce, fabbrica, raffina, vende, offre o mette in vendita a qualsiasi titolo, trasporta, esporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualsiasi scopo".
Inoltre, l’esito del referendum abrogativo del 18-19 aprile 1993 ha comportato l’abrogazione delle norme detenzione di sostanza stupefacente in dose non superiore a quella media giornaliera. Così il discrimine fra destinazione a terzi (illecita penalmente) e uso personale (illecito amministrativo) deve essere provato in base a vari indizi coniati dall’evoluzione pretoria (quantitativo, ritrovamenti di bilancino o danaro corrispettivo della vendita, frazionamento in più sacchetti, qualità della sostanza, reddito per mantenimento del vizio) (Cass. SS. UU. 28.5/18.7.1997, P.M. in proc. Iacolare ).
Tali criteri sono stati poi sostanzialmente recepiti dal legislatore che, con L. n. 49/2006, ha modificato l’art. 73 prevedendo ora (art. 73/1 bis) una fattispecie di detenzione a fini non esclusivamente personali suscettibile di realizzazione secondo modalità alternative: la detenzione di stupefacenti di cui secondo le circostanze è provata la destinazione a terzi; la detenzione di sostanze stupefacenti contenenti una percentuale di principio attivo superiore alla quantità prevista dal decreto interministeriale
Peraltro, quanto al dato ponderale, la giurisprudenza successiva alla novella del 2006 ha osservato che il nuovo atto normativo regolamentare non ha determinato una modificazione di un elemento normativo extrapenale integrativo del precetto penale, né ha prodotto un effettivo fenomeno di successione di leggi nel tempo. Il predetto Decreto Ministeriale altro non fa che disciplinare un parametro indiziario, di natura normativa, relativo al quantitativo di stupefacente sotto il quale si può presumere, in difetto di elementi contrari, una destinazione della droga all’uso personale. E’, dunque, semplicemente regolamentato uno degli elementi indiziari – il cd. quantitativo soglia – utile per valutare la destinazione al fine di spaccio o all’impiego personale della droga detenuta (Ex alii Trib. Verona, GM Dr. Carlo Favaro, sentenza n. 1339/06 dd. 24.07.2006; Tribunale di Napoli, Sezione GUP, Ufficio IV, GUP Dr. Luigi Giordano, n. 2406/06 dd. 29 novembre 2006 in www.penale.it).
A conferma di quanto affermato poc’anzi giova ricordare che una recentissima pronuncia delle Sezioni Unite ha ritenuto, nel caso inverso (in cui la quantità detenuta era inferiore a quello fissato con il decreto ministeriale citato) , che “in tema di spaccio di stupefacenti, non rileva il mancato superamento della dose media giornaliera, ma la circostanza che l’eroina spacciata abbia sicuro effetto drogante per la singola assunzione dello stupefacente” e che “l’accertamento che la quantità di eroina spacciata supera la “soglia drogante” e cioè ha effetto stupefacente anche su persona costantemente dedita al consumo di eroina, consente di affermare la responsabilità penale, non avendo rilievo il mancato superamento della dose media giornaliera” (Cass. SS. UU. 20 dicembre 2007, n. 47472 in www.penale.it/page.asp?mode=1&IDPag=538).
Orbene, con particolare riferimento alla fattispecie di coltivazione si è posto il problema se vi fosse disparità di trattamento fra questa, punita ex art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990 a prescindere dall’uso personale della stessa, rispetto alle fattispecie di “acquisto, importazione e detenzione” non punite ove destinate ad uso personale ex art. 75.
Un’interpretazione restrittiva dell’art. 75 D.P.R. n. 309 del 1990 è stata sostenuta da un orientamento della Cassazione secondo cui la destinazione ad uso personale delle sostanze stupefacenti, dedotta dalla modesta estensione della coltivazione, dalla qualità delle piante e del loro grado di tossicità, non può assumere alcun rilievo, se non ai limitati fini della considerazione della gravità del reato e della commisurazione della pena (Fra le altre Cass. Sez. IV n. 913 del 1995; Cass. Sez. VI n. 31472 del 2004; Cass. Sez. IV n. 10138 del 2006).
Il tessuto argomentativo fondante il predetto arresto è il seguente.
In primo luogo si è affermato che il reato di coltivazione appartiene alla categoria dei reati di pericolo astratto o presunto, nei quali il legislatore non menziona il pericolo fra gli elementi della norma incriminatrice, poiché lo ritiene implicito nella realizzazione della condotta descritta, in base a comuni regole di esperienza. Di conseguenza il giudice non dovrà accertare che si sia verificato il pericolo, ma semplicemente dovrà verificare che sussistano gli elementi richiesti dalla fattispecie astratta
Si è detto, ancora, che mancherebbe un nesso di immediatezza fra “coltivazione” ed uso personale, a differenza delle condotte di “detenzione acquisto e importazione”, collegate immediatamente e direttamente all’uso stesso e ciò giustificherebbe un diverso regime disciplinatorio. Peraltro, a differenza delle ipotesi di importazione, acquisto e detenzione, nel caso della coltivazione sarebbe impossibile determinare ex ante la potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione;
Tale asserto troverebbe, altresì conforto nel tenore letterale del D.P.R. n. 309 del 1990, che non prevede fra le ipotesi di illecito amministrativo di cui all’art. 75 la coltivazione. Al contrario tale condotta è penalmente sanzionata dagli artt. 73, 28 e 26, che vietano e puniscono la coltivazione di piante droganti, salvo sussista previa autorizzazione del Ministero Salute in considerazione degli scopi scientifici, sperimentali e didattici perseguiti.
Tuttavia, altro orientamento, accolto dapprima dalla giurisprudenza di merito e poi approdato anche in Cassazione, ha opinato in senso contrario sin dal referendum abrogativo del 1993 (Cass. Sez. VI 18 gennaio 2007 n. 17983 in Guida al Diritto 2007, 23, 53; Cass. Sez. IV, 21 novembre 2007, Giacalone, inedita; App. Trento 14 febbraio 2007, in Giurisprudenza di Merito, 2007, 2402; App. Catanzaro 7 maggio 2002, C.F., Rep. Foro it., 2005, voce “Stupefacenti”, n. 29; App. Genova 16 ottobre 2001, ivi 2002, voce “Stupefacenti”, n. 18; Trib. Livorno 1 giugno 2001, Campo, ivi., 2002, voce “Stupefacenti”, n. 20; Trib. Roma 13 febbraio 2001, De Luca, in Cass. pen. 2001, 3186; Cass. pen., sez. VI, 12 luglio 1994, Gabriele, in Cass. pen., 1995, 3085, e in Foro it., 1995, II, 633). A tal proposito si è asserito che laddove la coltivazione sia destinata ad un uso personale, allora deve concludersi per la non punibilità della condotta.
Il problema vero era ravvisare un criterio normativo idoneo ad individuare la coltivazione finalizzata all’uso personale e quella destinata allo “spaccio”. Tale parametro è stato rinvenuto negli artt. 27, 29 e 30 D.P.R. n. 309 del 1990. Tali disposizioni, prevedono, come si è detto, la necessità, per chi intenda coltivare piante contenenti sostanze vietate dal regolamento amministrativo integrativo della disciplina sugli stupefacenti, di munirsi di provvedimento abilitativo Ministeriale. Il rilascio di tale atto viene, peraltro, subordinato dal legislatore alla sussistenza di determinate condizioni quali: la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti.
Ebbene, tale substrato normativo è stato interpretato dal presente orientamento giurisprudenziale nel senso che le attività di coltivazione che non abbiano requisiti siffatti (disponibilità di un terreno, quindi coltivata in vasi, sua preparazione, semina, governo e sviluppo delle piante, presenza di locali destinati alla raccolta dei prodotti) non sono soggette ad autorizzazione e, quindi, sono lecite (c.d. coltivazione domestica); diversamente ove tali caratteri esistano (c.d. coltivazione tecnico - agraria o imprenditoriale) il coltivatore dovrà richiedere la previa autorizzazione Ministeriale la cui assenza è punita con la sanzione penale.
Peraltro, tale tesi troverebbe conforto anche nella formulazione del D.P.R. n. 309 del 1990, che all'art. 75 sanzionava come illecito amministrativo la condotta di chiunque, per farne uso personale, "importava, acquistava o comunque deteneva" sostanze stupefacenti, senza menzionare la condotta di coltivazione, in quanto quella normativa ricollegava la destinazione all'uso personale al non superamento della "dose media giornaliera", dato quantitativo ontologicamente incompatibile con il concetto di coltivazione. Una volta espunto però, dal D.P.R. 5.6.1993, n. 171, all'esito del referendum abrogativo del 1993, il rifèrimento alla "dose media giornaliera", si è ritenuto possibile far rientrare la coltivazione c.d. domestica (per il solo consumo personale) nell'ambito della detenzione pura e semplice riconducibile all'espressione "comunque detiene" tuttora presente nella vigente previsione di cui al 10 comma dell'art. 75.
Oltre a ciò, anche un arresto della Corte Costituzionale nell’immediatezza dell’esito del referendum abrogativo del 1993 pareva accogliere tale impostazione (Corte Costituzionale Sentenza n. 443 del 1994 in www.cortecostituzionale.it). Con una sentenza interpretativa di rigetto la Consulta aveva ritenuto possibile una esegesi adeguatrice delle norme impugnate, prospettando che: “ nel quadro del riferito ius superveniens, l'operata depenalizzazione della condotta di chi ... comunque detiene sia già interpretativamente estensibile alle condotte di chi coltiva e fabbrica (le sostanze in oggetto per il fine indicato) quale previste dalla normativa denunciata”.
Tale orientamento giurisprudenziale, seppur nell’apprezzabile intento equitativo di introdurre per il coltivatore domestico un trattamento normativo commisurato al fatto commesso, tuttavia prestava il fianco a dubbi di compatibilità con la lettera della legge. A tal fine si è osservato che la previsione agli artt. 27, 29 e 30 D.P.R. 309 del 1990 di norme particolari per la concessione delle autorizzazioni alla coltivazione (quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti) non può essere interpretata nel senso che le attività di coltivazione che non abbiano requisiti siffatti non siano soggette ad autorizzazione, e quindi siano lecite, ma solo che l'autorizzazione, per usi di ricerca o didattici, può essere concessa esclusivamente in presenza di questi elementi. Sicché mai potrebbe essere autorizzata una coltivazione domestica per uso personale.
Un approccio ermeneutico intermedio è stato, infine, sostenuto da altro orientamento della Cassazione (così Cass. Sez. IV; 13.4.2001, n. 15688, Vicini; Cass. 7.11.2002, n. 37253, Cantini; Cass. 30.5.2003, n. 23842, Morrone; Cass. 6.2.2004, n. 4836, Felsini; Cass. 8.3.2006, n. 8142, P.G. in proc. Fanfani; nonché Cass. Sez. VI, 6.6.2005, n. 20938, Bortoletto), avallato anche da due arresti della Corte Costituzionale nel 1995 e nel 1996 (Corte Costituzionale Sentenza n. 360 del 1995 e Sentenza n. 296 del 1996 in www.cortecostituzionale.it). Tale tesi ha ritenuto non equiparabili la condotta di “coltivazione” a quelle di “detenzione, acquisto, importazione”, vista la maggiore pericolosità della prima e, quindi, non fondata la questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost. In tal modo è stato recepito l’orientamento rigoroso in materia, tuttavia, si è aggiunto, in conformità alla tradizionale giurisprudenza della Corte Costituzionale, che anche un reato di pericolo astratto quale la coltivazione deve essere doverosamente interpretato dal giudice alla luce del principio di offensività, di conseguenza ne è esclusa la rilevanza penale laddove la singola condotta in concreto accertata sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato (ove possa estrarsi stupefacente talmente esiguo da essere insufficiente a porre in pericolo il bene giuridico salute).
A quest’ultima tesi ha aderito anche la Cassazione a Sezioni Unite nel luglio 2008, ritenendo sempre punibile la condotta di coltivazione, salvo si tratti di condotta produttiva di una sostanza non idonea a detrminare un effetto stupefacente in concreto rilevabile (Cass. SS. UU. 10 luglio 2008 n. 28605 in www.dirittoegiustizia.it del 11.7.2008). Tale principio ha indotto le Sezioni Unite a confermare la sentenza resa dal giudice di merito che aveva ritenuto colpevole l’imputato del reato di cui all’art. 73/1-4 D.P.R. n. 309 del 1990 con l’attenuante di cui al comma 5°, perché senza l’autorizzazione di cui all’art. 17, coltivava sette piante di cannabis indica con titolo medio dello 0,21% pari a g. 2,13 di principio attivo.
Tale conclusione è stata fondata su diverse argomentazioni. In primo luogo si è detto che la coltivazione è configurata dal legislatore quale reato di pericolo astratto o di pericolo di pericolo, cosa che si giustifica vista l’importanza dei beni giuridici tutelati, ossia la salute e l’ordine pubblico. Ciò non toglie, peraltro, che, in ottemperanza al costituzionalizzato principio di offensività, l’interprete debba in concreto valutare se vi sia stata una messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.
Inoltre, il Giudice Nomofilattico ha sottolineato come manchi un nesso di immediatezza fra coltivazione ed uso personale, a differenza di detenzione acquisto e importazione, condotte collegate immediatamente e direttamente all’uso stesso.
Un ulteriore appiglio ermeneutico viene fatto derivare dal tenore letterale D.P.R. n. 309 del 1990, che non prevede fra le ipotesi di illecito amministrativo di cui all’art. 75 la coltivazione, né la situazione sarebbe cambiata all’esisto dell’entrata in vigore della modifica di cui alla l. n. 49 del 2006.
Ancora, si è detto che a differenza delle ipotesi di “importazione, acquisto e detenzione”, nel caso di “coltivazione” è impossibile determinare ex ante la potenzialità della sostanza drogante ricavabile.
Infine, a detta delle Sezioni Unite, l’ipotesi di coltivazione sarebbe costituita da un disvalore penale superiore rispetto alla condotta di detenzione, poiché contribuirebbe ad accrescere la quantità stupefacente esistente (a prescindere dalla destinazione personale o di spaccio).
Ora, è possibile sin da subito osservare come la pronuncia della Suprema Corte presenti “due facce”: da una parte la questione della ragionevolezza della disciplina in tema di “coltivazione” rispetto alle condotte di “acquisto, detenzione ed importazione”, con la conclusione della non sussistenza di una disparità di trattamento; dall’altra giunge ad affermare la rilevanza del principio di offensività quale guida per l’interprete nell’applicazione della norma penale.
2. La Sentenza delle Sezioni Unite n. 28605 del 2008 e il riconoscimento del principio di offensività
Orbene, con particolare riguardo al tema del principio di offensività, occorre sottolineare l’importanza della Sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 28605 del 2008, in quanto si tratta di una delle prime decisioni del Giudice Nomofilattico che espressamente riconosce tale principio come costituzionalmente imposto.
A tal riguardo si ricordi che secondo il principio di offensività il reato deve sostanziarsi anche nella offesa a un bene giuridico, non essendo concepibile un reato senza offesa (nullum crimen sine iniuria). Questo principio vincolerebbe sia il legislatore che l’interprete: il legislatore deve configurare i reati come altrettante forme di offesa a un bene giuridico, nel senso che può attribuire rilevanza penale solo a quei fatti che comportano una lesione o almeno, l’esposizione a pericolo di un bene giuridico; l’interprete è tenuto a ricostruire i singoli tipi di reato estromettendo dal fatto di reato i comportamenti non offensivi del bene tutelato dalla norma incriminatrice.
Tale principio, accolto dalla dottrina c.d. realistica a partire dagli anni ’50 (MANTOVANI F. Diritto Penale Parte Generale, Padova, CEDAM, 2007; VASSALLI G., “Cosiderazioni sul principio di offensività”, in Scritti in memoria di Ugo Pioletti, Milano, 1982), troverebbe fondamento costituzionale negli artt. 25/2 e 27/3 Cost., secondo cui i caratteri di retribuzione e rieducazione della pena impongono al legislatore di punire un destinatario che abbia commesso un fatto pericoloso, che lede un bene giuridico tutelato dalla stessa. Inoltre, a livello di legge ordinaria il principio di offensività troverebbe adeguato riconoscimento nell’art. 49/2 c.p., che esclude la punibilità quando “per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”.
Orbene, se negli anni la Corte Costituzionale ha espressamente riconosciuto l’esistenza del principio di offensività nell’ordinamento penale (fra le altre la Corte Costituzionale Sent. n. 65 del 1970 in Giurisprudenza Costituzionale 1970, 1°, 959 in tema di apologia di reato ex art. 414/3 c.p. ha asserito che ricorre solo quando “per le sue modalità integri (un) comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti”; C. Cost. Sent. n. 62 del 1986 nel ritenere infondata la questione di legittimità costituzionale per contrasto dell’art. 2 della legge n. 895 del 1967 con l’art. 3 Cost. per omessa indicazione del quantitativo minimo penalmente rilevante di esplosivo di cui è vietata la detenzione, indica il principio di offensività quale criterio per risolvere il problema in via interpretativa; C. Cost. Sent. n. 957 del 1988 nel dichiarare inammissibile una questione di legittimità costituzionale dell’art. 573 cp afferma che, il principio di offensività trova fondamento nell’art. 49/2 cp. e il giudice di merito dovrà accertare ex post la lesività del fatto; C. Cost. Sent. n. 333 del 1991 nel dichiarare infondata una questione di legittimità costituzionale della legge n. 162 del 1990 per sospetta violazione dell’art. 3 Cost. per irragionevolezza della disposizione che prevede nella detenzione in misura superiore a quella media giornaliera una presunzione di spaccio, la Corte coglie l’occasione per ribadire la necessità del giudice di merito di verificare la messa in pericolo del bene giuridico tutelato, facendo sempre uso del canone ermeneutico fornito dal principio di offensività della condotta concreta in www.cortecostituzionale.it), invece, fino ad un recente passato le pronunce della giurisprudenza di legittimità nelle quali quest’ultima ha apertamente preso posizione sul tema della necessaria offensività erano assai rare. Fra queste si ricordino a titolo esemplificativo le pronunce in tema di falso documentale grossolano, ove la giurisprudenza ha affermato che una contraffazione talmente rozza e maldestra da essere riconoscibile da persona normale rende impossibile l’evento dannoso e pericoloso, costituito dall’inganno alla pubblica fede e di conseguenza non punibile il fatto (Cass. 1 febbraio 1993 in Cass. Pen. 1994, 1847); oppure in tema di simulazione di reato ex art. 367 c.p. ove la Suprema Corte è stata solita affermare che la ritrattazione avvenuta in un unico contesto, inteso in termini di idoneità e di durata, con la denuncia simulatoria, determina il venir meno dell’idoneità offensiva dell’azione a norma dell’art. 49/2 c.p., dando luogo a reato impossibile per inidoneità dell’azione, da cui consegue la non punibilità dell’autore (Cass. 18 gennaio 1995 in Cass. Pen 1997, 2°, 734).
Peraltro nei casi menzionati la giurisprudenza era giunta a ritenere non punibile il fatto, argomentando in base al reato impossibile di cui all’art. 49/2 Cost., senza menzionare espressamente la costituzionalizzazione del principio di offensività.
Nel progresso del tempo questa ritrosia giurisprudenziale nel riconoscere esplicitamente la rilevanza del principio di offensività ha lasciato il posto ad una rinnovata sensibilità, giungendo infine ad un espressa considerazione. In particolar modo, sempre più numerosi sono stati gli interventi pretori in materia di reati di pericolo astratto, rispetto ai quali il legislatore presume la pericolosità di una data condotta senza necessità di accertamento concreto da parte del giudice. In tali ipotesi si è posto più volte il problema della compatibilità di siffatti illeciti penali col principio di offensività.
Ebbene, la giurisprudenza proprio per evitare una violazione del principio nullum crimen sine iuria ha ritenuto che nei reati di pericolo astratto non sia comunque possibile prescindere dalla offensività in concreto della fattispecie, apprezzata caso per caso dall’interprete (per una Completa disamina cfr. DOLCINI-MARINUCCI, Manuale di diritto penale. Parte generale., Milano, Giuffrè, 2006). Così in tema di reati alimentari, in particolare di vendita di alimenti in cattivo stato di conservazione ex art. 5 “b” l. n. 283 del 1962, la Cassazione a Sezioni Unite nel 1995 (Cass. SS.UU. 27/5/1995 in Foro It. 1996, 2°, 220); con orientamento ribadito nel 2002 (Cass. SS. UU. 19 dicembre 2001 n. 443), ha ritenuto quale condizone necessaria ai fini della configurabilità della contravvenzione che le sostanze siano avviate o destinate al consumo in condizioni che ne mettano in pericolo l’igiene e la commestibilità, indipendentemente dalla scadenza del termine di validità del prodotto, giungendo quindi alla configurazione della fattispecie in termini di reato di pericolo concreto (cfr. anche Cass. n. 11909 del 2006 in Dir. Pen. Proc. 2007, 1.).
Ancora, in tema di inquinamento elettromagnetico la giurisprudenza ha apprestato una tutela penale attraverso una interpretazione estensiva dell’art. 674 c.p. che incrimina il “getto pericoloso di cose”. La fattispecie, nonostante voci discordanti (Cass. Sez. I, 31 gennaio 2002, n. 10475, Fantasia; Cass. Sez. I, 14 marzo 2002, Rinaldi, n. 23066), viene considerata da un recente orientamento della Cassazione quale reato di pericolo concreto, di conseguenza l’apprezzamento da parte del giudice circa la messa in pericolo del bene giuridico tutelato (la salute) risulta essere elemento costitutivo del reato, nonché criterio discretivo rispetto all’illecito amministrativo di cui all’art. 15 l. n. 36 del 2001, che punisce il mero superamento dei valori-soglia di emissione (Cass. Sez. III - 13 maggio - 26 settembre 2008, n. 36845 in www.neldiritto.it ottobre 2008).
Oltre a ciò, si ricordi la recente discussione nell’ambito della giurisprudenza di merito attinente alla tematica della vendita dei semini di canapa indica. Infatti, la recente casistica mostra come sia fenomeno in via di espansione la vendita di semini di canapa indica o sativa a fini decorativi. In tali ipotesi in giurisprudenza si è discusso circa la rilevanza penale della detta condotta. In alcuni casi si è sussunto il fatto nell’ambito della fattispecie astratta di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti di cui all’art. 82 D.P.R. n. 309 del 1990 (Trib. Rovereto n. 300 del 2007 in www.altalex.it; Tribunale di Ferrara, Sezione Riesame, Ordinanza 3 dicembre 2008; Pres. estensore Caruso in www.penale.it), mentre in altri si è assimilata tale azione ad una forma di partecipazione al reato di coltivazione da parte dell’acquirente dei semini ai sensi degli artt. 73 D.P.R. n. 309 del 1990 e 110 c.p. (Trib. Benevento Sentenza n. 74 del 2008 in www.altalex.it; Trib. Firenze, Sentenza 23.07.2007 in www.altalex.it).
Tuttavia, il minimo comune denominatore di tali precedenti è dato dalla interpretazione della fattispecie, prevista dalla legge quale reato di pericolo astratto, compatibilmente con il principio di offensività. Quindi, ove venga contestata l’ipotesi ex art. 82 D.P.R. n. 309 del 1990, la giurisprudenza afferma che, conformemente a quanto affermato dalla Corte Costituzionale in tema di istigazione a delinquere, per essere tali fattispecie rispettose del precetto di cui all’art. 21 Cost., è necessario che tale istigazione abbia comportato un concreto pericolo di commissione del reato, avendo riguardo alle circostanze concrete esistenti apprezzate dal giudice. Di conseguenza laddove tali presupposti di concreta pericolosità di commissione di delitti non sussistano, allora, prevarrà il principio di libertà di espressione del pensiero (Trib. Rovereto cit.). Ancora, nell’ipotesi in cui la fattispecie concreta sia qualificata quale concorso nel reato ex art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990 la giurisprudenza a seguito della valutazione delle concrete modalità dell’azione è giunta talvolta a condannare il venditore di semini (Trib. Firenze, cit.), altre volte, invece, valorizzando il fatto che tra i richiami effettuati dal venditore c'era, sia pure implicitamente, l'invito a desistere dal consumo della droga, con l’indicazione delle conseguenze penali derivanti dalla coltivazione, è giunta ad opposta conclusione (Trib. Benevento cit).
Dunque, ritornando al tema dal quale si era partiti, Cassazione a Sezioni Unite n. 28605 del 2008 in materia di piantine stupefacenti si pone nel solco della citata evoluzione giurisprudenziale, costituendo un punto di approdo ineludibile ai fini della concreta operatività del principio di offensività.
3. La ragionevolezza della fattispecie di “coltivazione” come interpretata dalle Sezioni Unite della Cassazione n. 28605 del 2008
Di non minor importanza è “l’altra faccia” della sentenza delle Sezioni Unite, quella attinente alla eventuale disparità di trattamento fra la fattispecie di “coltivazione” e quelle di “importazione, acquisto e detenzione”.
Evidentemente la Suprema Corte, concludendo per la punibilità della “coltivazione” a prescindere dell’uso personale o a fini di “spaccio” delle piantine, ha escluso senza remore un profilo di irragionevolezza della disciplina.
Ebbene, questa ricostruzione ha destato in autorevoli Autori fondati dubbi di ragionevolezza (Cfr. G. AMATO “La coltivazione di piante da stupefacenti” in Giurisprudenza di Merito, 2008, 7-8, 1811; C.A. ZAINA “nota a Cass. SS. UU. n. 28605” in www.altalex.it del 8 settembre 2008).
Anzitutto non convincono le Sezioni Unite quando portano avanti “un doppio binario interpretativo in relazione a condotte – l’acquisto e la coltivazione – che in realtà, integrano momenti prodromici alla detenzione od all’importazione di stupefacenti…La Corte erroneamente omette di considerare che l’acquisto non costituisce un comportamento univocamente orientato all’approvigionamento personale di chi compra, ben potendo costui essere un intermediario a propria volta cedente a terzi”. In altri termini, non è ragionevole differenziare la disciplina di coltivazione ed acquisto, visto che entrambe le condotte preludono alla detenzione e sono in rapporto fra loro alternativo (C.A. ZAINA “nota a Cass. SS. UU. n. 28605” cit.).
Del pari è criticabile l’asserto della Suprema Corte secondo cui “a differenza delle ipotesi di importazione, acquisto e detenzione, nel caso della coltivazione è impossibile determinare ex ante la potenzialità della sostanza drogante ricavabile”. Infatti, nelle ipotesi di importazione, acquisto e detenzione, ed in generale nel settore degli stupefacenti l’offensività della condotta non viene necessariamente ancorata al dato ponderale, ciò anche a seguito dell’introduzione del comma 1 bis dell’art. 73 D.P.R: n. 309 del 1990 ad opera della l. n. 49 del 2006. Infatti, come si è avuto modo di sottolineare, il c.d. peso soglia individuato dal Decreto Ministeriale disciplina solo un parametro indiziario, di natura normativa, relativo al quantitativo di stupefacente sotto il quale si può presumere, in difetto di elementi contrari, una destinazione della droga all’uso personale. In altri termini, anche se, a differenza delle ipotesi di “importazione, acquisto e detenzione”, nel caso di “coltivazione” è più difficile determinare ex ante la potenzialità della sostanza drogante ricavabile, tuttavia, ciò non esclude la possibilità di determinare la finalità di destinazione ad uso personale da altri elementi indiziari, quali le modalità dell’azione.
Il dato ponderale non è mai stato considerato dalla giurisprudenza prova incontrovertibile e necessaria della finalità di “spaccio”; peraltro, nella prassi giudiziaria sia nel caso di “coltivazione” sia nel caso di “detenzione, acquisto, importazione” il quantitativo rinvenuto viene sottoposto ad accertamento tecnico al fine di determinare la reale efficacia stupefacente dello stesso (analisi qualitativa).
Ancora, il Giudice Nomofillatico ha ritenuto giustificato il diverso trattamento sanzionatorio previsto per la coltivazione, poiché a differenza della condotta di detenzione contribuirebbe ad accrescere la quantità stupefacente esistente.
Dunque, anche questa affermazione sembra essere assai opinabile. Partendo dal presupposto che il bene giuridico tutelato dai reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990 è duplice, ossia la salute pubblica e l’ordine pubblico, non si vede quale rilevanza possa avere una produzione di sostanze stupefacenti ove non destinata al mercato della droga, ma utilizzata al mero fine di approvigionamento personale. Come ha sottolineato efficacemente una parte della dottrina “è indubbio che la coltivazione determina una teorica funzione accrescitiva del quantitativo di stupefacente leggero in circolazione, ma è altrettanto indubbio che la coltivazione ad uso personale in concreto diminuisce i soggetti che si approcciano al mercato illegale della droga” (C.A. ZAINA “nota a Cass. SS. UU. n. 28605” cit.).
Detto altrimenti, l’ipotesi di coltivazione di sostanze stupefacenti al fine di uso personale (c.d. coltivazione domestica) coinvolge persone che intendono evitare di finanziare il mercato del crimine organizzato; in tale ipotesi coltivativa il bene giuridico dell’ordine pubblico viene messo in pericolo in modo evidentemente più tenue rispetto alle ipotesi di acquisto, di conseguenza sarebbe paradossale prevedere per la prima fattispecie un trattamento normativo deteriore.
Inoltre, punendo la condotta di coltivazione a prescindere dalla sua destinazione si violerebbe la ratio di fondo che ha animato il legislatore al momento dell’introduzione del D.P.R. n. 309 del 1990. Infatti, il T.U. Stupefacenti ha previsto un duplice binario: chi detiene stupefacenti al fine di destinazione a terzi viene sanzionato penalmente, mentre il tossicodipendente, colui che detiene al fine di uso personale, soggiace ad una mera sanzione amministrativa, che comporta anche la sottoposizione a trattamenti terapeutici.
Il suindicato duplice regime trova ragione nella esigenza di punire, da una parte, lo “spacciatore” e di “curare”, dall’altra, il tossicodipendente. A tal riguardo, il prefetto avviando il procedimento amministrativo volto all’irrogazione delle sanzioni di cui all’art. 75 D.P.R. n. 309 del 1990 può definire lo stesso con il “formale invito a non fare più uso delle sostanze stupefacenti”; oppure può disporre l’archiviazione degli atti, allorché l’interessato abbia richiesto di sottoporsi a un programma terapeutico e socio riabilitativo; oppure disporre l’archiviazione degli atti per insussistenza dell’illecito; solo in ultima analisi può applicare le sanzioni ex art. 75 dpr. ‘90/309 (sospensione patente di guida, licenza porto d’armi, passaporto o documento equipollente, se straniero permesso di soggiorno turistico).
Ebbene, il fine curativo - riabilitativo del tossicodipendente sarebbe del tutto frustrato laddove venisse penalmente sanzionato chi coltiva “droghe leggere” al fine di soddisfare la propria dipendenza giornaliera senza che, in tale ipotesi, potesse essere applicato il trattamento più idoneo ossia l’inizio del procedimento amministrativo ex art. 75, volto al recupero sanitario del consumatore.
Sulla base di tali ragioni è possibile adombrare nell’interpretazione letterale degli artt. 73 e 75 D.P.R. n. 309 del 1990, avallata dalle Sezioni Unite della Cassazione, dubbi di compatibilità con il disposto dell’art. 3 Cost. “L'irragionevolezza è rappresentata dal fatto che sarebbero di rilevanza solo amministrativa condotte di detenzione anche di quantitativi di significativa consistenza, mentre sarebbe da ritenere (sempre e comunque) penalmente rilevante la condotta di chi coltivi una o due piantine di canapa da cui potrebbe ricavarsi un quantitativo di droga senz'altro inferiore” (G. AMATO “La coltivazione di piante da stupefacenti” cit.).
Ancora, tale disciplina di rigore “imporrebbe di sanzionare penalmente il modesto coltivatore, se sorpreso prima che abbia proceduto alla raccolta del prodotto, mentre, laddove questi venisse sorpreso a raccolto avvenuto, è ragionevole supporne la sanzionabilità solo amministrativa di una condotta sostanziatasi nella detenzione di quantitativi modesti di sostanza stupefacente (il ricavato della " coltivazione "), magari sotto soglia e comunque in difetto di elementi indiziari corroboranti la dimostrazione della destinazione ad un uso non esclusivamente personale”.
Peraltro, la disparità di trattamento rispetto all’ipotesi di acquisto e detenzione di stupefacenti sarebbe acuita dall’interpretazione assai benevola per l’assuntore di stupefacenti, operata dalla recente giurisprudenza di legittimità con riferimento alla condotta di “detenzione, acquisto e importazione” di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 309 del 1990. A titolo esemplificativo si pensi alla recente ipotesi in cui è stata esclusa la rilevanza penale della condotta di detenzione di sostanza stupefacente “leggera” di molto superiore al quantitativo soglia detenibile, in base alla circostanza che l’imputato apparteneva a religione rastafariana ed utilizzava “la marijuana non solo come erba medicinale, ma anche come erba meditativa…nel ricordo e nella credenza che l’erba sacra sia cresciuta sulla tomba del Re Salomone” (Cass. Sez. IV, Sentenza 3 giugno (dep. 10 luglio) 2008 n. 28720). e ancora, di recente, la Cassazione ha escluso la detenzione a fine di spaccio in chi detenga 33,48 g. di hashish, che abbia consegnato spontaneamente alla polizia giudiziaria, dichiarando di farne abitualmente uso e non lo abbia diviso in singole dosi (Cass. Sez. VI, Sentenza n. 39017 del 2008 in www.dirittoegiustizia.it del 17 ottobre 2008).
Infine, a tale ricostruzione si potrebbe obiettare che tali interrogativi resterebbero inevasi in quanto già in passato la Corte Costituzionale si è occupata della questione, pervenendo al rigetto della stessa.
In effetti è vero, come si è detto, che il Giudice delle Leggi ha avuto modo di pronunciarsi sul problema della ragionevolezza della disciplina incriminatrice della condotta di coltivazione di piantine stupefacenti, preferendo alla dichiarazione di incostituzionalità la strada della sentenza interpretativa di rigetto, talvolta migliorativa (C. Cost. ‘94/443 cit.), altre volte peggiorativa del trattamento penale (C. Cost. ‘95/360 e C. Cost. ‘96/296 cit.). Tuttavia, tali arresti sono intervenuti quando ancora sulla incriminazione della coltivazione di sostanze stupefacenti esistevano una pluralità di orientamenti giurisprudenziali fra loro discordanti.
Attualmente il diritto vivente, definitivamente obliterato da Cassazione a Sezioni Unite del 10 luglio 2008 n. 28605, propende pacificamente per la punibilità della condotta di coltivazione, salvo abbia prodotto una sostanza inidonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Di conseguenza, a parere di chi scrive, ove la Corte Costituzionale si pronunciasse sulla questione non potrebbe proporre differenti soluzioni interpretative, proponendo un’interpretazione costituzionalmente orientata rispettosa del principio di ragionevolezza, ma dovrebbe limitarsi a stabilire se le norme in oggetto siano o meno conformi ai principi costituzionali.
4. Il problema della scusabilità della ignorantia legis.
Infine, quanto meno per i reati commessi anteriormente alla pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione nel 2008, si pone il problema della scusabilità dell’ignoratia legis.
Infatti, come si è detto, il reato di cui si tratta ha avuto sin dai primi anni successivi all’esito referendario una esistenza assai controversa, poiché si sono subito enucleati due opposti orientamenti anche in seno al giudice della legittimità. Un orientamento giurisprudenziale considerava la coltivazione di cannabis cd. domestica non punibile, attraverso una interpretazione in senso conforme alla Costituzione dell’art. 75 D.P.R: 309/1990. Peraltro, come già evidenziato, l’orientamento che vuole non punibile la coltivazione per uso personale della marijuana si è irrobustito nel corso del 2007 con alcune pronunce della Corte di Cassazione: moltissime negli anni scorsi invece le assoluzioni da parte di giudici di merito, anche locali (per esempio: GUP presso il Tribunale di Cagliari, 29 settembre 2007, GUP presso il Tribunale di Bologna, Sentenza 25 settembre 2007 (dep. 10 ottobre 2007), n. 1392, GUP presso il Tribunale di Trento, Sentenza 18 ottobre 2007, (dep. 30 ottobre 2007), n. 379; Corte d?Appello di Genova, 18 aprile 2002, n. 1747; G.I.P. presso il Tribunale di Udine 18 luglio 2002, n. 444; G.I.P. presso il Tribunale di Benevento dd. 6 dicembre 2001 ; Tribunale di Sanremo dd. 3 ottobre 2001; Tribunale di Livorno dd. 1 giugno 2001; Tribunale di Roma dd. 27 febbraio 2001 e dd. 13 febbraio 2001 ; Tribunale di Cagliari dd. 28 luglio 2000; G.I.P. presso il Tribunale di Teramo dd. 25 settembre 1996.), e con vasta eco mediatica.
Così i mass-media hanno dato ampia notizia di assoluzioni per coltivatori di canapa contenente principio drogante: su Internet abbondano siti di vastissima penetrazione (ad es. ebay, corriere.it, repubblica.it, ecc.) che riportano titoli quali “coltivare marijuana non è reato”.
Si pone, dunque, il problema della scusabilità della ignorantia legis.
Ai sensi e per gli effetti dell’articolo 5 c.p., nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale. Il rigore della norma è stato peraltro corretto dal Giudice delle Leggi con una sentenza storica, che ha previsto la possibilità per il reo di invocare a propria giustificazione l’ignoranza della legge, quando la stessa sia inevitabile (Corte Cost. n. 364 del 1988 in www.cortecostituzionale.it). In tale occasione la Corte Costituzionale ha precisato che sussiste tale esimente quando al soggetto non è rimproverabile l’ignoranza della legge, perché egli ha ottemperato alle regole cautelari di informazione e conoscenza.
Tale conclusione è stata argomentata in base al combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 27 Cost.. Da una parte l’art. 27/1 è stato innovativamente inteso non solo quale divieto di responsabilità per fatto altrui, anche quale divieto di responsabilità per fatto proprio incolpevole; dall’altro, l’art. 27/3 Cost. presuppone che il destinatario della sanzione sia almeno in colpa, poichè “non avrebbe senso la rieducazione di chi, non essendo almeno in colpa (rispetto al fatto) non ha certo bisogno di essere rieducato”.
Sul punto è intervenuta anche la giurisprudenza di legittimità precisando il limiti dell’inevitabilità. Così, “per il comune cittadino tale condizione è sussistente ogni qualvolta egli abbia assolto al criterio dell’ordinaria diligenza, al c.d. dovere di informazione, attraverso l’espletamento di un dovere di accertamento utile per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia; Tuttavia se il soggetto svolge attività professionalmente qualificata, allora risponderà dell’illecito anche per colpa levis nello svolgimento dell’indagine giuridica”, quindi non basta l’indagine sulla legislazione vigente in materia, ma occorre altresì la conoscenza del comportamento degli organi amministrativi o di un complesso pacifico orientamento giurisprudenziale (Cass. SS. UU. 10.6.’94 in Cass. Pen 1994, 2925). Nella fattispecie concreta erano stati assolti gli imputati dall’accusa di costruzione senza concessione, perché sia l’autorità amministrativa, sia alcune decisione del giudice amministrativo deponevano nel senso che il vincolo assoluto di inedificabilità, necessario per la configurabilità del suddetto reato, fosse venuto meno.
In altri termini, l'inevitabilità dell'errore sul divieto (e, conseguentemente, l'esclusione della colpevolezza) non va valutata alla stregua di criteri c.d. soggettivi puri (ossia di parametri che valutino i dati influenti sulla conoscenza del precetto esclusivamente alla luce delle specifiche caratteristiche personali dell'agente), bensì secondo criteri oggettivi: ed anzitutto in base a criteri (c.d. oggettivi puri) secondo i quali l'errore sul precetto e inevitabile nei casi d'impossibilità di conoscenza della legge penale da parte d'ogni consociato.
In particolare, nell’ipotesi di coltivazione è intervenuta recentemente la Cassazione a Sezioni Unite proprio per il contrasto giurisprudenziale formatosi sul punto; a tal riguardo ben potrebbe ipotizzarsi la sussistenza della causa di esclusione della colpevolezza menzionata, quanto meno per le fattispecie concrete coltivative poste in essere precedentemente all’intervento del Giudice Nomofilattico. Tuttavia, tale apprezzamento dovrà essere apprezzato dall’interprete caso per caso.
Giovanni Guarini - Nicola Canestrini (avvocati), gennaio 2009
(riproduzione riservata)
|