Farmaci "off-label" (somministrati in via sperimentale con finalità terapeutiche diverse da quelle riconosciute ai medesimi). Responsabilità per lesioni colpose se il medico non si sia attenuto al limite determinato dal rapporto rischio-beneficio nell’utilizzazione del farmaco ed indipendentemente dal consenso informato
Fatto e diritto
M. D. veniva tratta a giudizio dinanzi al Tribunale di Pistoia- Sezione distaccata di Monsummano Terme per rispondere del reato di lesioni dolose aggravate in danno della minore V. R. ex artt. 582 e 583 c.p, consistite in sonnolenza, incubi, emicrania, depressione, eccitabilità ed un episodio di allucinazioni,oltre che nella insorgenza di calcolosi renale, di disturbi oculari e di colecistopatia, per una durata superiore a giorni 40 (fatto avvenuto dal giugno al novembre 1999, anche se il capo di imputazione dava atto che alcune delle patologie risultavano ancora in corso). Alla stessa veniva contestato di avere provocato le predette lesioni per avere prescritto, nella qualità di medico, alla minore sopra indicata , per la cura dell'obesità, l'assunzione del farmaco Topamax, quale terapia sperimentale, in mancanza di adeguata informazione ed espresso consenso del paziente o di chi esercitava la patria potestà, in dosaggi superiori a quelli consenti (200 mg al giorno, dose in seguito raddoppiata), senza seguire il lento incremento della dose raccomandata.
Il giudice, all'esito del dibattimento e sulla base anche di perizie tecniche, escludeva la sussistenza del rapporto causale tra TOPAMAX ed alcune delle patologie elencate nel capo di imputazione (diplopia oculare, calcolosi renale e colecistopatia), mentre condivideva l'impostazione accusatoria secondo la quale la M. era responsabile del reato di lesioni volontarie aggravate.
Tale convincimento era motivato con argomentazioni che possono così riassumersi:
la prevenuta aveva diagnosticato una obesità pediatrica e per la cura aveva prescritto il farmaco Topamax il cui uso era riconosciuto per la sola epilessia; si trattava, pertanto, di uso di farmaco off label, somministrato in via sperimentale, in mancanza di letteratura medica sull'uso di detto medicinale per la cura dell'obesità (la stessa imputata affermava che la sperimentazione con detto farmaco, fatta dal suo dipartimento, ancora non era stata pubblicata); la somministrazione era avvenuta in assenza di una adeguata informazione alla madre o ai familiari, visto che la prevenuta aveva genericamente detto che si trattava di un farmaco per dimagrire, senza spiegare i possibili effetti collaterali; le modalità di somministrazione erano state scorrette, con una dose di esordio pari a 200 mg al giorno, anziché di 25 mg, come raccomandato dal foglietto illustrativo; vi era stata l'inosservanza dell'art. 3, comma 2, L. 94/98 per non essere state cercate valide alternative terapeutiche ai fini del trattamento della patologia riscontrata; la dr.ssa M. aveva omesso, nonostante il progressivo aumento della dose, una parallela attività di monitoraggio degli effetti collaterali sulla salute della bambina, visto che all'unica visita del 18 giugno 1999 non ne erano seguite altre; l'imputata, pur portata a conoscenza telefonicamente dai familiari della bambina delle condizioni di sofferenza della stessa e dell'assenza di dimagrimento, imprudentemente aveva prescritto il raddoppio della dose di medicinale, senza sottoporre la minore a nuova visita.
Alla luce di tali elementi, il giudicante riteneva che la prevenuta aveva agito cercando di sfruttare l'effetto anoresizzante del medicinale, uno degli effetti collaterali del predetto medicinale per il dimagrimento della bambina, così accettando il rischio della insorgenza di quegli ulteriori effetti collaterali del farmaco, che sono quelli che comportarono lo stato di malattia della paziente.
La finalità terapeutica sopra indicata, ad avviso del giudicante, non escludeva pertanto il dolo eventuale dell'imputata, la quale aveva agito accettando il rischio della insorgenza di questi ulteriori effetti negativi, come emergeva dalle dichiarazioni rese dalla stessa prevenuta, senza un correlativo apprezzabile beneficio in termini di cura della patologia di cui la minore soffriva. Tale consapevolezza rendeva la condotta dell'imputata del tutto incompatibile con la c.d. colpa cosciente (art. 61, n. 3, c.p.), che presuppone che l'agente abbia respinto il rischio di verificazione dell'evento non voluto, confidando nella propria capacità di controllare l'azione.
Avverso detta sentenza proponevano appello sia la parte civile ex art. 576 c.p.p. che l'imputata.
La Corte d'Appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava M. D. responsabile del reato di lesioni colpose gravi, così diversamente qualificata l'originaria imputazione.
La Corte di merito sostanzialmente condivideva le argomentazioni del primo giudice con riferimento alla sussistenza della malattia, alla sua durata ed al nesso di causalità. Con riferimento al gravame proposto dalla parte civile, richiamando le conclusioni dei periti nominati dal giudice e della stessa parte civile nonché le dichiarazioni rese da un oculista e dal medico di famiglia, sentiti quali testimoni, nonché la documentazione sanitaria in atti, i giudici di appello ritenevano l'insussistenza di una prova certa circa l'estensione del nesso di causalità agli altri disturbi elencati nella seconda parte del capo di imputazione. Rigettavano, pertanto, la richiesta di rinnovazione parziale della istruzione "vista la mole di documentazione e di pareri scientifici già acquisita in merito ed essendo ragionevole prevedere che nessun diverso apporto deriverebbe da ulteriori elaborati".
Con riferimento all'elemento soggettivo del reato, la Corte di merito sottolineava che:
la documentazione acquisita agli atti, sia pure successiva al 1999, attestava che i prodotti a base di topiramato erano regolarmente in commercio per curare l'epilessia con l'indicazione di un dimagrimento quale uno degli effetti secondari e che la prescrizione della prevenuta affondava in studi e pubblicazioni già esistenti, che successivamente sarebbero divenuti un fatto scientifico assodato; il comportamento del medico, secondo le conclusioni del CT del PM, reiterate in sede dibattimentale, era da qualificarsi imprudente nella scelta del farmaco per il disturbo del comportamento alimentare della minore e negligente nella scelta del dosaggio terapeutico da propinare ad una ragazza di 12 anni; non si trattava di prescrizioni di farmaco per tentare una sperimentazione pura, dato che vi era qualche pubblicazione scientifica proprio sulla utilizzazione di detto effetto collaterale da un punto di vista terapeutico (si citava, in tal senso, tra le altre, anche la relazione del CT di parte civile e le dichiarazioni rese dallo stesso nella qualità di teste nonché la relazione peritale svolta dal primo giudice); dagli atti emergeva che, prima della cura a base di topamax, erano state tentate altre e più ordinarie strade, quali cure dimagranti, anche con un precedente ricovero nel 1997, con risultati non apprezzabili; la causa del disturbo alimentare della minore era di carattere psicologico, come emergeva dalle dichiarazioni della madre, la quale, per questo motivo, si era rivolta ad una specialista in psicologia; pur volendo ammettere che il rapporto costi/benefici nel caso in esame fosse sbilanciato a favore dei primi, non risultava provato, alla luce dei dati sopra indicati, il comportamento doloso del medico, caratterizzato cioè dalla deliberata volontà di cagionare lesioni, anche se conosciute come possibili effetti collaterali; emergeva, invece, un comportamento colposo della prevenuta, la quale non osservava imprudentemente e negligentemente il protocollo al quale l'uso off label del topiramato era subordinato (adeguato consenso informato, con esatta indicazione dei possibili effetti negativi del farmaco ed attività di monitoraggio delle condizioni della minore, nella specie durante il trattamento).
Ricorrono per Cassazione la parte civile e l'imputata.
La parte civile articola due motivi.
Con il primo, deduce violazione di legge, con riferimento agli artt. 43 e 582 c.p., nella parte in cui il giudice di appello, riformando la sentenza di primo grado, aveva riconosciuto quale colposa, anziché dolosa, la responsabilità della M. per le lesioni arrecate alla parte offesa.
La conclusione in esame sarebbe fondata sulla mancata e, comunque, carente e travisata valutazione da parte dei giudici di appello di alcuni dati emergenti dal processo.
Si sostiene, in particolare, che era stato trascurata la circostanza significativa che, nonostante i familiari avessero esposto alla M. che la minore presentava chiari sintomi di insofferenza alla terapia, certamente di carattere sperimentale per la cura dell'obesità, l'imputata, per telefono e senza mai visitare la bambina, aveva prescritto il raddoppio della cura portando la posologia del Topamax da 200 a 400 mg al giorno ed il Fevarin da 50 mg a 100 mg al giorno. La condotta di somministrazione del farmaco, senza il monitoraggio delle condizioni di salute della bambina, era, pertanto, volontariamente e consapevolmente diretta a cagionare danni alla salute, in alcun modo bilanciati da vantaggi, indicati dalla stessa imputata come meramente ipotetici. Sotto tale profilo, il difensore sostiene che, mentre fino alla predetta telefonata poteva argomentarsi per il dolo eventuale (rischio previsto ed accettato di danni per la salute della paziente in assenza di cause di giustificazione scriminanti), dall'aumento della dose si verterebbe nell'ambito di dolo diretto a cagionare consapevolmente il danno poi verificatosi.
Con il secondo motivo, si duole della mancata assunzione di una prova decisiva, costituita dagli accertamenti peritali richiesti dalla parte civile diretti all' accertamento del nesso causale tra l'assunzione del farmaco Topamax ed i danni alla salute certificati in danno della minore (diplopia oculare, calcolosi renale, colecistopatia), esclusi dai giudici di merito.
Si sostiene in proposito la carenza di motivazione, giacché i giudici di appello, nel rigettare la richiesta facendo riferimento alla mole di documentazione e di pareri scientifici già acquisiti agli atti, non avrebbero tenuto conto della continua evoluzione dei risultati della conoscenza nella scienza medica e farmacologica.
E' stata ritualmente depositata in cancelleria, nell'interesse della parte civile, una memoria difensiva con la quale, richiamando anche la normativa che disciplina la prescrizione del farmaco off label, si sottolinea ancora una volta la configurabilità nella fattispecie dell'elemento psicologico delle lesioni volontarie, non incompatibile con la finalità terapeutica della condotta, ma ravvisabile nella piena consapevolezza della prevenuta della lesività della eccentrica scelta terapeutica effettuata dalla stessa, attraverso la produzione di effetti collaterali del tipo di quelli poi effettivamente verificatisi. In tale prospettiva non avrebbe rilievo l'intento di ottenere nel contempo il
beneficio del dimagrimento ricercato. Inoltre, in ordine all'esclusione del nesso causale tra la somministrazione dei medicinali ed i disturbi elencati nella seconda parte del capo di imputazione, si rimarca la mancanza di motivazione sul punto, essendosi la sentenza esclusivamente fondata sulle valutazioni del primo giudice.
L'imputata propone ricorso tramite i due difensori. Si tratta di elaborati formalmente differenti, ma di analogo contenuto, onde vanno trattati congiuntamente.
Le doglianze si articolano in tre motivi.
Con il primo, si lamenta la manifesta illogicità della motivazione in ordine all'accertamento del nesso causale tra la somministrazione del farmaco e gli eventi di lesione ascritti alla condotta dell'imputata.
In particolare, era stato ritenuto in sentenza che la sintomatologia accertata nella minore poteva costituire effetto collaterale dell'assunzione del Topamax alle dosi consigliate dalla casa farmaceutica produttrice del medicinale, come emergeva dal foglietto illustrativo degli effetti del farmaco. Contestualmente la Corte di merito dava altresì atto che pressoché tutti gli esperti sentiti ed esaminati aveva evidenziatoche, una volta sospeso il trattamento del Topamax , gli effetti collaterali erano destinati a sparire nel gito di qualche giorno o di una settimana al massimo. Nel verificare in concreto la correlabilità in astratto degli eventi ritenuti malattia, la sentenza di appello (così come quella di primo grado implicitamente richiamata in punto di causalità in quanto conforme) sarebbe così incorsa in una insanabile contraddizione che inficiava l'intero percorso argomentativo in tema di accertamento eziologico. I giudici di merito, infatti, dopo avere enunciato la legge scientifica di copertura sopra indicata, non avrebbero tenuto conto che i sintomi ravvisati nella bambina persistettero per molti mesi (quantomeno sei ) dalla cessazione della terapia, come emergeva incontrovertibilmente dalle dichiarazioni testimoniali della madre della bambina, riportate integralmente nella sentenza di primo grado. Con riferimento a queste ultime si prospetta, inoltre, un travisamento della prova. da parte del giudice di appello, laddove, nel respingere la stessa obiezione difensiva, ne aveva affermata l'irrilevanza assumendo che in ogni caso la teste aveva riferito di una attenuazione dei sintomi rispetto a quando la minore assumeva il medicinale.
Con il secondo motivo, ci si duole della mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta rilevanza dell'emicrania quale evento lesivo casualmente riconducibile alla somministrazione del farmaco. Il giudice di appello, pur avendo acquisito a seguito della richiesta del difensore copia del decreto pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, dal quale emergeva che l'impiego del topiramato era stato autorizzato per la cura dell'emicrania, aveva omesso ogni motivazione in proposito, così che la condotta ritenuta casualmente efficace nella fattispecie nella determinazione dell'emicrania era costituita dalla somministrazione di un farmaco ufficialmente riconosciuto come casualmente idoneo ad eliminarla.
Con il terzo motivo prospetta l'erronea applicazione dell'art. 43 c.p. in riferimento alla ritenuta natura colposa della condotta contestata.
La mancanza di un consenso non sufficientemente informato non può costituire, invero, secondo il ricorrente, fondamento di una responsabilità colposa, poiché la disciplina del consenso informato non può essere inquadrata nell'ambito delle regole cautelari.
La normativa in tema di consenso informato non è rivolta ad assicurare la corretta esecuzione della terapia, ma a garantire al paziente la scelta della stessa in ossequio al principio costituzionale della libertà di cura. Il ritenuto difetto di consenso non può costituire, pertanto, l'inosservanza rilevante ai sensi dell'art. 43, comma 1, c.p., come del resto, rilevato dal primo giudice, secondo il quale il problema del consenso non era decisivo ai fini della qualificazione giuridica del fatto.
Quanto all'altro addebito di colpa, identificato dalla Corte di merito nella mancata attività di monitoraggio delle condizioni della minore, si sostiene che tale pretesa inosservanza cautelare non avrebbe avuto rilevanza ai fini della evitabilità dell'evento, in quanto il sanitario, pure messo a conoscenza degli effetti collaterali indesiderati correlabili alla assunzione del farmaco, non aveva ritenuto di modificare la valutazione espressa in termini di costi/benefici ed aveva continuato a ritenere necessaria la terapia.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente chiarito quale significato e spazio operativo abbia, nell'apprezzamento dell'attività medico-chirurgica, il consenso del paziente.
La questione, che forma oggetto di motivo di ricorso dell'imputata, riguarda uno degli aspetti della qualificazione giuridica del fatto, accertato dai giudici di merito in termini diversi quanto al profilo dell'elemento soggettivo del reato.
Secondo il giudice di primo grado il problema del consenso non era rilevante sotto questo profilo, mentre il giudice di secondo grado ha fondato uno degli addebiti di colpa proprio sulla mancanza di un consenso non sufficientemente informato.
In proposito, non è discutibile che I' attività medico-chirurgica, per essere legittima, presuppone il "consenso" del paziente, che non si identifica con quello di cui all'articolo 50 c.p., ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento: infatti, il medico, di regola ed al di fuori di taluni casi eccezionali (allorché il paziente non sia in grado per le sue condizioni di prestare un qualsiasi consenso o dissenso, ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessità di cui all'articolo 54 c.p.), non può intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. In questa prospettiva, il "consenso", per legittimare il trattamento terapeutico, deve essere "informato", cioè espresso a seguito di una informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti negativi della terapia o dell' intervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e l'indicazione della gravità degli effetti del trattamento.
Il consenso informato, infatti, ha come contenuto concreto la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Tale conclusione, fondata sul rispetto del diritto del singolo alla salute, tutelato dall'art. 32 Costituzione (per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge), sta a significare che il criterio di disciplina della relazione medico-malato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve essere sempre rispettata dal sanitario.
Anche la legge 8 aprile 1998 n. 94 (c.d. legge Di Bella, in quanto legge di conversione di un decreto legge approvato per la necessità e l'urgenza di assicurare una procedura di sperimentazione accelerata al noto trattamento Di Bella per la cura delle malattie oncologiche), all'art. 3, comma 2 – citato dai giudici di merito e riferibile a qualunque prescrizione off label- pone la presenza del consenso informato del paziente tra i presupposti di liceità del trattamento (gli altri due sono: l'impossibilità, in base a dati documentabili, di trattare utilmente il paziente in label, cioè con medicinali per i quali sia stata già approvata una certa indicazione terapeutica o una certa via o modalità di somministrazione; l'impiego off label deve essere noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale).
Ciò detto sul consenso, va precisato quali conseguenze derivino per la valutazione dell'attività medico-chirurgica [all'evidenza in caso di esito infausto] quando questa sia stata prestata in assenza di un consenso informato nei termini di cui sopra.
Ebbene, pur se I' attività medico-chirurgica, per essere legittima, presuppone il "consenso informato" del paziente, è da escludere che dall'intervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato in modo invalido possa di norma farsi discendere la responsabilità del medico a titolo di lesioni volontarie ovvero, in caso di esito letale, a titolo di omicidio preterintenzionale. Ciò in quanto il sanitario il quale, salve situazioni anomale e distorte (nelle quali potrebbe ammettersi la configurabilità di tali reati: per esempio, nei casi in cui la morte consegua ad una mutilazione procurata in assenza di qualsiasi necessità o di menomazione inferta, con esito mortale, per scopi esclusivamente scientifici), si trova ad agire, magari erroneamente, ma pur sempre con una finalità curativa, che è concettualmente incompatibile con il dolo delle lesioni.
In questa prospettiva, e nei limiti [e con le eccezioni di cui sopra], è evidente che la valutazione del comportamento del medico, sotto il profilo penale, quando si sia in ipotesi sostanziato in una condotta [vuoi omissiva, vuoi commissiva] dannosa per il paziente, non ammette un diverso apprezzamento a seconda che l'attività sia stata prestata con o in assenza di consenso.
In altri termini, il giudizio sulla sussistenza della colpa e quello sulla causalità tra la condotta colposa e l'evento dannoso non presenta differenze di sorta a seconda che vi sia stato o no il consenso informato del paziente.
Da queste premesse occorre partire per giudicare della vicenda sub iudice.
Or bene, in primo luogo, non può che condividersi il giudizio effettuato in sede di appello allorquando si è ricondotto l'elemento soggettivo a quello della colpa, e non a quello del dolo originariamente contestato e ritenuto in sede di sentenza di primo grado.
La ricostruzione fattuale operata dal giudice di secondo grado [che qui non può sindacarsi, perché non illogica] consente di escludere le rigorose, eccezionali condizioni di cui si è detto, da cui avrebbe potuto farsi discendere un giudizio di positiva sussistenza del dolo.
Il giudice di appello ha, infatti, evidenziato che non si trattava di prescrizioni di farmaco per tentare una sperimentazione pura, dato che vi era qualche pubblicazione scientifica proprio sulla utilizzazione di detto effetto collaterale da un punto di vista terapeutico, sottolineando altresì che la pubblicazione , normalmente, segue di qualche anno quello che è oggetto di studi.
L'imputata, in altri termini, lungi dall'avere agito in via spregiudicatamente sperimentale ha inteso effettivamente ricorrere ad un farmaco che ragionevolmente [in termini compatibili con la discrezionalità tecnica attribuita al sanitario] poteva servire per curare la paziente, in ragione dell'effetto anoressizzante che da tale farmaco poteva discendere [come del resto indicato nel bugiardino].
Il problema, quindi, si pone sulla ricostruzione dei termini della affermata responsabilità a titolo di colpa.
In questa prospettiva, le considerazioni del giudicante non sono condivisibili laddove ritiene che la mancata acquisizione del consenso informato configuri un elemento di colpa.
Recependo sul punto le osservazioni della difesa dell'imputata, ritiene il Collegio che non è , infatti, possibile ipotizzare la mancanza di consenso quale elemento della colpa, perché l'obbligo di acquisire il consenso informato non integra una regola cautelare la cui inosservanza influisce sulla colpevolezza.
Ciò in quanto l'acquisizione del consenso non è preordinata [in linea generale] ad evitare fatti dannosi prevedibili (ed evitabili), ma a tutelare il diritto alla salute e, soprattutto, il diritto alla scelta consapevole in relazione agli eventuali danni che possano derivare dalla scelta terapeutica in attuazione di una norma costituzionale
(art. 32, comma 2).
Si è detto in linea generale. Infatti, in un unico caso la mancata acquisizione del consenso potrebbe avere rilevanza come elemento della colpa: allorquando, la mancata sollecitazione di un consenso informato abbia finito con il determinare, mediatamente, l' impossibilità per il medico di conoscere le reali condizioni del paziente e di acquisire un'anamnesi completa (si pensi, alla mancata conoscenza di un'allergia ad un determinato trattamento farmacologico o alla mancata conoscenza di altre specifiche situazioni del paziente che la sollecitazione al consenso avrebbe portato alla attenzione del medico).
Ma si tratta di situazione marginale [di cui qui non ricorrono i presupposti], laddove il consenso [rectius, il mancato consenso] rileva non direttamente, ma come riflesso del superficiale approccio del medico all'acquisizione delle informazioni necessarie per il corretto approccio terapeutico.
Sotto il profilo della colpevolezza sono, invece, convincenti le altre argomentazioni del giudicante.
Sotto quello eziologico, in quanto viene ricostruito, in termini convincenti e con l'apporto della scienza specialistica, il collegamento tra l'assunzione del farmaco e gli effetti patologici derivati alla ragazza.
In questa ottica, si pone la considerazione del difensore dell'imputata che vorrebbe mettere in discussione tale giudizio sostenendone l'infondatezza sulla base del rilievo empirico che gli effetti patologici, non essendo cessati dopo l'assunzione del farmaco [come indicato nel bugiardino], sarebbero stati da ricondurre a cause diverse.
Ma è obiezione di mero fatto, che esprime un dissenso "di merito" nei confronti della ricostruzione logica di segno opposto operata dal giudice di merito, che propone, alla luce della perizia di ufficio e delle testimonianze, una diversa e convincente lettura anche del contenuto del bugiardino. Tale contenuto non può essere necessariamente considerato come ex se dimostrativo dell'unica lettura possibile delle controindicazioni e degli effetti collaterali dei farmaci, giacchè tali controindicazioni e tali effetti collaterali ben possono essere anche diversi e di diversi effetti e durata. Diversamente opinando dovrebbe fondarsi [in termini chiaramente inaccettabili] sul contenuto del bugiardino quasi una sorta di "prova legale", tale da comprimere il principio del libero convincimento del giudice, il quale, invece, con adeguato apprezzamento, può disattenderne la portata, totalmente o parzialmente.
Sotto il profilo della colpa, parimenti la sentenza, con le precisazioni sopra esposte, non merita censure.
E' quasi di scuola apprezzare un profilo di negligenza professionale a carico del sanitario che, pur avvertito degli effetti indesiderati del farmaco somministrato [e ciò a maggior ragione allorquando si tratti di farmaco che tali effetti rappresenti come possibili controindicazioni], lungi dal sottoporre ad una attenta verifica la originaria prescrizione, si limiti – senza neppure visitare il paziente- a confermarla o addirittura ad accentuare (qui, a raddoppiare) la dose del farmaco di interesse, senza neppure sottoporre a nuova visita la paziente.
Ciò è quanto risulta avere effettuato la imputata, la quale ha palesato, nei termini ricostruiti in sede di merito, quell' atteggiamento psicologico (quantomeno in termini di superficialità e disattenzione) che è idoneo ad integrare la colpa.
Atteggiamento qui rilevante giacchè, per quanto detto, è stato eziologicamente produttivo dell'effetto dannoso sub iudice.
Non è controversa ( o discutibile) la possibile rilevanza colposa del mancato monitoraggio che il giudicante ha apprezzato nello specifico, evidenziandone la valenza anche sotto il profilo della evitabilità degli effetti dannosi, che un diverso comportamento del sanitario avrebbe potuto evitare.
La censura espressa dalla difesa sul punto, in questa ottica, esprime solo un dissenso generico rispetto ad una ricostruzione del fatto (condotta omissiva, colpa, effetti) che
regge al sindacato di legittimità, non apprezzandosi nelle argomentazioni proposte quei profili di macroscopica illogicità, che soli, potrebbero qui avere rilievo.
La sentenza, sia pure solo incidentalmente, afferma che, pur volendo ammettere che il rapporto costi/benefici nel caso in esame fosse sbilanciato a favore dei primi, non risultava provato, alla luce dei dati sopra indicati, il comportamento doloso del medico.
L'inosservanza del rapporto rischio/beneficio è, pertanto, individuato dal giudice di appello , quale limite al quale il medico deve attenersi nella prescrizione off label, il cui superamento costituisce fondamento per la responsabilità a titolo di colpa.
L' affermazione va condivisa, essendo in linea con i principi affermati da questa Corte in tema di colpa nell'ambito di scelte terapeutiche adottate.
Vale la pena di ribadire le considerazioni già sviluppate da questa Corte (Sezione IV, 2 marzo 2007, PG Cagliari in proc. Duce ed altri) a proposito della responsabilità professionale del medico, laddove si deve giudicare della correttezza delle scelte terapeutiche "intrinsecamente rischiose" adottate dal sanitario sub iudice.
Or bene, in tale occasione, questo giudice di legittimità ha avuto l'occasione di precisare che la colpa professionale è quella che riguarda le attività giuridicamente autorizzate perché socialmente utili, anche se per loro natura rischiose, ed è caratterizzata sia dalla inosservanza di regole di condotte - leges artis - scritte o non scritte, aventi per finalità la prevenzione non del rischio dall'ordinamento consentito, ma di un ulteriore rischio non consentito - dell'aumento del rischio - e per conseguente contenuto il dovere non di astenersi dalla attività, ma di adottare misure cautelari idonee ad evitare il superamento del rischio non consentito nell'esercizio dell'attività, sia dalla prevedibilità ed evitabilità dell'evento scaturente dal superamento del rischio consentito.
L'agente - in questo caso, il medico - risponde, pertanto, per colpa, secondo la citata decisione, solo dei danni prevedibili, ma prevenibili mediante l'osservanza delle legis artis, e non di quelli prevedibili verificatisi, però nonostante la fedele
osservanza delle regole tecniche, trattandosi, in questo caso, di rischio consentito che l'ordinamento si è accollato nello stesso momento in cui autorizza l'attività rischiosa.
Per quanto riguarda, poi, la "misura" del rischio consentito, in mancanza di predeterminazione legislativa delle regole cautelari o di autorizzazioni amministrative subordinate al rispetto di precise norme precauzionali, ha precisato ancora la citata decisione che la valutazione del limite di tale rischio resta affidata al potere discrezionale del giudice il quale dovrà tenere conto che la prevedibilità e la prevenibilità vanno determinate in concreto, avendo presente tutte le circostanze in cui il soggetto si trova ad operare ed in base al parametro relativistico dell'agente dell'homo ejusdem condicionis et professionis, parametro che, specialmente nella professione medica, è variegato, dovendo tenersi conto delle specializzazioni e del livello di conoscenze raggiunto nelle varie specializzazioni, sicché se l'agente - l'imputato- è un medico che ha una specializzazione e la condotta - azione od omissione - contestatagli ha a che fare con quella specializzazione, la responsabilità da rischio non consentito dovrà essere valutata avuto riguardo ai rischi che le conoscenze certe, raggiunte in quel determinato settore, consentono e, pertanto, impongono di evitare.
Applicando questi principi al caso di specie, in cui la determinazione di adottare una prescrizione off label off label adottata dal medico, non può prescindere dal perseguire il beneficio del paziente, anche attraverso l'osservanza del rapporto rischio- beneficio, che passa ineludibilmente attraverso un'attenta valutazione dei dati clinici.per la cura dell'obesità era stata correttamente assunta sulla base di circostanze non controverse (il disturbo alimentare aveva origini nervose e psichiche; precedenti diete alimentari non avevano ottenuto alcun risultato), la violazione della norma cautelare imputabile all'imputata (tale cioè da determinare quell'aumento del rischio non consentito di cui si é detto) è stata correttamente individuata dai giudici di appello nella inosservanza della regola di condotta che impone in ogni caso al medico di sottoporre ad attenta verifica la originaria prescrizione proprio per evitare quel superamento del rischio non consentito dall'ordinamento . E' evidente che I' obbligo di monitoraggio assume delle connotazioni ancora più pregnanti qualora si tratti, come nel caso, di farmaci prescritti per un'indicazione terapeutica diversa da quella contenuta nell'autorizzazione ministeriale d'immissione in commercio, in quanto la scelta terapeutica
Per quanto sopra esposto sono destituiti di fondamento i motivi di ricorso proposti da entrambe le parti con riferimento alla qualificazione giuridica del fatto, sia pure con le precisazioni relative alla rilevanza del consenso, adesive alla tesi sostenuta dalla difesa dell'imputato.
Il secondo motivo proposto dalla parte civile è incentrato sull'asserita mancata assunzione di una prova decisiva, individuata nell'espletamento di una nuova perizia volta ad accertare la sussistenza del nesso causale tra l'assunzione del farmaco ed i danni alla salute asseritamene subiti della minore, ma esclusi dai giudici di merito.
Anche tale censura è infondata, risolvendosi in una censura di merito afferente la valutazione operata dal giudice di merito delle risultanze della perizia tecnica di ufficio, che sfugge al sindacato di legittimità, in quanto la motivazione in proposito fornita dalla Corte di appello, anche con riferimento al rigetto della richiesta di rinnovazione della perizia, appare logica e congruamente articolata.
Va in proposito ricordato, innanzitutto, che per assunto pacifico, la rinnovazione dell'istruzione nel giudizio di appello ha natura di istituto eccezionale rispetto all'abbandono del principio di oralità nel secondo grado, ove vige la presunzione che l'indagine probatoria abbia raggiunto la sua completezza nel dibattimento già svoltosi in primo grado, onde la rinnovazione ex articolo 603, comma 1, c.p.p. è subordinata alla condizione che il giudice ritenga, secondo la sua valutazione discrezionale, di non essere in grado di decidere allo stato degli atti.
Tale condizione, legittimante (rectius, imponente) la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, si verifica quando i dati probatori già acquisiti siano incerti nonché quando l'incombente richiesto rivesta carattere di decisività ovvero sia di per sé oggettivamente idoneo ad inficiare ogni altra risultanza (Sezione IV, 22 novembre 2007, Proc. gen. App. Genova ed altri in proc. Orlando ed altri).
Anzi, in questa prospettiva, derivandone la coerente conseguenza che, se è vero che il diniego dell'eventualmente invocata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale deve essere spiegato nella sentenza di secondo grado, la relativa motivazione (sulla quale nei limiti della illogicità e della non congruità è esercitabile il controllo di legittimità) può anche ricavarsi per implicito dal complessivo tessuto argomentativo, qualora il giudice abbia dato comunque conto delle ragioni in forza delle quali abbia ritenuto di potere decidere allo stato degli atti (tra le altre, Sezione IV; 5 dicembre 2007, San Martino).
Qui, il giudicante ha fornito adeguata giustificazione del mancato esercizio del potere di rinnovazione, non apprezzandosi quella situazione di incertezza ai fini del decidere che, sola, lo avrebbe consentito (anzi, addirittura imposto).
Non è, pertanto, configurabile nella fattispecie il vizio denunciato dal ricorrente sotto il profilo della mancata assunzione di una prova decisiva ex art. 606, comma 1, lett. d), c.p.p.
Anche perché, va soggiunto, per prova decisiva, la cui mancata assunzione può costituire motivo di ricorso per cassazione, deve intendersi solo quella che, confrontata con le argomentazioni addotte in motivazione a sostegno della decisione, risulti "determinante" per un esito diverso del processo, e non anche quella che possa incidere solamente su aspetti secondari della motivazione ovvero sulla valutazione di affermazioni testimoniali da sole non considerate fondanti della decisione prescelta. Per l'effetto, tale vizio è ravvisabile solamente quando la prova richiesta e non ammessa, confrontata con le argomentazioni formulate in motivazione a sostegno ed illustrazione della decisione, risulti tale che, se esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia (cfr. Sezione VI, 2 aprile 2008, Nigro).
Il vizio prospettato, va ancora soggiunto, è da escludere anche per un'altra considerazione.
La perizia, infatti, per il suo carattere "neutro" sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, non può farsi rientrare nel concetto di "prova decisiva": con la conseguenza che il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lettera d), c.p.p. e, in quanto giudizio di fatto, se assistito da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità, anche ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lettera e), c.p.p. (cfr., ex pluribus, Sezione IV, 4 ottobre 2007, Romele).
Or bene, venendo a concretizzare i suddetti principi al caso di specie, la lettura della motivazione della sentenza impugnata sfugge alle censure di illogicità articolate dal ricorrente, giacché i giudici di appello hanno ritenuto che le risultanze processuali in atti (una gran mole di produzione scientifica sull'argomento) non consentivano di argomentare la sussistenza di una prova certa circa l'estensione del nesso di causalità tra l'assunzione del farmaco ed i disturbi elencati nella seconda parte del capo di imputazione (diplopia oculare, calcolosi renale e colecistopatia), ritenendo così ragionevole prevedere che ulteriori elaborati non avrebbero portato a diverse conclusioni.
Ritiene il Collegio che la motivazione, conforme, del resto, all'impostazione dei periti di ufficio, e non contraddetta neppure dagli esiti delle consulenze di parte, non sia né contraddittoria né illogica e, pertanto, non è censurabile in questa sede.
In proposito, giova ricordare quanto alla valenza probatoria riconosciuta alla perizia d'ufficio, che, per assunto pacifico, il giudice che ritenga di aderire alle conclusioni del perito d'ufficio, qualora siano in difformità da quelle del consulente di parte, non può essere gravato dall'obbligo di fornire, in motivazione, autonoma dimostrazione dell'esattezza scientifica delle prime e dell'erroneità, per converso, delle altre, dovendosi al contrario considerare sufficiente che egli dimostri di avere comunque valutato le conclusioni del perito d'ufficio senza ignorare le argomentazioni del consulente, e potendosi quindi ravvisare vizio di motivazione solo se queste ultime siano tali da dimostrare in modo assolutamente lampante ed inconfutabile la fallacia delle conclusioni peritali. Più in generale, dovendosi anzi affermare che il giudice di merito, in sede di valutazione delle risultanze offertegli da elaborati tecnici, può fare propria l'una piuttosto che l'altra delle tesi propostegli, purchè dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi che ha creduto di non dover seguire (v. la già citata sentenza Romele).
Ciò vale tanto più nel caso di specie, ove non si è neanche verificata una difformità di conclusioni tra i periti ed il giudice di merito ha dimostrato di aver preso in considerazione tutte le risultanze processuali.
II ricorso della parte civile va, pertanto, rigettato.
Passando all'esame dell' altro motivo di censura proposto dall'imputata si osserva quanto segue.
La censura della ricorrente- contenuta nel secondo motivo- afferente la mancanza di motivazione in merito all'asserita dimostrazione dell'impiego del topiramato quale cura dell'emicrania - individuata, invece, dai giudici di merito tra i disturbi collegati all'utilizzo del farmaco- dimentica di considerare che il giudice di appello deve certamente valutare tutti i motivi di gravame e tenere conto di tutti gli argomenti proposti dall'appellante a sostegno degli stessi, ma in sede di redazione della motivazione deve limitarsi ad illustrare le ragioni che legittimano la decisione assunta: ciò significa che, se è necessario che detto giudice debba discutere di tutti i motivi di gravame, non è affatto necessario che egli "risponda" a tutti gli argomenti posti a sostegno dei motivi di impugnazione, dal momento che molti di essi vengono implicitamente superati dalle ragioni di segno contrario che legittimano la decisione ( v. Sezione IV, 24 giugno 2008, Prearo).
Anche in questo caso, deve ritenersi che il giudice di appello abbia implicitamente disatteso il motivo, fondato su di una obiezione di mero fatto, inidonea a contraddire nello specifico il proprium dell'evento dannoso contestato, a fronte di una ricostruzione logica operata dal giudice di merito alla luce delle risultanze processuali di segno contrario, che legittimano la decisione e la rendono incensurabile in questa sede. .
Alla luce di tali considerazioni anche il ricorso proposto dall'imputata va rigettato sotto tutti i profili.
Ciò premesso, va rilevato che nelle more del giudizio di legittimità , il reato di lesioni colpose si è prescritto.
Trattasi di questione anche rilevabile d'ufficio, né alla rilevabilità della stessa osta l'impossibilità di procedere, in questa sede, ad indagini di fatto, giacchè la data di consumazione del reato è processualmente certa (cfr. Sezione IV, 30 settembre 1997, Montecuollo).
Nella tipologia del reato del reato in esame, vale il principio che ai fini della prescrizione, rileva la data in cui è diagnosticata l'insorgenza della malattia e non quella, successiva, in cui ne e' accertata la causa ( v., tra le altre, Sezione IV, 22 gennaio 1999, Torda).
Poiché nel caso in esame i sintomi della sonnolenza e della emicrania sono insorti entro la data sospensione della terapia, avvenuta in base ad accertamenti incontestati contenuti nelle sentenze di merito in data 10.11.1999 ed il reato si prescrive esattamente in sette anni e mezzo ( 5 anni+ 2 e mezzo per interruzione), l'estinzione per intervenuta prescrizione si è verificata in data antecedente al 10 maggio 2007, non essendo state riscontrate cause di sospensione .
Non è dubitabile, in proposito, che al giudizio sopra espresso circa il positivo accertamento tra la condotta colposa del medico e la malattia della paziente, consegua la conferma delle statuizioni civili della sentenza impugnata.
Al rigetto del ricorso della parte civile consegue la condanna della stessa al pagamento delle spese del procedimento. Sussistono giusti motivi, in considerazione delle questioni trattate, per la compensazione tra le parti delle spese di questo grado di giudizio.
P.Q.M.
annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per intervenuta prescrizione. Conferma le statuizioni civili adottate nella medesima sentenza. Rigetta il ricorso della parte civile e la condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara compensate per intero tra le parti le spese civili relative a questo grado di giudizio.
Così deciso nella camera di consiglio del 24 giugno 2008
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