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 Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza 26 giugno 2008 (dep. 25 settembre 2008), n. 36717

E' inammissibile il ricorso avverso il provvedimento mediante il quale il Giudice di Pace dichiara l'inammissibilità del ricorso immediato per la citazione in giudizio

Svolgimento del procedimento
1 – Con provvedimento reso il 27.2.2007, il Giudice di pace di Bergamo dichiarava inammissibile, ai sensi dell’art. 24 lett. c), in relazione all’art. 21, comma 2, lett. e) del D.Lgs. 28.8.2000 n. 274, il ricorso immediato proposto nell’interesse di A. C. per ottenere la citazione a giudizio di G. Z., P. Z. e A. N. per i reati d’ingiuria e diffamazione (artt. 594 e 595 c.p), nonché di Rino Zanchi per il reato di minacce (art. 612 c.p.).

Osservava al riguardo che il ricorso era privo dei requisiti prescritti, perché non conteneva le generalità complete delle persone da citare a giudizio, mancando del luogo e della data di nascita delle medesime.

2 – Il difensore della C., con atto depositato il 15.3.2007, ha proposto ricorso per cassazione, deducendo con unico motivo violazione e/o erronea applicazione degli artt. 21, 22, 24 e 26 D.Lgs. 274/2000, e chiedendo l’annullamento del provvedimento impugnato con ogni consequenziale pronuncia.

Sostiene al riguardo che per esercitare l’azione penale e civile davanti al giudice di pace ex art. 21 e ss. D.Lgs. 274/2000 non è necessario che la persona offesa indichi anche il luogo e la data di nascita delle persone che intende citare in giudizio, così come non è richiesto per l’esercizio di analoghi strumenti processuali, quali la querela (artt. 336 e ss. c.p.p.), la costituzione di parte civile nel processo penale (art. 78 c.p.p.) e l’atto di citazione per il processo civile (art. 163 c.p.c.).

Sostiene altresì la ricorribilità per cassazione dei provvedimenti d’inammissibilità emessi dal giudice di pace ex artt. 24 e 26 D.Lgs. 274/2000; ma aggiunge per completezza che sul punto esiste un contrasto giurisprudenziale, sicché chiede, occorrendo, la rimessione del ricorso alle Sezioni unite di questa Corte.

3 – Il ricorso è stato assegnato alla quinta sezione penale.

Il Procuratore generale in sede, con requisitoria scritta del 17.10.2007, ha chiesto dichiararsi la inammissibilità del ricorso in ragione del carattere di decisione non definitiva del provvedimento impugnato.

Altrettanto ha chiesto il difensore fiduciario dei citati Z. e N. con memoria depositata il 10.3.2008.

La quinta sezione penale, con ordinanza in data 1.4.2008, depositata il 28.4.2008, rilevato il contrasto giurisprudenziale in ordine alla ricorribilità per cassazione del provvedimento impugnato, dopo una puntuale disamina delle ragioni addotte a sostegno dell’uno e dell’altro orientamento, ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite, non senza aver rilevato che il contrasto era già stato segnalato in precedenza dall’ufficio del massimario di questa Corte e che un precedente ricorso, riguardante indirettamente la stessa questione, era stato già rimesso alle Sezioni unite, ma era stato poi restituito alla sezione semplice (v. Cass. Sez. V, sent. n. 18845 del 21.11.2006, Battaglia, rv. 236924).

Il Primo Presidente, con provvedimento del 12.5.2008, ha fissato per la trattazione davanti alle Sezioni unite l’udienza del 26.6.2008.

Il Procuratore generale, con requisitoria del 31.5.2008, ha confermato la precedente richiesta d’inammissibilità del ricorso, ulteriormente argomentando sul carattere interlocutorio e non decisorio del provvedimento impugnato.
Motivi della decisione

4 – La questione rimessa a questo Collegio è se sia ammesso il ricorso per cassazione contro il provvedimento col quale il giudice di pace, ai sensi dell’art. 26, comma 2, D.Lgs. 28.8.2000 n. 274, dichiara inammissibile il ricorso immediato per la citazione a giudizio, presentato dalla persona offesa ai sensi dell’art. 21 dello stesso D.Lgs. 274/2000.

Giova ricordare che, secondo la speciale disciplina stabilita dal D.Lgs. 274/2000 per il processo penale davanti al giudice di pace, in caso di ricorso immediato della persona offesa per i reati procedibili a querela, il pubblico ministero, entro dieci giorni dalla comunicazione che ne ha ricevuto, presenta le sue richieste al giudice di pace, e, se non esprime parere contrario alla citazione, formula la imputazione (art. 25).

Il giudice, scaduto il termine dei dieci giorni, anche se il pubblico ministero non ha presentato richieste, deve provvedere al riguardo con una delle seguenti decisioni (art. 26 e 27):

a) se ritiene il ricorso inammissibile per uno dei motivi processuali indicati nell’art. 24 (ricorso presentato fuori termine o fuori dei casi previsti; ricorso privo dei requisiti prescritti o non ritualmente sottoscritto; ricorso che non contiene una sufficiente descrizione del fatto o l’indicazione delle fonti di prova; mancanza di prova della comunicazione del ricorso al pubblico ministero), oppure manifestamente infondato, lo dichiara e trasmette gli atti al pubblico ministero per l’ulteriore corso del procedimento;

b) se ritiene che il ricorso riguardi un reato appartenente alla competenza per materia di un altro giudice, lo dichiara con ordinanza e dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero;

c) se riconosce la propria incompetenza per territorio, lo dichiara con ordinanza e restituisce gli atti al ricorrente, che nel termine perentorio di dieci giorni ha facoltà di reiterare il ricorso davanti al giudice di pace competente;

d) se non deve provvedere in uno dei sensi suindicati, emette decreto di convocazione delle parti davanti a sé.

Nei casi , e il procedimento speciale attivato col ricorso si conclude davanti al giudice adito, con la possibilità di essere riattivato davanti ad altro giudice di pace territorialmente competente (nel caso ), o di trasformarsi nel procedimento ordinario davanti allo stesso giudice attraverso atto di citazione diretta emesso dal pubblico ministero ex art. 20 (nel caso ). Nel caso , invece, il procedimento speciale sfocia nel giudizio, che si aprirà con il tentativo obbligatorio di conciliazione e, se il tentativo fallisce, proseguirà con la istruttoria e si concluderà con la sentenza finale (artt. da 29 a 32). In questa ultima ipotesi, attraverso il rito speciale introdotto col ricorso immediato, la persona offesa promuove una sorta di azione penale a formazione progressiva con l’intervento del pubblico ministero, che consente di abbreviare i tempi processuali, risparmiando quelli necessari all’espletamento delle indagini preliminari (di cui agli artt. da 11 a 19).

Anche in considerazione della oscillazione terminologica che caratterizza la prassi giudiziaria, preliminarmente è opportuno precisare che il provvedimento d’inammissibilità va configurato come decreto che il giudice di pace emette de plano. Infatti, il citato art. 26 non specifica la forma dei provvedimenti del giudice, salvo che per i casi d’incompetenza per materia o per territorio: in tale ipotesi, secondo la norma, il giudice adito deve provvedere con ordinanza (ovviamente motivata ex art. 125, comma 3, c.p.p.), dichiarando la propria incompetenza e disponendo la trasmissione degli atti al pubblico ministero o la restituzione al ricorrente. Sembra potersi dedurrre che, dove l’art. 26 non prescrive la forma dell’ordinanza, il giudice provvede con decreto inaudita altera parte. Ovviamente, in forza dell’art. 111, comma 6, Cost., anche il decreto deve essere motivato, sia pure sinteticamente, ma non a pena di nullità, giacché l’art. 125, comma 3, c.p.p. riserva questa sanzione ai soli casi in cui essa è espressamente prevista dalla legge.

Alla luce di quanto si osserverà in seguito, questa precisazione terminologica non è priva di rilievo nella questione de qua, ove si consideri che, secondo una dottrina tradizionale, il decreto ha contenuto solitamente ordinatorio, non decisorio, essendo strumentale all’ulteriore svolgimento del processo.

5 – Prima di affrontare il contrasto registrato nella giurisprudenza di legittimità, sembra opportuno far cenno di alcune decisioni della Corte costituzionale, che hanno indubbio rilievo, seppure indiretto, sul thema decidendum.

Con ordinanza n. 114 del 24.4.2008 il Giudice delle leggi ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, D.Lgs. 274/2000, sollevata dal Giudice di pace di Chioggia, nella parte in cui non prevede che, a seguito di ricorso immediato della persona offesa, il pubblico ministero, anche quando esprime parere contrario alla citazione, debba formulare l’imputazione.

Nell’argomentare la decisione, la Corte ha svolto alcune sintetiche osservazioni, indubbiamente utili per chiarire i termini del problema in esame.

Anzitutto – secondo la Consulta – il legislatore ha riconosciuto esclusivamente al pubblico ministero la titolarità dell’iniziativa penale anche in ordine ai reati di competenza del giudice di pace perseguibili a querela, configurando il nuovo istituto del ricorso immediato della persona offesa come atto meramente propositivo, rispetto al quale è rimesso al pubblico ministero il potere di aderire o no, nell’esercizio della sua prerogativa istituzionale.

In secondo luogo, in ossequio al principio generale secondo cui le iniziative del pubblico ministero sono normalmente soggette al controllo del giudice, il giudice di pace ha il potere di trasmettere gli atti al pubblico ministero, anche se questi ha formulato l’imputazione. Questa trasmissione non inibisce la prosecuzione del procedimento nelle forme ordinarie, con la possibilità per il giudice di pace di disporre la cosiddetta imputazione coatta ai sensi dell’art. 17, comma 4, del D.Lgs. 274/2000, ove il pubblico ministero, all’esito di ulteriori indagini, avanzi richiesta di archiviazione. Per questa ragione, dalla trasmissione degli atti al pubblico ministero non deriva una irrazionale compressione del diritto di difesa del ricorrente, il quale può adeguatamente far valere le sue ragioni nell’ulteriore corso di un procedimento che resta connotato dal costante coinvolgimento della persona offesa, in correlazione con la finalità conciliativa della giurisdizione penale del giudice di pace.

Infine, questa disciplina, che appare il frutto di coerenti scelte normative in ordine ai diversi moduli introduttivi del giudizio, non lede il principio costituzionale della ragionevole durata del processo.

Altra pronuncia più risalente, invece, getta luce sulla più specifica questione della inammissibilità del ricorso immediato della persona offesa per insufficiente indicazione delle generalità dell’imputato/querelato. Con l’ordinanza n. 83 del 23.2.2004 n. 83 la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione d’illegittimità costituzionale dell’art. 21, comma 2, lett. e) del D.Lgs. 274/2000, nella parte in cui prevede che il ricorso immediato della persona offesa deve contenere, a pena d’inammissibilità, le generalità della persona citata a giudizio.

Nella motivazione, la Consulta ha in primo luogo osservato che, contrariamente all’assunto del giudice rimettente, la persona offesa ha possibilità di accedere ai dati identificativi del querelato, atteso che non è necessario il consenso dell’interessato per il trattamento dei dati quando questi sono necessari per lo svolgimento delle indagini difensive o comunque per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria (art. 12, lett. h) legge 31.12.1996 n. 675, ora sostanzialmente riprodotto nell’art. 24, lett. f) D.Lgs. 30.6.2003 n. 196, codice in materia di protezione dei dati personali).

Peraltro, affrontando il problema di merito, l’ordinanza ha significativamente aggiunto che secondo una pronuncia di questa Corte di cassazione (alludendo evidentemente a Cass. Sez. V, n. 21714 dell’11.4.2003, Feliciani, rv. 224891) il requisito della identificazione delle generalità della persona citata a giudizio è soddisfatto anche se manchi la precisazione della data e del luogo di nascita, essendo sufficiente che il ricorso non sia rivolto ad incertam personam.

6 – Passando più direttamente alla questione devoluta al Collegio, occorre analizzare i due orientamenti contrapposti delle sezioni semplici di questa Corte: uno maggioritario, che sostiene la ricorribilità del decreto del giudice di pace; uno minoritario, che argomenta per la non ricorribilità.

A rigore, esulano dal thema decidendum quelle pronunce che hanno dichiarato l’ammissibilità del ricorso solo perché il provvedimento impugnato rivestiva, nei singoli casi, il carattere dell’abnormità (Sez. IV, n. 33675 del 27.5.2004, P.M. in proc. Gatto, rv. 229096; Sez. V, n. 40836 del 20.9.2004, P.M. in proc. Nardo, rv. 230118; Sez. V, n. 12 del 25.10.2005, P.M. in proc. Losa, rv. 233501; Sez. V, n. 20559, P.M. in proc. Bellisario, rv. 234186; Sez. V, n. 10745 dell’8.2.2007, P.M. in proc. Nodari, rv. 235945). In questi casi, infatti, com’è noto, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, la possibilità di impugnare il provvedimento per cassazione non deriva dalla forma e dal contenuto tipico del provvedimento, ma dalla sua concreta abnormità strutturale o funzionale, perché esso risulta estraneo all’ordinamento processuale o perché determina una crisi di funzionamento (stasi, o indebita regressione) del processo (v. per tutte Sez. Un. n. 17 del 10.12.1997, dep. 12.2.1998, Di Battista, rv. 209603; Sez. Un. n. 26 del 24.11.1999, dep. 26.1.2000, Magnani, rv. 215094).

E’agevole rilevare che nel caso di specie il decreto d’inammissibilità non può considerarsi abnorme, né in senso strutturale, giacché è espressamente previsto dall’ordinamento come esercizio di un potere specifico del giudice di pace, né in senso funzionale, giacché non provoca alcuna stasi processuale, ma semplicemente converte il rito speciale breve in rito ordinario (atteso che la proposizione del ricorso produce gli stessi effetti della presentazione della querela ai sensi dell’art. 21, comma 5, D.Lgs. 274/2000).

Quelle che propriamente si contendono il campo, invece, sono le sentenze che optano per l’una o per l’altra soluzione sulla base della concezione che hanno della natura intrinseca del provvedimento impugnato e dello scopo della impugnazione per cassazione.

L’orientamento prevalente sostiene la ricorribilità per cassazione del decreto di inammissibilità pronunciato dal giudice di pace ex art. 26 D.Lgs. 274/2000 facendo leva in sostanza sui seguenti fondamentali argomenti:

a) si tratta di un provvedimento essenzialmente decisorio, che conclude il procedimento speciale attivato dalla persona offesa, in quanto, pur lasciando aperta la possibilità che il procedimento prosegua nelle forme ordinarie, impedisce all’interessato l’accesso immediato al giudizio, che il legislatore ha inteso indubbiamente favorire nella giustizia penale minore;

b) la persona offesa ha interesse alla impugnazione del decreto d’inammissibilità proprio al fine di rimuovere l’ostacolo che gli impedisce l’accesso a un processo accelerato attraverso il quale conseguire in tempi rapidi la sua domanda di giustizia penale ed eventualmente civile. (Sez. V, n. 21714 dell’11.4.2003, Feliciani, rv. 224890, cit; Sez. IV, n. 19265 del 17.12.2002, dep. 24.4.2003, Rallo, rv. 225424; Sez. V, n. 22389 del 10.5.2005, Viola, rv. 231436; Sez. V, n. 19370 del 10.5.2005, Urso, rv. 231779; Sez. V, n. 11588 del 10.2.2006, Busetto, rv. 233899; Sez. V, n. 22505 del 23.5.2006, Mazzetto, rv. 234710; Sez. V, n. 176 del 28.9.2006, P.O. in proc. Cozzi, rv. 236040).

L’orientamento minoritario esclude invece la ricorribilità per cassazione con argomenti specularmente opposti, che possono così riassumersi:

a) il provvedimento del giudice di pace non ha carattere decisorio, giacché l’azione penale prosegue comunque nelle forme ordinarie;

b) la persona offesa non è pregiudicata nei suoi diritti, giacché ha la possibilità di esercitarli ugualmente nel processo ordinario. (Sez. IV, n. 34144 del 10.6.2004, Netti, rv. 228834; Sez. II, n. 2578 del 17.11.2005, Drigo, rv. 222864; Sez. VI, n. 30960 del 28.5.2007, P.O. in proc. Del Balzo, rv. 237188; Sez. V, n. 41212 del 24.10.2007, P.M. in proc. Franceschelli, rv. 238182).

7 – Da questo sommario riassunto del contrasto argomentativo non è difficile desumere il parametro fondamentale a cui occorre far ricorso per la soluzione della questione.

Secondo l’art. 111, comma 7, Cost. e l’art. 568, comma 2, c.p.p. è sempre ammesso il ricorso per cassazione, per violazione di legge, contro le sentenze, salvo per quelle sulla competenza che possono dar luogo a un conflitto di giurisdizione o di competenza.

Poiché la incerta identificazione formale dei provvedimenti giurisdizionali non sempre assicura il rispetto della ratio della disposizione, sul punto si è imposta da tempo una interpretazione “sostanzialista” secondo la quale sono ricorribili per cassazione non solo le sentenze, ma anche i provvedimenti che, pur non avendo il carattere formale della sentenza, hanno un contenuto decisorio e una capacità di incidere in via definitiva su diritti soggettivi (così Cass. Sez. Un. Pen. n. 25080 del 28.5.2003, Pellegrino, rv. 224610, che ribadisce l’orientamento seguito dalle stesse Sezioni unite con le sentenze n. 26 del 24.11.1999, Magnani, rv. 215093, n. 17 del 10.12.1997, Di Battista, rv. 209606 e n. 3 del 3.2.1995, P.G. in proc. Gallo, rv. 200116; riprendendo in tal modo una risalente giurisprudenza civile, autorevolmente avallata dalle Sezioni unite civili con le sentenze n. 2593 del 30.7.1953, Laredo Mendoza c. De Barberis, rv. 881234; n. 5603 del 6.11.1984, Manzione c. RAI, rv. 437279).

Entrambi i succitati orientamenti giurisprudenziali condividono questa interpretazione analogica del principio, che è diventato ormai ius receptum, ma ne fanno applicazioni diverse.

Orbene, il senso della interpretazione “sostanzialista” del principio è che tutti i provvedimenti giurisdizionali che decidono in relazione ai diritti sostanziali dedotti in giudizio devono poter essere assoggettati al vaglio della Corte di cassazione, affinchè questa possa assicurare l’uniforme interpretazione e applicazione del diritto oggettivo. Se non fosse garantita la possibilità di ricorrere per cassazione contro ogni sentenza, e contro ogni provvedimento di analogo contenuto decisorio, sarebbe vanificata la funzione nomofilattica affidata al supremo organo giurisdizionale.

In altri termini, poiché la sentenza è un provvedimento tipicamente decisorio, idoneo a risolvere la controversia dedotta nel processo con carattere d’irrevocabilità, acquistando così autorità di giudicato, la ricorribilità per cassazione contro le sentenze si può estendere per analogia, senza vulnerare il principio di tassatività delle impugnazioni, anche agli altri provvedimenti giurisdizionali che decidono, con possibilità di passaggio in giudicato, sul diritto sostanziale dedotto in giudizio, incidendo cosi definitivamente sul merito della regiudicanda.

Per la stessa ragione, però, vale a dire perché manca la predetta analogia, questa ricorribilità non si può estendere a tutti i provvedimenti meramente ordinatori o processuali, che decidono soltanto sul diritto potestativo di ottenere una pronuncia giurisdizionale, attraverso determinati riti processuali, e per conseguenza non incidono sul merito.

Trascurano questa essenziale distinzione, e quindi svalorizzano l’autonomia dell’azione processuale rispetto al diritto sostanziale, gli argomenti fondamentali utilizzati dai fautori dell’orientamento giurisprudenziale maggioritario, laddove ritengono la natura decisoria del decreto d’inammissibilità perché preclude alla persona offesa l’accesso al rito semplificato, oppure sottolineano l’interesse della stessa persona offesa a conseguire per via breve la condanna dell’imputato e il risarcimento del relativo danno (senza peraltro considerare che l’interesse è un requisito della impugnabilità soggettiva e non un criterio per valutare la impugnabilità oggettiva del provvedimento).

Alla luce di queste precisazioni, non v’è dubbio che il decreto con cui il giudice di pace, ai sensi dell’art. 26, dichiara inammissibile il ricorso della persona offesa per difetto dei requisiti

processuali prescritti dall’art. 24, non decide sul merito, e quindi non esaurisce l’azione penale per il reato denunciato e l’eventuale azione civile per il relativo risarcimento del danno; ma decide soltanto sul rito semplificato introdotto dalla persona offesa col ricorso immediato presentato ai sensi dell’art. 21.

Tanto è vero che il giudice, quando dichiara inammissibile il ricorso per ragioni di rito (ma anche quando lo dichiara manifestamente infondato per ragioni di merito) ha l’obbligo di disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero per l’ulteriore corso del procedimento ordinario, che potrà svilupparsi con indagini preliminari e potrà sfociare in un provvedimento di archiviazione, in una sentenza di proscioglimento o in una sentenza di condanna. La persona offesa che aveva presentato il ricorso immediato, essendo parte necessaria anche del procedimento ordinario, potrà esercitare in questo tutti i suoi diritti, compreso quello di impugnare i provvedimenti conclusivi con i mezzi previsti dall’ordinamento.

Non è esatto affermare che il pubblico ministero ha solo la facoltà, e non l’obbligo, di dar corso ulteriore al procedimento, potendo anche non attivarsi (come afferma la succitata sentenza Urso). Anche in questo snodo procedimentale, infatti, vale il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che – come noto – secondo il modulo alternativo prospettato dall’art. 405 c.p.p. si atteggia come potere-dovere del pubblico ministero di scegliere se richiedere al giudice l’archiviazione o se esercitare positivamente l’azione penale, formulando l’imputazione.

E’ degno di nota a questo proposito che, a norma dell’art. 17, comma 3, D.Lgs. 274/2000, il pubblico ministero che intenda richiedere l’archiviazione dopo che il giudice gli ha trasmesso gli atti in esito alla declaratoria d’inammissibilità o di manifesta infondatezza del ricorso della persona offesa, deve notificare la richiesta di archiviazione alla stessa persona offesa, anche se questa non abbia chiesto preventivamente di essere informata al riguardo. E’ evidente che in questa circostanza la persona offesa conserva i diritti di opposizione e di impugnazione previsti dall’art. 17, comma 2, D.Lgs. 274/2000 e, in quanto compatibili, dagli artt. 409 e 410 c.p.p..

Una chiara conferma della tesi della non ricorribilità si può rinvenire nella Relazione ministeriale di accompagnamento al Decreto Legislativo 28.8.2000 n. 274. Illustrando i provvedimenti che il giudice di pace può adottare ai sensi dell’art. 26, la Relazione significativamente precisa che per i casi d’inammissibilità del ricorso previsti dall’art. 24 “si è poi scartata l’ipotesi, pur in astratto possibile, della pronuncia da parte del giudice di una ordinanza impugnabile, in quanto in tal modo si sarebbe innestata una ulteriore fase incidentale che, anche per i prevedibili tempi ordinari di decisione, si sarebbe posta in netto contrasto con l’accentuata caratteristica d’immediatezza della citazione per ricorso. D’altra parte, la trasmissione degli atti [al pubblico ministero: n.d.r.] non inibisce la prosecuzione del procedimento nelle forme ordinarie, che potrà sfociare, all’esito di eventuali approfondimenti investigativi, in una citazione a giudizio ai sensi dell’articolo 20 [cioè da parte del pubblico ministero, e non più della polizia giudiziaria, dopo la modifica introdotta dall’art. 17, comma 4 lett. a) del D.L. 27.7.2005 n. 144, convertito, con modificazione, nella legge 31.7.2005 n. 155: n.d.r.]. Peraltro, resta aperta la strada alla archiviazione del procedimento ai sensi dell’articolo 17.”

8 – In conclusione, non si può condividere l’orientamento che sostiene la ricorribilità per cassazione del decreto con cui il giudice di pace dichiara inammissibile il ricorso immediato della persona offesa; anche se si può intuire come alla base di questo orientamento maggioritario vi sia la propensione del giudice di legittimità a non abdicare alla sua funzione nomofilattica in ordine a decisioni dei giudici di merito fondate su interpretazioni inaccettabili del diritto oggettivo.

Così, la succitata sentenza Feliciani – che sotto il profilo argomentativo, se non cronologico, può considerarsi la decisione capofila dell’indirizzo maggioritario – è indubbiamente apprezzabile laddove ritiene che l’onere della persona offesa di indicare le generalità delle persone citate a giudizio ex art. 21 resti assolto allorché il ricorso consenta di individuare comunque i soggetti chiamati a comparire davanti al giudice di pace. Invero, secondo la ratio che ispira l’istituto generale della citazione, quale si desume chiaramente dall’art. 163 c.p.c., nonché dall’art. 78 c.p.p., la vocatio in ius raggiunge il suo scopo quando l’attore specifichi le generalità che sono sufficienti a identificare il convenuto, non essendo quindi generalmente necessario che oltre al nome e cognome o alla residenza, indichi anche data e luogo di nascita, paternità e maternità o magari anche lo stato civile.

Ma non è condivisibile – quella sentenza – laddove afferma la ricorribilità per cassazione del decreto d’inammissibilità proprio per poterne sindacare la illegittimità. Si trattava infatti – come s’è detto – di un decreto che non decideva il merito dell’azione penale, atteso che questa proseguiva nelle forme del procedimento ordinario; sicché esso rimaneva estraneo al campo di esercizio della funzione nomofilattica.

Invero, la interpretazione analogica della regola della ricorribilità per cassazione di tutte le sentenze non può estendersi anche ai provvedimenti meramente processuali o interlocutori, che non sono “simili” alle sentenze ex art. 12 delle preleggi, proprio perché non decidono in via definitiva sui diritti soggettivi dedotti nel processo. In tali casi, la correzione di indirizzi giurisprudenziali erronei potrà avvenire soltanto attraverso la via informale del dibattito dottrinale, ma non attraverso lo strumento istituzionale nomofilattico affidato al monopolio della Corte di cassazione.

Diverso è invece il caso affrontato dalla citata sentenza Cozzi, dove il Giudice di pace di Milano aveva dichiarato inammissibile il ricorso della persona offesa perché le generalità dell’imputata erano state indicate erroneamente come Cozzi Maria anziché come Cozzi Mara, nonostante che questa si fosse regolarmente presentata in udienza, consentendo così la sua identificazione. In questo caso però il giudice aveva emesso il provvedimento sotto forma di sentenza, e non nella fase preliminare, ma in esito al giudizio ordinario. In tal modo la sua decisione non aveva carattere meramente ordinatorio, ma decideva il merito dell’azione penale con idoneità a passare in giudicato. Sia dal punto di vista formale (trattavasi di sentenza), sia dal punto di vista sostanziale (trattavasi di decisione di merito suscettibile di giudicato), il controllo nomofilattico era imposto dai principi.

9 – Deve quindi affermarsi il seguente principio di diritto:

“non è impugnabile col ricorso per cassazione il decreto col quale il giudice di pace, ai sensi dell’art. 26, comma 2, D.Lgs. 28.8.2000 n. 274, dichiara inammissibile il ricorso immediato per la citazione a giudizio, presentato dalla persona offesa ai sensi dell’art. 21 dello stesso D.Lgs. 274/2000.”

In conclusione, il presente ricorso è inammissibile. Consegue a norma dell’art. 616 c.p.p. la condanna della ricorrente alle spese, nonché alla sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende, non potendosi escludere ai sensi della sentenza 186/2000 della Corte costituzionale che la parte privata fosse esente da colpa nel valutare l’ammissibilità della impugnazione.
P.Q.M.

la Corte suprema di cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro 1.000 a favore della cassa delle ammende.
 
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