Sul piano penale il nostro ordinamento prevede una varietà di fattispecie incriminatrici contenute in parte nel codice penale, in parte nella legge 8 febbraio 1948, n. 47 (legge sulla stampa), ed in parte in diverse leggi speciali. Tutti questi reati formano il c.d. diritto penale della stampa [1] .
Prima di analizzare singolarmente ciascuna delle ipotesi di reato che interessano la stampa e l’informazione, occorre mettere a fuoco l’importante distinzione tra reati di stampa e reati a mezzo della stampa. I primi sono quei reati che possono essere esclusivamente commessi da colui che scrive, trattandosi per lo più di violazioni della legge sulla stampa (es. il reato di stampa clandestina, le false dichiarazioni nella registrazione dei periodici, l’asportazione, la distruzione ed il deterioramento degli stampati). Si tratta generalmente di reati a contenuto omissivo. I secondi sono invece quei reati che possono essere commessi da chiunque anche in altri modi oltre che a mezzo degli stampati (es. la diffamazione, che può essere perpetrata sia parlando con gli amici sia scrivendo sulle colonne di un periodico) [2] .
Tale distinzione ha una notevole importanza pratica agli effetti della responsabilità del direttore della testata ed agli effetti della forma del procedimento penale, che ai sensi dell’art. 21 della legge n. 47 del 1948 è per i reati a mezzo della stampa quella del rito direttissimo (artt. 449 ss. cp.p.), ove il pubblico ministero cita a giudizio l’imputato senza dover passare attraverso il filtro dell’udienza preliminare.
Parte della dottrina distingue tra reati di pre-stampa e reati di stampa, con riferimento alla funzione che l’elemento stampa svolge sul piano della fattispecie incriminatrice. I primi sono quei reati in cui l’illiceità è colta in un momento anteriore alla stampa; i secondi sono quelli nei quali l’illiceità è realizzata attraverso il mezzo della stampa [3] .
· La responsabilità del direttore
Gli artt. 57, 57 bis 58 e 58 bis c.p. si occupano dei reati commessi a mezzo della stampa periodica e non periodica, configurando in particolare la responsabilità del direttore. Le disposizioni in esame consentono di contemperare le esigenze general-preventive con uno dei principi cardine del nostro ordinamento, cioè quello della responsabilità personale [4] . Il problema si pone soprattutto in relazione all’individuazione del soggetto responsabile nelle ipotesi in cui è ignoto l’autore di un articolo tramite il quale viene perpetrato il reato (diffamazione, vilipendio, truffa, abuso della credulità popolare, ecc.). La soluzione adottata è quella di rendere determinati soggetti garanti dell’uso non criminoso della stampa. Su tali presupposti è stato impostato il codice penale del 1930, che ha qualificato il direttore come “capo dell’azienda giornalistica”, in cui niente dovrebbe accadere senza che lo stesso esplicitamente o implicitamente lo abbia approvato. Pertanto, ai sensi dell’originaria formulazione dell’art. 57 c.p., nel caso di stampa periodica il direttore o il redattore responsabile rispondevano in ogni caso del reato commesso col mezzo della stampa, salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione. Nell’ipotesi di stampa non periodica, se l’autore della pubblicazione era ignoto o non imputabile, rispondeva l’editore o, in caso anche questo era ignoto o non imputabile, lo stampatore. Infine, nel caso di stampa clandestina rispondevano tutti coloro che in qualsiasi modo avessero divulgato gli stampati [5] .
Varie erano le interpretazioni che la dottrina e la giurisprudenza offrivano: da una parte, infatti, alcuni ravvisavano una sorta di responsabilità per fatto altrui, derivante dal solo fatto di essere direttore; dall’altra, altri facevano riferimento ad una responsabilità per culpa in vigilando, dovuta all’inosservanza dell’obbligo di controllo cui il direttore era tenuto per il solo fatto di essere tale.
La Consulta rigettò con una sentenza interpretativa la questione di legittimità costituzionale dell’art. 57 c.p. sotto il profilo dell’art. 3 Cost., invitando però il legislatore “ad intervenire onde rendere il dettato legislativo anche formalmente più adeguato alle norme costituzionali” [6] .
Accogliendo l’invito della Corte Costituzionale il Parlamento emanava la legge 4 marzo 1958, n. 127, con la quale veniva riformulato il testo degli artt. 57 e 58 c.p. e venivano introdotte due nuove disposizioni, gli artt. 57 bis e 58 bis c.p.
Ai sensi del riformulato art. 57 c.p. sulla stampa periodica, “salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo”. Pertanto, adesso l’art. 57 c.p. configura una responsabilità per fatto proprio omissivo e concorrente con quella dell’autore della pubblicazione: si tratta quindi di un reato colposo e non di una forma di responsabilità oggettiva, in quanto il mancato impedimento dell’evento (il reato commesso a mezzo stampa) deve essere sì non voluto, ma attribuibile alla colpa del direttore. Quindi, il direttore risponderà a titolo di colpa del reato solo se abbia omesso il controllo sulla pubblicazione, sempre che fosse prevedibile ed evitabile [7] .
Merita evidenziare che la giurisprudenza ha però assunto una posizione piuttosto severa: alcuni giudici hanno condannato persino i direttori che erano assenti per le ferie, sulla base del fatto che gli stessi si sarebbero dovuti far sostituire anche per il breve periodo delle vacanze, ai sensi dell’art. 6 della legge sulla stampa [8] .
Ai sensi delle altre disposizioni modificate ed introdotte dalla legge n. 127 del 1958, nell’ipotesi di stampa non periodica o clandestina, la disciplina prevista dall’art. 57 c.p. per il direttore si applica all’editore, se l’autore della pubblicazione è ignoto o non imputabile, ovvero allo stampatore, se l’editore non è indicato o non è imputabile. Anche costoro debbono rispondere del reato omissivo perché avevano l’obbligo di impedire la commissione del reato esercitando un opportuno controllo [9] .
· I rapporti tra l’azione civile e l’azione penale
La Corte di Cassazione [10] ha stabilito che ogni cittadino può tutelare il proprio onore e la propria reputazione in sede civile senza avviare l’azione penale [11] . Pertanto, ai sensi dell’art. 124 c.p. ciascuno può proporre querela entro tre mesi dalla pubblicazione della notizia diffamatoria. Tuttavia, il legislatore non ha mai provveduto a coordinare il tempo necessario per instaurare l’azione penale con quello molto più ampio previsto per l’azione civile [12] . Infatti, ai sensi dell’art. 2947 c.c. “il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato. […] In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile […]”. Questa disposizione espone i giornalisti ed le aziende editrici al rischio di vedersi citare in giudizio, anche a distanza di anni, per fatti remoti e sui quali il giornalista non ha conservato alcuna documentazione [13] .
· Il principale reato a mezzo stampa: la diffamazione
Il reato più comune commesso attraverso la stampa è senza dubbio la diffamazione, fattispecie prevista sotto il Capo II del Titolo XII del Libro II del Codice penale, intitolato “Dei delitti contro l’onore”. Per onore si intende l’insieme delle qualità essenziali al valore di ogni persona umana in quanto tale (qualità morali, intellettuali, psichiche, fisiche, caratteriali, professionali, ecc.) [14] .
Prima di analizzare in particolare il reato di diffamazione occorre delimitarne i confini, distinguendolo da fattispecie che sono apparentemente simili e che nel linguaggio comune vengono sostanzialmente usate come sinonimi. Il reato di calunnia, previsto e punito dagli artt. 368 e 370 c.p., si verifica ogni qual volta “chiunque, con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato”. La ratio sottesa alla disposizione citata va ravvisata nella necessità di tutelare l’interesse a non instaurare processi penali contro un innocente, evitando così il pericolo di ledere l’onore, ed eventualmente la libertà personale del cittadino incolpevole, nonché nella necessità di evitare il pericolo che l’amministrazione della giustizia sia tratta in inganno e fuorviata [15] . Pertanto, soggetti passivi del reato in oggetto sono sia la singola persona falsamente incolpata, sia, soprattutto, lo Stato, al quale spetta di garantire la repressione penale dei colpevoli: infatti, il legislatore, a dimostrazione che l’interesse considerato prevalente è quello relativo alla tutela dell’attività giudiziaria, ha collocato il delitto di calunnia nel Titolo III del Libro II del Codice penale, intitolato “Dei delitti contro l’amministrazione della giustizia”.
Più difficile è individuare il criterio distintivo dell’ingiuria (art. 594 c.p.) e della diffamazione (art. 595 c.p.). Il Codice lo individua nella tipologia di percezione da parte della vittima: per aversi ingiuria l’offesa deve essere arrecata in presenza della vittima o alla stessa direttamente comunicata (es. telefonicamente, o con scritti e disegni), mentre per aversi diffamazione l’offesa deve essere arrecata in assenza della vittima, nella comunicazione con più persone. La dottrina e la giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la diffamazione comprenda l’offesa in presenza di più persone anche se una di queste sia la vittima [16] . Ad esempio, sussisterà il reato di diffamazione quando un giornalista scrive un articolo dove afferma che una determinata persona è corrotta; potrà inoltre capitare che anche tale persona legga l’articolo ma si tratterà pur sempre di diffamazione in quanto il messaggio non era destinato a costui ma alla collettività [17] .
Pertanto, l’ingiuria e la diffamazione presentano identità di oggetto giuridico, tutelando entrambe l’onore, e si differenziano solo in quanto tipologie offensive diverse di uno stesso bene. La ratio della distinzione si ravvisa nel fatto che l’offesa all’onore è meno grave se pronunciata in presenza del solo offeso, mentre è più grave se viene percepita da più persone [18] .
Ai sensi dell’art. 595 c.p. la diffamazione consiste nel fatto di chiunque “comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”. Si tratta di un reato comune e non di reato proprio, potendo venire commesso da “chiunque”. Quanto all’elemento oggettivo, la clausola di esclusione prevista dall’art. 595 c.p. (“fuori dei casi indicati nell’articolo precedente”) ci permette di stabilire che presupposto della diffamazione non è tanto l’assenza dell’offeso, quanto l’impossibilità di percezione fisica dell’offesa da parte dello stesso (es. offesa pronunciata a voce troppo bassa a qualche distanza). Tuttavia, se l’offesa, pur se non percepita, è idonea ad essere percepita, si ha il tentativo di ingiuria (aggravata per la presenza di altre persone) [19] .
La condotta del delitto di diffamazione consiste nell’offendere l’altrui reputazione [20] (con qualsiasi mezzo ed in qualunque modo), comunicando con più persone (che devono essere almeno due) [21] , contemporaneamente (es. trasmissione radiotelevisiva) o non contemporaneamente (es. invio di lettere a persone in luoghi diversi) [22] .
Quanto all’evento, la dottrina [23] individua due momenti ben distinti: la percezione materiale dell’offesa e la sua comprensione materiale da parte dei destinatari. Non sussisterà pertanto il reato di diffamazione qualora l’offesa venga perpetrata mediante una frase scritta in codice o pronunciata in un linguaggio incomprensibile.
Circa l’elemento soggettivo vi è da dire che la diffamazione è un delitto tipicamento doloso, non essendovi alcun riferimento alla responsabilità per colpa. Pertanto, chi diffama taluno per imprudenza, negligenza o imperizia (es. in caso di errore sul nome) non commette reato, mancando la consapevolezza e la volontà di tenere la condotta offensiva dell’altrui reputazione. Oltre al dolo diretto o intenzionale (coscienza e volontà del fatto materiale tipico) la dottrina prevede anche l’ipotesi del dolo c.d. eventuale, che si ha quando, nel dubbio sul verificarsi o meno dell’offesa, se ne accetta il rischio [24] . Si avrà pertanto diffamazione sia quando il giornalista voglia deliberatamente offendere l’altrui reputazione, sia quando lo stesso scriva un articolo utilizzando termini tali da compromettere la reputazione della persona diffamata, pur essendo in dubbio circa l’esito delle sue affermazioni.
Il reato di diffamazione si perfeziona nel momento e nel luogo in cui si verifica l’evento della percezione-comprensione della comunicazione offensiva da parte di almeno due persone. In particolare, nell’ipotesi della diffamazione a mezzo della stampa il reato si perfeziona con la distribuzione al pubblico della stampa, in quanto sulla base della comune esperienza si può a ragione ritenere che tale momento coincida con quella percezione e comprensione dell’offesa da parte del pubblico che altrimenti non sarebbe agevole provare [25] .
E’ opportuno sottolineare che è configurabile altresì il reato di diffamazione tentata (es. stampa denigratoria non diffusa per intervento del magistrato).
Quanto agli elementi circostanzianti del reato, la diffamazione è aggravata da alcune circostanze speciali. Innanzitutto si ha diffamazione aggravata “se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato” (art. 595 comma 2 c.p.). Il legislatore ha a ragione ritenuto più grave attribuire alla vittima un fatto determinato, inteso come episodio storico, unico ed irripetibile (es. Tizio il 5 aprile 2003 ha rubato il motorino, tg. 1234, a Caio), anziché una generica qualifica (es. Tizio è un ladro). La ratio dell’aggravante va ravvisata nel fatto che l’attribuzione di un episodio determinato crea maggiore attendibilità e di conseguenza comporta un più grave pregiudizio alla reputazione dell’offeso. Vi è da aggiungere che per aversi fatto determinato non è necessario che siano specificate tutte le circostanze di tempo e di luogo: è sufficiente che il fatto sia unico ed irripetibile.
La giurisprudenza ha stabilito che per fatto determinato si intende “quello concretamente individuabile attraverso le indicazioni di concrete circostanze di tempo, di luogo, di persona che valgono a specificare l’azione che si attribuisce ad un determinato soggetto” [26] .
Il comma 2 dell’art. 595 c.p. [27] prevede un’altra aggravante speciale “se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico”. Pertanto, la diffamazione a mezzo della stampa comporta un necessario aumento della pena in virtù della peculiare potenzialità offensiva della stampa, sia sul piano spaziale (la pubblicazione ha una capacità diffusiva ad ampio raggio), sia su quello temporale (la pubblicazione può consentire la ripetizione dell’offesa, mediante una rilettura).
Un’altra circostanza aggravante si ha “se l’offesa è arrecata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio” (art. 595 comma 4 c.p.).
Ai sensi dell’art. 598 c.p. “non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi alla Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un’autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo”. Si tratta di un’esimente, ossia di una causa di esclusione della punibilità, dovuta a ragioni di opportunità per il libero esercizio del diritto alla difesa (art. 24 Cost.) [28] .
Il comma 2 dell’art. 599 c.p. esclude la punibilità di chi ha diffamato “nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”. Si tratta della c.d. provocazione che nei delitti contro l’onore assurge da circostanza attenuante (art. 62 n. 2 c.p.) a causa di non punibilità. La giurisprudenza [29] ha specificato che occorre che la reazione che porta a diffamare sia conseguenza di un fatto che, per la sua intrinseca illegittimità ovvero per la sua contrarietà alle norme della convivenza civile, abbia in sé la potenzialità di suscitare un giustificato turbamento nell’animo del soggetto agente. E’ opportuno evidenziare che l’esimente di cui al comma 2 dell’art. 599 c.p. non è incompatibile con la diffamazione a mezzo della stampa in quanto, come la giurisprudenza ha chiarito, l’immediatezza della reazione, rispetto al fatto provocatorio, deve essere valutata con riguardo al momento in cui si è avuta notizia del fatto e in relazione alle possibilità pratiche di reazione [30] : al momento della stesura dell’articolo diffamatorio deve sussistere lo stato d’ira, ovvero esso deve risvegliarsi [31] .
L’art. 597 c.p. subordina la procedibilità dell’azione penale nei confronti dell’autore dell’offesa alla querela della vittima. Pertanto, la punizione del colpevole è lasciata alla volontà della persona offesa.
L’art. 596 comma 1 c.p. stabilisce che l’autore della diffamazione “non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità o notorietà del fatto attribuito alla persona offesa”. La ratio sottesa alla disposizione in esame va ravvisata nel fatto che la verità o la notorietà dei fatti offensivi attribuiti non escludono il reato di diffamazione e quindi la loro prova è inammissibile perché irrilevante.
Il secondo comma della disposizione in esame prevede una deroga al divieto di prova, consentendo il deferimento ad un giurì d’onore del giudizio sulla verità del fatto offensivo, a condizione che l’offesa consista nell’attribuzione di un fatto determinato, che vi sia accordo sul deferimento, e che non sia intervenuta sentenza irrevocabile. Il giurì, quindi, non è una forma di arbitrato, bensì un semplice giudizio morale; il giurì non assolve né condanna il presunto diffamatore, ma si limita a dichiarare se i fatti addebitati al diffamato siano veri o falsi. In caso di falsità, sulla base del verdetto del giurì si potrà richiedere il risarcimento dei danni. Il comma 3 dell’art. 596 c.p. prevede ulteriori ipotesi di deferimento del giudizio sulla verità di un fatto al giurì d’onore. L’ultimo comma invece stabilisce che la verità dell’addebito non esclude in ogni caso la responsabilità del giornalista, che è comunque prevista se i modi usati rendono “per se stessi applicabili le disposizioni sulla diffamazione”. Da ciò si evince che anche quando si raccontano fatti veri il giornalista deve utilizzare un linguaggio moderato e rispettoso delle persone.
· La violazione del segreto di Stato
Oltre al comune reato di diffamazione, molte sono le fattispecie incriminatrici del nostro ordinamento che possono interessare il giornalista.
Vi sono stati alcuni casi giudiziari in cui al giornalista sono state contestate le fattispecie di cui agli artt. 256 ss. c.p. relative alla rivelazione dei segreti di Stato o di notizie di cui sia stata vietata la divulgazione.
Va ricordato che si sconfina in tali reati quando si oltrepassano i vaghi limiti e confini del diritto di manifestazione del pensiero (in particolare, il diritto di cronaca e quello di critica).
Nel 1974 il settimanale “Il Mondo” pubblicò un rapporto riservato trasmesso dall’Ambasciatore italiano a Lisbona al Ministero degli Affari Esteri. Al direttore della rivista furono contestati i reati di cui agli artt. 256 e 262 c.p., ossia il “procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato” e la “rivelazione delle notizie di cui sia stata vietata la divulgazione”. Per tutto l’arco del processo la difesa del direttore sostenne che la documentazione era stata inviata allo stesso in plico anonimo e che quindi non era dato conoscerne la natura riservata. La Corte di Assise di Roma [32] respinse la tesi difensiva e condannò il direttore, peraltro chiarendo che notizia riservata è quella che ben può essere conosciuta da una cerchia più o meno ampia di persone (es. gli uffici interni dei vari ministeri), ma che non può essere ulterioremente divulgata in quanto su di essa pende un esplicito divieto imposto dall’autorità amministrativa competente mediante valutazione discrezionale.
· I reati di vilipendio
Ad alcuni giornalisti è stato contestato il delitto di cui all’art. 278 c.p., secondo cui “chiunque offende l’onore o il prestigio del Presidente della Repubblica è punito con la reclusione da uno a cinque anni”: si pensi alla nota vicenda giudiziaria che portò alla condanna del direttore del periodico “Candido” per aver pubblicato una particolare vignetta sull’allora Presidente della Repubblica Luigi Einaudi [33] .
Altre norme del codice penale prevedono varie fattispecie di vilipendio (es. artt. 290, 414, 415 c.p.). Al riguardo è opportuno sottolineare che la giurisprudenza ha chiarito che vilipendere non significa criticare, ma “dileggiare o disprezzare pubblicamente” [34] e che ad integrare il delitto in parola è sufficiente qualsiasi espressione o rappresentazione avente idoneità a menomare il prestigio della vittima, essendo pertanto irrilevante accertare se l’offesa sia stata arrecata con riferimento alle funzioni inerenti la carica rivestita o in relazione alla persona privata [35] .
· La ricettazione
Talvolta è possibile che una certa documentazioone che fornisce al giornalista notizie utili sia di provenienza furtiva o comunque illecita; ne può derivare quindi un’incriminazione dello stesso per ricettazione. Ai sensi dell’art. 648 c.p. commette il delitto in parola “chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farli acquistare, ricevere o occultare”. Si pensi alla nota vicenda relativa alla valigetta di Calvi che, invano ricercata dalla magistratura, ricomparve all’improvviso nel corso di una trasmissione televisiva [36] .
· L’aggiotaggio
Un’altra fattispecie che può interessare il giornalista è quella di cui all’art. 501 c.p., ossia l’aggiotaggio, delitto contro l’economia pubblica. La disposizione in esame punisce “chiunque, al fine di turbare il mercato interno dei valori o delle merci, pubblica o altrimenti divulga notizie false, esagerate o tendenziose o adopera altri artifici atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo delle merci, ovvero dei valori ammessi nelle liste di borsa o negoziabili nel pubblico mercato”. Pertanto, la figura cirimosa dell’aggiotaggio ha per oggetto la tutela dell’interesse pubblico contro le manovre fraudolente per il rialzo dei prezzi e delle quotazioni di tutte le merci del mercato. Nell’ambito della stampa, un caso di accusa per aggiotaggio si è avuto per la notizia pubblicata sul “Corriere della Sera” nel 1949 sulla scoperta da parte dell’AGIP di petrolio a Caviaga-Corte Maggiore [37] .
· Le pubblicazioni e gli spettacoli osceni
Gli artt. 528 e 529 c.p. si occupano delle pubblicazioni e degli spettacoli osceni. Ai sensi dell’art. 528 c.p. viene punito “chiunque, allo scopo di farne commercio o distribuzione ovvero di esporli pubblicamente, fabbrica, introduce nel territorio dello Sato, acquista, detiene, esporta, ovvero mette in circolazione scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie”. L’art. 529 c.p. dà la nozione di “osceno”, considerando tale qualunque atto od oggetto che, secondo il comune sentimento, offende il pudore. La giurisprudenza ha chiarito che il pudore consiste nel senso di riserbo e dignità personale nutrito nei confronti di quanto si riferisce allo stimolo dei sensi e, più specificamente, alla sfera sessuale. Pertanto, il pudore può definirsi come quella riservatezza con cui l’uomo medio abitualmente circonda tutto quanto attiene in concreto alla manifestazione e all’appagamento dei suoi bisogni sessuali. La nozione di comune senso del pudore va risolta nel senso della verifica e dell’aggiornamento di esso nella sua mutevolezza con il divenire dei costumi e con l’evoluzione del pensiero medio dei consociati nel momento storico in cui avviene il fatto incriminato [38] .
Inoltre, la legge n. 47 del 1948 tratta dei reati di pubblicazioni destinate all’infanzia e all’adolescenza (art. 14) e di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante (art. 15). Con la prima fattispecie si intende apprestare tutela ad una generica ed indistinta morale minorile quale specificazione della più generale moralità pubblica; con la seconda, invece, si vuol tutelare una serie di interessi pubblici, quali il comune sentimento della morale, all’interesse dello Stato, al non verificarsi di suicidi e delitti [39] .
· Gli attentati alla morale familiare
Un’ulteriore fattispecie che più o meno direttamente può riguardare il giornalista è quella di cui all’art. 565 c.p., peraltro raramente applicata dalla giurisprudenza. La norma punisce “chiunque nella cronaca dei giornali o di altri scritti periodici, nei disegni che ad essa si riferiscono, ovvero nelle inserzioni fatte a scopo di pubblicità sugli stessi giornali o scritti, espone o mette in rilievo circostanze tali da offendere la morale familiare” [40] .
· I reati contro l’inviolabilità del domicilio
La legge 8 aprile 1974, n. 98, ha introdotto nel codice penale, dopo gli artt. 614 e 615 c.p. (rispettivamente, violazione di domicilio e violazione di domicilio commessa da pubblico ufficiale), l’art. 615 bis c.p. sulle “interferenze illecite nella vita privata”, allo scopo di fronteggiare nuove tipologie di aggressione rese possibili dal progresso tecnologico, tutelando la c.d. riservatezza domiciliare. Con tale espressione si indica il diritto alla eslusività di conoscenza di ciò che attiene alla sfera privata domiciliare, nel senso che nessuno può prendere conoscenza o rivelare quanto di tale sfera il soggetto non desidera che sia da altri conosciuto [41] . Si vuole pertanto salvaguardare quella tranquillità che la divulgazione di quanto avviene nell’ambito domiciliare verrebbe a turbare.
In particolare, l’art. 615 bis c.p. contempla due distinte fattispecie, rispondenti a due differenti tipologie ontologiche di aggressione al bene della riservatezza domiciliare: l’indiscrezione e la divulgazione. L’indiscrezione consiste nel fatto di “chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’art. 614” (art. 615 bis comma 1 c.p.). Pertanto, sarà penalmente perseguibile il fotografo che con teleobiettivi o mezzi analoghi carpisca le altrui immagini quando le persone ritratte si trovino in casa propria, o nel loro giardino chiuso e recintato, o in un altro luogo non visibile dalla pubblica via. Ugualmente è penalmente perseguibile colui che mediante appositi microfoni o microspie carpisca notizie o capti conversazioni che si svolgono in luoghi privati.
La seconda fattispecie, ben più interessante ai fini della nostra trattazione, consiste nel fatto di “chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute nei modi indicati” dal comma 1 dell’art. 615 bis c.p. (art. 615 bis comma 2 c.p.).
Pertanto, ciascun giornalista che acquista fotografie o riceve notizie riservate deve accertare che esse non siano state carpite con i mezzi e con i modi proibiti dall’art. 615 bis c.p., potendo altrimenti anch’egli essere incriminato.
Merita peraltro accennare ad ulteriori fattispecie incriminatrici che possono riguardare il giornalista: l’art. 618 c.p., che punisce colui che, “essendo venuto abusivamente a cognizione del contenuto di una corrispondenza a lui non diretta, che doveva rimanere segreta, senza giusta causa lo rivela, in tutto o in parte”; l’art. 621 c.p., che punisce colui che “essendo venuto abusivamente a cognizione del contenuto, che debba rimanere segreto, di altrui atti o documenti, pubblici o privati, non costituenti corrispondenza, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto”; l’art. 617 c.p. che punisce il fatto di “chiunque, fraudolentemente, prende cognizione di una comunicazione o di una conversazione, telefoniche o telegrafiche, tra altre persone o comunque a lui non dirette, ovvero le interrompe o le impedisce” e di “chiunque rivela, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, in tutto o in parte, il contenuto delle comunicazioni o delle conversazioni” intercettate; l’art. 617 bis c.p., che punisce “chiunque, fuori dei casi consentiti dalla legge, installa appartai, strumenti, parti di apparati o di strumenti al fine di intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche tra altre persone”.
· La rivelazione dei segreti
Gli artt. 114 e 329 c.p.p. ridisegnano in maniera sostanzialmente nuova la materia del segreto nel processo penale. Innanzitutto non si parla più di segreto istruttorio, essendo venuta meno con il nuovo codice di procedura penale del 1987 la fase istruttoria: al più si potrà parlare di segreto delle indagini preliminari e di segreto dell’udienza preliminare. Mentre il vecchio codice escludeva il giornalista dal processo fino al momento del dibattimento, adesso il codice di procedura penale mantiene segreti solo quegli atti della polizia giudiziaria o del pubblico ministero di cui il soggetto sottoposto alle indagini non può avere conoscenza (art. 329 comma 1 c.p.p.). La dottrina [42] distingue due tipologie di segreto processuale: quello interno e quello esterno. Nel corso delle indagini preliminari la polizia giudiziaria o il rappresentante della pubblica accusa compiono una serie di atti all’insaputa del soggetto indagato: la ratio sta nel fatto che se lo stesso ne venisse a conoscenza, tali atti verrebbero vanificati e non raggiungerebbero il loro scopo. Si pensi ad esempio alle intercettazioni telefoniche. Si parla in tal caso di segreto processuale interno. Sempre nel corso della fase preliminare viene compiuta una serie di atti che, per espressa previsione normativa, l’indagato ha diritto di conoscere. Si pensi ad una perquisizione. In tal caso si parla di segreto processuale esterno: non sono atti segreti in senso stretto, in quanto noti alle parti, e pertanto non sarà possibile riprodurli per intero, ma sarà possibile divulgarne il contenuto, in quanto non si rischierà di ostacolare il corso delle indagini, trattandosi di atti conosciuti dall’indagato [43] .
Ai sensi del comma 2 dell’art. 114 c.p.p. il divieto di pubblicazione degli atti vige fino al termine dell’udienza preliminare, ossia quando il procedimento termina con l’archiviazione o invece prosegue nelle forme del dibattimento.
Gli atti dell’udienza preliminare non sono segreti: se ne può pubblicare il contenuto nel corso dell’udienza, mentre sono pubblicabili per l’intero al termine dell’udienza se non si procede a dibattimento (es. in caso di sentenza di non luogo a procedere). Se invece si procede a dibattimento bisogna distinguere: gli atti che vengono formati o letti in dibattimento possono essere pubblicati immediatamente ed integralmente (tranne particolari ipotesi in cui il processo viene celebrato a porte chiuse); gli atti che invece sono già formati e contenuti nei fascicoli non sono pubblicabili fino alla sentenza di primo grado per il fascicolo del dibattimento e fino alla sentenza di secondo grado per il fascicolo del pubblico ministero [44] .
Una particolare disciplina è dettata per i processi in cui sono coinvolti i minori.
L’art. 684 c.p. punisce la violazione del divieto di pubblicazione degli atti processuali. Tuttavia, talvolta al giornalista è stato contestato il più grave reato di cui all’art. 326 c.p., che punisce la rivelazione del segreto d’ufficio. La disposizione in parola punisce il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela o agevola la conoscenza notizie di ufficio che devono restare segrete. Una celebre sentenza della Cassazione ha affermato che “il soggetto estraneo, il quale non si è limitato a ricevere la notizia, ma ha contribuito alla commissione del reato, inducendo i pubblici ufficiali tenuti a rispettare il dovere di segretezza a fare la rivelazione, o comunque accordandosi con loro a tal fine, risponde del reato di rivelazione dei segreti d’ufficio come compartecipe, in applicazione dei principi generali sul concorso di persone nel reato” [45] .
E’ opportuno ricordare che l’art. 683 c.p. punisce la pubblicazione delle discussioni o delle deliberazioni segrete di una delle Camere. Tale divieto è stato ritenuto applicabile anche agli atti delle commissioni parlamentari.
· Il favoreggiamento
Raramente è stato contestato al giornalista il reato di cui all’art. 378 c.p., il c.d. favoreggiamento. La norma punisce “chiunque, dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce l’ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso del medesimo, aiuta taluno ad eludere le investigazioni dell’autorità, o a sottrarsi alle ricerche di questa”. Il favoreggiamento a mezzo stampa è per lo più un’ipotesi di scuola: si pensi al giornalista che, venuto a conoscenza di notizie su un’inchiesta penale, voglia farle arrivare mediante un articolo ad uno degli imputati per poterlo aiutare. La Cassazione ha però precisato che il favoreggiamento è reato doloso e che quindi, per integrare gli estremi della fattispecie, occorre la conoscenza e la volontà dell’aiuto che l’attività posta in essere dal giornalista sia in grado di dare [46] .
· Il favoreggiamento della prostituzione
La legge 20 febbraio 1958, n. 75 (c.d. legge Merlin), tra le varie fattispecie, prevede quella del favoreggiamento della prostituzione. In particolare, l’art. 3, comma 2, n. 5 punisce “chiunque induca alla prostituzione una donna di età maggiore, o compia atti di lenocinio, si apersonalmente in luoghi pubblici o aperti al pubblico, sia a mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. Tale norma è stata invocata per alcune inserzioni a favore di particolari “professioniste”. E’ opportuno sottolineare che con la legge 3 agosto 1998, n. 269, il Parlamento ha dettato una disciplina piuttosto severa contro lo sfruttamento della prostituzione e della pornografia in danno di minori.
· Le notizie false e tendenziose
L’art. 656 c.p. punisce come reato contravvenzionale la pubblicazione o la diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico. La Consulta, chiamata ben tre volte a giudicare circa la conformità a Costituzione dell’art. 656 c.p. in riferimento all’art. 21 Cost. [47] , con motivazione alquanto opinabile ha ritenuto legittima la norma, in quanto il concetto di ordine pubblico esclude che il diritto di manifestare il proprio pensiero possa giustificare la lesione di tale bene. In questa sede ribadiamo che non ci pare condivisibile sacrificare il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero nel bilanciamento degli interessi con l’ordine pubblico, in quanto la portata talmente ampia di quest’ultimo concetto rischierebbe di comprimere oltre misura uno dei diritti cardine delle moderne democrazie quale il diritto di informare e di essere informati.
Inoltre, la giurisprudenza [48] ha precisato che per notizie tendenziose bisogna intendere quelle che, pur riferendo cose vere, le presentino (non importa se intenzionalmente o meno), in modo che chi le apprende possa avere una rappresentazione alterata della realtà: infatti, l’espressione “notizie false e tendenziose” costituisce un’endiadi con la quale il legislatore si è proposto di ricomprendere qualsivoglia specie di notizie che rappresentino la realtà in modo alterato [49] .
· Le ipotesi di reato depenalizzate
L’art. 32 della legge di modifica al sistema penale (legge 24 novembre 1981, n. 689) ha stabilito che non costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda. Si tratta della c.d. depenalizzazione. In relazione ai reati commessi a mezzo della stampa, risulta depenalizzata la contravvenzione di cui all’art. 17 della legge n. 47 del 1948, punita con l’ammenda ed avente ad oggetto qualunque omissione o inesattezza nelle indicazioni prescritte dall’art. 2 o la violazione dell’ultimo comma del medesimo articolo. Per effetto della depenalizzazione costituisce illecito amministrativo depenalizzato sia la mancata indicazione del luogo o dell’anno della pubblicazione, sia l’indicazione dell’editore e dello stampatore in maniera non esatta sul piano giuridico ma sostanzialmente conforme a verità, nonché la mancanza di conformità per le indicazioni dell’editore, dello stampatore, del luogo e data della pubblicazione ed il contenuto degli stampati [50] .
Ai sensi dell’art. 32 della legge n. 698 del 1981 è stato depenalizzato anche il rifiuto di rettifica di cui all’art. 8 della legge sulla stampa e la contravvenzione prevista dall’art. 18 della medesima legge, che sanzionava la mancata o tardiva dichiarazione dei mutamenti di uno degli elementi di cui all’art. 5.
Inoltre, non costituisce più contravvenzione la violazione delle prescrizioni previste dagli artt. 1, 5 e 7 della legge 2 febbraio 1939, n. 374, aventi ad oggetto oneri specifici di natura amministrativa e punite con l’ammenda (art. 8).
· Le misure di interdizione professionale
Gli artt. 30 e 35 c.p. prevedono rispettivamente le pene accessorie dell’interdizione da una professione o da un’arte e della sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte [51] . L’art. 31 tratta delle ipotesi di interdizione a seguito di condanna per delitti commessi con abuso di un pubblico ufficio, o di una professione o di un’arte. Si è posto il problema circa l’applicabilità di tali sanzioni al giornalista che viene condannato per l’aver commesso uno dei reati a mezzo della stampa. Mentre l’interdizione fa venir meno l’abilitazione professionale (che potrà essere riacquistata solo mediante un nuovo esame), la sospensione comporta che il condannato non possa esercitare durante il periodo di in cui viene sospeso dalla professione, ma, scaduto tale termine, egli riacquista automaticamente la possibilità di esercitare le proprie funzioni. Trattandosi di pene accessorie, sia la sospensione che l’interdizione dall’esercizio della professione giornalistica non vengono applicate nell’ipotesi in cui sia stata concessa la sospensione condizionale della pena principale [52] .
L’art. 217 disp. att. c.p.p. ha abrogato l’art. 140 c.p. che prevedeva la possibilità di applicare le pene accessorie anche prima del passaggio in giudicato della sentenza.
Una dottrina minoritaria sostiene l’opportunità che applicare la pena accessoria per gli esercenti una professione o un’arte non sia competenza dell’organo giudicante bensì di ciascun ordine professionale.
Occorre ribadire che l’applicabilità delle pene accessorie consegue solo alle ipotesi di abuso dei diritti e dei doveri inerenti alla professione: pertanto, difficilmente una banale diffamazione a mezzo stampa comporterà la misura dell’interdizione o della sospensione. La giurisprudenza ha infatti precisato che “per l’applicazione della pena accessoria della interdizione dalla professione di giornalista non è sufficiente un isolato comportamento diffamatorio nel quale pure può ipotizzarsi la violazione dei principi di etica professionale sanciti nell’ordinamento della professione di giornalista (obbligo del rispetto della verità unitamente a quello dei doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede), ma occorrono gravi e ripetute lesioni dei menzionati principi, determinati da un comportamento corrivo e, quindi, produttivo di danno sociale. L’ipotesi di abuso della professione, ai fini dell’applicazione della pena acessoria prevista dall’art. 31 c.p., presuppone un uso abnorme del diritto all’esercizio della professione e un comportamento illecito particolarmente grave sia dal lato obiettivo (per la reiterazione e la gravità del fatto) sia dal lato soggettivo (per la maggiore intensità del dolo)” [53] .
Francesco Parenti - maggio 2003
(riproduzione riservata)
[1] Cfr. E. MUSCO, Stampa, in Enciclopedia del diritto, pag. 633.
[2] Cfr. C. BOVIO, Diritto-informazione, Ordine dei giornalisti, pag. 505.
[3] Si veda P. NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, Cedam, 1971, pag. 15.
[4] Cfr. F. MANTOVANI, La responsabilità per i reati commessi a mezzo della stampa nella nuova disciplina legislativa, in Archivio penale, 1959, I, pag. 70.
[5] Cfr. FIANDACA, E’ “ripartibile” la responsabilità penale del direttore di stampa periodica?, in Foro it., 1983, c. 570.
[6] Si veda Corte Cost., 23 giugno 1956, n. 3.
[7] Cfr. STELLA, Omissione di controllo e inadeguata valutazione della liceità penale di uno scritto diffamatorio da parte del direttore responsabile di un periodico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1962, pag. 244.
[8] Si veda Cass., 5 luglio 1991, n. 7229, nonché Cass., 24 aprile 1987, n. 5090. Contra, cfr. Trib. Roma, 10 marzo 1989.
[9] Cfr. E. MUSCO, op. cit., pag. 638, nonché F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale,1995, pag. 393.
[10] Cfr. Cass. n. 5259 del 1984.
[11] Si veda G.P. VOENA, Soggetti, in Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. CONSO-V. GREVI, Cedam, 1996, pag. 85.
[12] Cfr. P. STEIN, I fondamenti del diritto europeo, Giuffré, 1995, pag. 96.
[13] Molto opportunamente in un recente progetto di legge (c.d. progetto Passigli) si legge che “in deroga a quanto previsto dall’articolo 2947 del Codice civile, l’azione civile del risarcimento del danno conseguente ad eventuale diffamazione perpetrata su mezzi di comunicazione si prescrive nel termine di 180 giorni dalla diffusione della notizia ritenuta diffamatoria”.
[14] Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Delitti contro la persona, 1995, pag. 253.
[15] Cfr. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte Speciale, Milano, 1982, Vol. II, p.449.
[16] In dottrina, si veda F. MANTOVANI, Diritto penale, Delitti contro la persona cit., pag. 308; nonché SPASARI, Sintesi di uno studio dei delitti contro l’onore, 1961, pag. 485. Per la giurisprudenza, cfr. Cass., 16 gennaio 1957; nonché Cass., 6 ottobre 1981.
[17] Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Delitti contro la persona cit., pag. 316.
[18] Così C. BOVIO, op. cit., pag. 544.
[19] Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Delitti contro la persona cit., pag. 309.
[20] La reputazione costituisce quell’opinione o stima di cui l’individuo gode in seno alla società per carattere, ingegno, abilità professionale ed anche qualità fisiche ed altri attributi personali: cfr. Cass., 5 dicembre 1956.
[21] Cfr. Cass., 12 febbraio 1957; Cass., 17 marzo 1969.
[22] Cfr. Cass., 21 dicembre 1949; Cass., 16 maggio 1956; Cass., 11 novembre 1983.
[23] Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Delitti contro la persona cit., pag. 310.
[24] Si veda F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale cit., pag. 320.
[25] Si veda F. MANTOVANI, Diritto penale, Delitti contro la persona cit., pag. 315.
[26] Così Cass., 29 aprile 1982; cfr. altresì Cass., 8 giugno 1981, n. 5757, nonché Cass., 9 maggio 1985.
[27] La medesima aggravante è prevista dall’art. 13 della legge sulla stampa.
[28] La giurisprudenza prevalente ritiene che l’esimente di cui all’art. 598 c.p. non sia applicabile alle offese contenute in un atto di citazione, perché questo atto viene notificato prima della costituzione delle parti e quindi prima che si sia instaurato un procedimento dinanzi all’Autorità giudiziaria: cfr. Cass., 25 novembre 1968, n. 3233; Cass., 10 novembre 1977, n. 14192; Cass., 12 dicembre 1986, n. 5070. Tuttavia, recentemente, la Cassazione (cfr. Cass., 23 settembre 1998; Cass., 4 aprile 2000; Cass., 9 giugno 2000; Cass., 2 ottobre 2001; Cass., 3 dicembre 2001, n. 7000) si è orientata verso la tesi opposta, affermando che rientrano nell’ambito di applicazione dell’esimente di cui all’art. 598 c.p. anche le espressioni offensive contenute nell’atto di citazione purché concernano “in modo diretto ed immediato l’oggetto della controversia ed abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata o per l’accoglimento della domanda proposta” (così Cass., n. 7000/2001 cit.).
[29] Cfr. Cass., 3 gennaio 1966, n. 1667; Cass., 21 febbraio 1975, n. 2017; Cass., 9 dicembre 1986, n. 13942.
[30] Cfr. Cass., 22 febbraio 1969, n. 1337; Cass., 27 maggio 1969, n. 635; Cass., 26 giugno 1993, n. 6352.
[31] Si veda Cass., 15 aprile 1981, n. 3405.
[32] Cfr. Corte Assise Roma, 11 giugno 1975.
[33] La vignetta, intitolata “al Quirinale”, rappresentava due filari di bottiglie di vino di marca “Nebbiolo” e sullo sfondo una piccola figura di un uomo con bastone il quale avrebbe dovuto impersonare l’allora Presidente della Repubblica Luigi Einaudi: cfr. Cass., 3 marzo 1952.
[34] Così in Cass., 11 dicembre 1972, n. 7461.
[35] Cfr. Cass., 19 maggio 1978; nonché Cass., 21 luglio 1977, n. 9385.
[36] Il conduttore del programma era Enzo Biagi e colui che fornì la valigetta il giornalista Pisanò, che dichiarò di averla acquistata per conto della RAI e del periodico “Panorama”. Biagi ed il direttore di “Panorama” Rinaldi furono incriminati per ricettazione. Tuttavia, nel 1990 il procedimento fu archiviato in quanto per aversi ricettazione occorre la conoscenza dell’illecita provenienza dell’oggetto da parte di chi lo riceve: né Biagi né Pisanò né Rinaldi erano a conoscenza della provenienza delittuosa della valigetta.
[37] Peraltro il procedimento aperto contro il caporedattore del Corriere della Sera si chiuse con un decreto di archiviazione.
[38] Cfr. Cass., 7 giugno 1984, n. 5308; Cass., 15 aprile 1985, n. 3494; Cass., 13 dicembre 1988, n. 1977.
[39] Si veda E. MUSCO, op. cit., pag. 649.
[40] Si ricorda l’unico caso in cui fu contestato tale reato: ha affermato la Suprema Corte (cfr. Cass., 17 dicembre 1952) che “sussistono gli estremi del reato di cui all’articolo 565 c.p. quando sotto la subdola forma della corrispondenza (posta dei lettori), oltre la narrazione giornalistica di un fatto immorale, c’è l’eplicito consiglio di aggiungere al primo un secondo concubinato con l’esposizione di circostanze che, offendendo il comune sentimento morale, sono sostanzialmente scherno e dileggio al matrimonio ed alla famiglia. E’ irrilevante comunque che il fatto raccontato sia realmente avvenuto o di pura fantasia”.
[41] Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Delitti contro la persona cit., pag. 416.
[42] Cfr. C. BOVIO, op. cit., pag. 529.
[43] Cfr. G. NEPPI MODONA, Indagini preliminari e udienza preliminare, in Profili del nuovo codice di procedura penale cit., pag. 375.
[44] Si veda C. BOVIO, op. cit., pag. 530.
[45] Così Cass., 16 gennaio 1978, n. 533.
[46] Cfr. Cass., 20 marzo 1982, n. 3120.
[47] Cfr. Corte Cost., 16 marzo 1962, n. 19; Corte Cost., 29 dicembre 1972, n. 199; Corte Cost., 3 agosto 1976, n. 210.
[48] Cfr. Corte Cost., 16 marzo 1962, n. 17.
[49] Al contrario, una giurisprudenza minoritaria (Cass., 21 febbraio 1957, nonché Cass., 15 ottobre 1955) sostiene che le nozioni di falsità e di tendeziosità sono nettamente distinte: la tendenziosità ha come presupposto indefettibile la non falsità della notizia in parola, riferendosi, per contro, alle modalità di diffusione a scopo disfattista ed in guisa da destare pubblico allarme. Invece, deve considerarsi falsa la notizia in toto difforme dalla realtà, anche se la difformità concerne la sola ragione di avvenimento in modo che la notizia stessa ne risulti affatto travisata.
[50] Cfr. E. MUSCO, op. cit., pag. 635.
[51] Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale cit., pag. 789.
[52] Cfr. C. BOVIO, op. cit., pag. 540.
[53] Si veda Cass., 3 giugno 1983. In applicazione di tale principio è stata ritenuta inapplicabile la pena accessoria dell’interdizione da una professione nei confronti di un giornalista che, esercitando il diritto di critica ad una trasmissione televisiva, aveva sconfinato, in una sola frase del suo articolo, nel reato di diffamazione.
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