Illegittimità costituzionale dell’art. 195, comma 4 c.p.p. ove interpretato nel senso che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono essere chiamati a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese dai testimoni soltanto se acquisite con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b) c.p.p. e non anche nel caso in cui, pur ricorrendone le condizioni, tali modalità non siano state osservate
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 195, comma 4, e 627, comma 3, del codice di procedura penale, promosso dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di L. S., con ordinanza del 30 maggio 2006, iscritta al n. 19 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’11 giugno 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante.
Ritenuto in fatto
1.— Nel corso di un procedimento penale per associazione a delinquere di stampo mafioso e tentata estorsione aggravata, la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 195, comma 4, 627, comma 3, e 628, comma 2, del codice di procedura penale.
Premette, in punto di fatto, la Corte che l’imputato sottoposto al suo giudizio era stato ritenuto responsabile, dalla Corte d’assise di Reggio Calabria, di tutti i reati a lui ascritti e condannato alla pena di anni dodici di reclusione e lire 3.500.000 di multa; proposto appello, la Corte d’assise d’appello lo aveva assolto dal delitto di tentata estorsione aggravata, riducendo conseguentemente la pena. La Corte di cassazione, con sentenza del 14 febbraio 2002, aveva poi annullato la sentenza d’appello con rinvio al giudice di secondo grado, limitatamente all’assoluzione per il delitto di tentata estorsione aggravata. La Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria, chiamata ad un secondo giudizio, aveva quindi condannato l’imputato anche per il delitto in contestazione, confermando nella sostanza la sentenza di primo grado e ricalcolando la pena in anni undici e mesi nove di reclusione, convertendo la multa in quella di euro 1807,59.
Rileva la Corte di cassazione che il giudice di primo grado aveva affermato la responsabilità penale dell’imputato anche per il delitto di tentata estorsione aggravata sulla base delle dichiarazioni di due funzionari di polizia giudiziaria, i quali avevano riferito che l’episodio era stato loro narrato da un terzo, con dichiarazioni rese “fuori verbale”. Sul punto erano stati svolti, in dibattimento, i dovuti confronti, e la Corte d’assise di primo grado aveva ritenuto di riscontrare in tal modo le dichiarazioni non verbalizzate. Di diverso avviso era stato il giudice d’appello, secondo cui la natura informale del colloquio tra i funzionari di polizia ed il terzo erano motivo di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai primi, con conseguente assoluzione dell’imputato sul punto. La Corte di cassazione, però, aveva annullato la sentenza d’appello sul rilievo che non fosse corretta la valutazione in termini di inutilizzabilità, affermando nel contempo che «le dichiarazioni non verbalizzate, rese dalla persona offesa potevano essere oggetto di testimonianza indiretta da parte di ufficiali di polizia giudiziaria». Il giudice di rinvio – pur dando atto del nuovo orientamento della medesima Corte di cassazione, rappresentato dalla sentenza n. 36747 del 2003 delle sezioni unite (Torcasio) – si è ritenuto vincolato, ai sensi dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen., al principio di diritto antecedentemente enunciato, ed ha quindi deciso nel senso della condanna dell’imputato valutando anche le testimonianze de relato dei due funzionari di polizia.
Ciò premesso in ordine alla vicenda processuale, la Corte di cassazione riferisce che il difensore dell’imputato ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 195, comma 4, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che non siano utilizzabili le dichiarazioni acquisite da parte della polizia giudiziaria da persone informate sui fatti, anche senza le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), del codice stesso. Il difensore ha ricordato, inoltre, che le sezioni unite della Cassazione, con la menzionata sentenza Torcasio, hanno stabilito che il divieto di testimonianza indiretta da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria vale tanto per le dichiarazioni da loro ritualmente documentate quanto per quelle non verbalizzate; tale interpretazione è stata ritenuta dalle sezioni unite come l’unica costituzionalmente accettabile, rendendo in tal modo incostituzionale quella resa dalla medesima Corte nel giudizio in corso, alla quale il giudice di rinvio si è adeguato.
Dopo aver dato conto della linea seguita dalla difesa dell’imputato, il giudice a quo dichiara che la questione di legittimità costituzionale prospettata dalla parte è rilevante, perché «l’utilizzazione delle testimonianze de relato dei due ufficiali di polizia giudiziaria è il perno sul quale ruota l’intero apparato argomentativo esibito dal giudice di rinvio».
In ordine alla non manifesta infondatezza, la remittente osserva che il giudice di rinvio, per pacifica giurisprudenza, può non uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione ove la disposizione applicata sia stata, nel frattempo, modificata da una legge successiva. Nel caso specifico, però, la sentenza di annullamento è successiva alla modifica dell’art. 195, comma 4, cod. proc. pen., introdotta dalla legge 1° marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell' articolo 111 della Costituzione), norma della quale la sentenza stessa «deve, dunque, necessariamente aver tenuto conto nel fornire l’interpretazione imposta al giudice di rinvio». Tuttavia, dopo l’annullamento della sentenza d’appello, ma prima che si pronunciasse il giudice di rinvio, la citata sentenza delle sezioni unite penali ha fissato il principio generale – da considerare come diritto vivente – del divieto di testimonianza indiretta da parte degli appartenenti alla polizia giudiziaria, affermando che questa è l’unica interpretazione conforme alla Costituzione. In sede di giudizio di rinvio, il principio affermato dalla sentenza di annullamento «in quanto immodificabile da parte del giudice e sottratto a ulteriori mezzi di impugnazione, acquista autorità di giudicato interno per il caso di specie», come risulta da numerose sentenze costituzionali e di legittimità. Al giudice remittente, peraltro, «sembra incongruo, irragionevole e iniquo che il giudice di rinvio debba ritenersi vincolato a un’interpretazione contra Constitutionem fornita dal giudice di legittimità e smentita da successiva sentenza delle Sezioni Unite». Di qui la necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 627, comma 3, e 628, comma 2, cod. proc. pen., poiché – osserva la Corte di cassazione – non ci si potrebbe, nella sede attuale, adeguare all’orientamento giurisprudenziale di cui alla sentenza Torcasio, in quanto il vincolo che la legge pone al giudice di rinvio necessariamente si riflette anche sul giudizio di legittimità avverso la sentenza dal medesimo pronunciata.
D’altra parte, prosegue l’ordinanza di rimessione, se ci si adeguasse all’orientamento imposto al giudice di rinvio dalla precedente sentenza della Corte di cassazione, vi sarebbe anche una violazione del principio di uguaglianza, perché si verificherebbe un’irragionevole disparità di trattamento tra l’indagato/imputato a carico del quale siano state rese dichiarazioni verbalizzate dalla polizia giudiziaria e colui nei confronti del quale tale verbalizzazione non sia stata compiuta.
In conclusione, la Corte di cassazione solleva questione di legittimità costituzionale:
1) dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non consente al giudice di rinvio di rilevare e sollevare eventuale eccezione di incostituzionalità con riferimento ai principi di diritto impostigli dalla Corte di cassazione con la sentenza di annullamento, quando lo stesso giudice di legittimità, in data successiva a detta sentenza, ma anteriore alla sentenza del giudice di rinvio, abbia poi abbandonato, in quanto costituzionalmente incompatibile, il principio di diritto enunziato nel giudizio rescindente;
2) in via subordinata, sempre in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., dell’art. 195, comma 4, cod. proc. pen., nel testo successivo alla modifica apportata con la legge n. 63 del 2001, nella parte in cui consente agli appartenenti alla polizia giudiziaria di riferire circa notizie apprese da persone informate sui fatti, le cui dichiarazioni non siano state verbalizzate, mentre non consente tale testimonianza de relato nel caso in cui la verbalizzazione sia avvenuta.
2.— E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le proposte questioni vengano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
Osserva, in primo luogo, l’interveniente che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen. poteva essere sollevata dal giudice di rinvio, mentre la Corte di cassazione avrebbe potuto sollevare questione solo sull’art. 628, comma 2, cod. proc. pen., cosa che sembra aver fatto nel corpo dell’ordinanza di remissione ma non nel dispositivo. D’altra parte – come risulta anche dall’ordinanza n. 11 del 1999, riguardante la stessa norma – è consentito solo al giudice di rinvio sollevare questioni relative al principio di diritto, sicché la questione sull’art. 627, comma 3, cod. proc. pen. è priva di rilevanza.
Residua, quindi, la sola questione sull’art. 195, comma 4, del codice di rito.
Al riguardo l’Avvocatura rileva che, dopo le modifiche di cui alla legge n. 63 del 2001, il divieto di testimonianza indiretta da parte degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria non è assoluto, ma vale solo nell’ipotesi in cui la deposizione sia stata formalmente raccolta con atti utilizzabili, sia pure limitatamente. E, d’altra parte, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul punto, ha dichiarato la questione non fondata (sentenza n. 32 del 2002). La sentenza delle sezioni unite indicata nell’ordinanza di rimessione è servita proprio a delimitare il campo di quegli “altri casi” nei quali gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria possono rendere testimonianza sul contenuto di dichiarazioni acquisite da persone informate sui fatti. Ne consegue – secondo l’Avvocatura – che dovrebbe essere ammessa la testimonianza de relato anche in ordine a dichiarazioni della persona offesa che, pur richiesta, non abbia voluto, per timore di ritorsioni, formalizzare per iscritto le dichiarazioni accusatorie in precedenza rese “fuori verbale”. La questione, impostata in tali termini, sarebbe dunque infondata, perché il teste appartenente alla polizia giudiziaria sarà chiamato in dibattimento a rendere informazioni, in contraddittorio, sull’avvenuta raccolta delle stesse da parte della persona informata sui fatti.
Considerato in diritto
1.–– Questa Corte è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24, e 111 della Costituzione, degli articoli: A) «195, comma 4 cod. proc. pen., come modificato dalla legge 63 del 2001, nella parte in cui non prevede che siano inutilizzabili le dichiarazioni acquisite da parte della polizia giudiziaria da persone informate sui fatti, senza le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), cod. proc. pen.; B) 627, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non consente di rilevare e sollevare questione di costituzionalità con riferimento ai principi di diritto enunciati dalla Corte di cassazione nella sentenza di annullamento con rinvio».
2.–– La remittente Corte di cassazione espone di essere stata adita con ricorso proposto avverso la sentenza di condanna di S.L. per il reato di tentata estorsione, emessa in sede di rinvio dopo che la stessa Corte aveva cassato la sentenza assolutoria di appello perché fondata sul presupposto, ritenuto erroneo, che l’art. 195, comma 4, cod. proc. pen. disponesse l’inutilizzabilità anche delle testimonianze de relato di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria relative a circostanze da loro non verbalizzate.
Dall’ordinanza di rimessione risulta che, dopo la cassazione con rinvio e l’enunciazione del principio di diritto sull’inutilizzabilità delle testimonianze relative a dichiarazioni acquisite da agenti di polizia giudiziaria soltanto con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), le sezioni unite della stessa Corte di cassazione, in sede di composizione di contrasto di giurisprudenza, hanno affermato l’opposto principio secondo cui l’inutilizzabilità delle testimonianze indirette si riferisce «anche ai casi nei quali la polizia giudiziaria non abbia provveduto alla redazione del relativo verbale, con ciò eludendo proprio le modalità di acquisizione prescritte dalle norme medesime».
Siffatta interpretazione, che le stesse sezioni unite definiscono l’unica costituzionalmente adeguata, non è stata seguita dal giudice di rinvio perché vincolato al principio di diritto enunciato nella sentenza di cassazione. Per la sua applicazione, secondo la remittente, è anzitutto necessaria la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen. se considerato, come si afferma nella motivazione dell’ordinanza di rimessione, in connessione con l’art. 628, comma 2, del medesimo codice, il quale stabilisce che «in ogni caso la sentenza del giudice di rinvio può essere impugnata soltanto per motivi non riguardanti i punti già decisi dalla Corte di cassazione ovvero per inosservanza della disposizione dell’art. 627, comma 3».
Secondo il ragionamento seguito dal giudice a quo, l’art. 627, comma 3, cod. proc. pen. vincola in modo ineludibile il giudice di rinvio ad uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa. Tale vincolo, per quanto disposto dall’art. 628, comma 2, cod. proc. pen., si riflette anche sull’oggetto del giudizio di cassazione promosso contro la sentenza emessa in sede di rinvio, restringendolo al mero riscontro della sua rispondenza al principio di diritto enunciato con la sentenza di cassazione, senza alcuna possibilità di riscontrare la adeguatezza di quest’ultimo alle norme della Costituzione.
3.–– E’ necessario premettere che, per il collegamento esistente tra il giudizio del giudice del rinvio e quello di impugnazione per la cassazione della sentenza emessa in quella sede, ai fini della legittimazione a sollevare questione di legittimità costituzionale, non vi è differenza tra il giudice del rinvio e la Corte di cassazione adita con ricorso avverso la sentenza da lui emessa. Nell’un caso e nell’altro, oggetto del giudizio è la norma sospettata di illegittimità, rispetto alla cui applicazione non può parlarsi di situazione esaurita.
Ciò premesso, si osserva che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen. è manifestamente infondata, per erroneità del presupposto interpretativo. Infatti, questa Corte ha costantemente affermato il principio per cui in sede di rinvio la norma dichiarata applicabile dalla Corte di cassazione nella interpretazione da essa fornita può essere sospettata di illegittimità costituzionale, con la richiesta del relativo scrutinio da parte di questa Corte (v., ex plurimis, sentenze n. 130 del 1993 e n. 78 del 2007, nonché, con riguardo al giudizio di rinvio in sede civile, per quanto qui interessa avente struttura non dissimile dal giudizio penale di rinvio, sentenze n. 138 del 1977 e n. 349 del 2007).
4.–– L’infondatezza della suddetta questione non determina l’inammissibilità di quella relativa all’art. 195, comma 4, cod. proc. pen., in sostanza autonomamente sollevata.
E’ tuttavia necessario, prima di procedere al suo scrutinio, affermare che la circostanza che le sezioni unite, successivamente alla sentenza di cassazione con rinvio e in altro processo, abbiano adottato un’interpretazione della disposizione in oggetto difforme da quella che fonda il principio di diritto enunciato, nulla toglie alla vincolatività di questo, sicché lo scrutinio deve avere ad oggetto la disposizione così come interpretata dalla sentenza di cassazione con rinvio. In casi come quello in esame, infatti, la struttura del giudizio di cassazione con rinvio, vietando ai giudici che ancora debbano farne applicazione di dare alla disposizione in questione un significato diverso da quello ad essa attribuito con la determinazione del principio di diritto, impedisce l’interpretazione adeguatrice coerente all’orientamento di questa Corte, secondo il quale una disposizione non si dichiara illegittima perché suscettibile di un’interpretazione contrastante con i parametri costituzionali, ma soltanto se ne è impossibile altra a questi conforme.
Ciò premesso, la questione è fondata.
E’ infatti irragionevole e, nel contempo, indirettamente lesivo del diritto di difesa e dei principi del giusto processo ritenere che la testimonianza de relato possa essere utilizzata qualora si riferisca a dichiarazioni rese con modalità non rispettose delle disposizioni degli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), cod. proc. pen., pur sussistendo le condizioni per la loro applicazione, mentre non lo sia qualora la dichiarazione sia stata ritualmente assunta e verbalizzata. Si finirebbe per dare rilievo processuale – anche decisivo – come accadrebbe nel caso in esame, ad atti processuali compiuti eludendo obblighi di legge, mentre sarebbero in parte inutilizzabili quelli posti in essere rispettandoli.
La disposizione impugnata va pertanto dichiarata illegittima nei soli limiti dell’oggetto con riguardo al quale lo scrutinio è stato condotto, e cioè se interpretata nel modo in cui lo è stato da parte della sentenza della Corte di cassazione e, conseguentemente, dal giudice di rinvio.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 195, comma 4, del codice di procedura penale, ove interpretato nel senso che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono essere chiamati a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese dai testimoni soltanto se acquisite con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), cod. proc. pen., e non anche nel caso in cui, pur ricorrendone le condizioni, tali modalità non siano state osservate;
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 627, comma 3, del codice di procedura penale, in connessione con l’art. 628, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Francesco AMIRANTE, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008.
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