Caso Calipari. Non sussiste la giurisdizione penale dello Stato italiano né quella dello Stato territoriale, bensì quella esclusiva degli USA, Stato di invio del personale militare partecipante alla Forza Multinazionale in Iraq, in applicazione del principio di diritto internazionale consuetudinario della ‹‹immunità funzionale›› o ratione materiae dell’individuo-organo dello Stato estero dalla giurisdizione penale di un altro Stato, per gli atti eseguiti iure imperii nell’esercizio dei compiti e delle funzioni a lui attribuiti: principio non derogabile, nella specie, per l’assenza nelle circostanze e modalità del fatto contestato delle caratteristiche proprie della ‹‹grave violazione›› del diritto internazionale umanitario, con particolare riguardo alla non configurabilità nel caso concreto di un ‹‹crimine contro l’umanità›› o di un ‹‹crimine di guerra››
Ritenuto in fatto
1.- Con decreto del 7/2/2007 il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma disponeva il rinvio a giudizio davanti alla Corte d’assise di M.L.L., soldato del contingente militare USA dislocato con la Forza Multinazionale in territorio iracheno, in servizio come artigliere al posto di blocco (istituito la sera del 4 marzo 2005 al checkpoint 541, in corrispondenza dell’intersezione fra la Route Vernon e la Route Irish in direzione dell’aeroporto di Baghdad, in attesa del passaggio del convoglio dell’ambasciatore USA), per rispondere dei reati di omicidio e tentato omicidio in danno di Nicola Calipari e Andrea Carpani, funzionari del SISMI in missione in Iraq per la liberazione di Giuliana Sgrena, giornalista rapita da un gruppo di terroristi islamici e appena liberata, e della medesima Sgrena, per avere, esplodendo numerosi colpi d’arma da fuoco con un mitragliatore automatico contro l’autovettura sulla quale essi viaggiavano, in avvicinamento al posto di blocco e in direzione dell’aeroporto, cagionato la morte di Calipari e il ferimento di Carpani e della Sgrena.
La Corte di assise di Roma dichiarava con sentenza del 25/10/2007 non doversi procedere nei confronti del M.L.L. per difetto della giurisdizione italiana, sulla base di un triplice rilievo:
a) innanzi tutto, prevaleva sul criterio di collegamento della giurisdizione “passiva” il principio consuetudinario di diritto internazionale della c.d. “legge della bandiera”, direttamente applicabile in virtù dell’art. 10, 1° comma, Cost., per cui è attribuita in via esclusiva allo Stato di invio di un contingente militare all’estero la giurisdizione per gli illeciti commessi dal proprio personale in territorio straniero;
b) il regime di immunità dalla giurisdizione di Stati diversi da quello di invio trovava conferma sia nella risoluzione n. 1546 dell’8/6/2004 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ritenuta self-executing nel nostro ordinamento, sia nelle allegate lettere del Primo Ministro iracheno e del Segretario di Stato USA (coerenti con quanto disposto dall’Ordine 27/6/2004 n. 17 della CPA, confermato dal successivo Ordine n. 100 del 28/6/2004), nelle quali, riconoscendosi la fine dell’occupazione militare da parte dell’Autorità Provvisoria della Coalizione e la ripristinata sovranità statale dell’Iraq a far data dal 30 giugno 2004, s’attribuiva a ciascuno degli Stati partecipanti alla Forza Multinazionale, per la fase di transizione, la responsabilità per l’esercizio della giurisdizione sul proprio personale;
c) non si profilavano ipotesi di giurisdizione concorrente da parte di altri Stati, in forza di ulteriori criteri di collegamento, quale la territorialità o la nazionalità della vittima, e, in ogni caso, il Dipartimento di Giustizia USA aveva esercitato la giurisdizione primaria, escludendo in concreto la sussistenza di indizi di reità a carico del M.L.L. e disponendo la chiusura del caso, ritenendo che il militare avesse agito in conformità alle regole d’ingaggio previste per il posto di blocco.
2.- Avverso detta sentenza hanno proposto distinti e immediati ricorsi per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma (anche su richiesta del difensore delle parti civili Calipari, motivata per relationem all’allegato parere pro veritate del Prof. Giuseppe Cataldi), il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma e il difensore della parte civile Sgrena.
La pubblica accusa, a sostegno della tesi favorevole alla giurisdizione dello Stato italiano, sostiene, con articolati motivi di censura, in parte sovrapponibili ai rilievi critici del Prof. Cataldi, che:
a) non esiste un principio consuetudinario internazionale, definito “legge della bandiera”, né accordi internazionali che prevedano regole di riparto della giurisdizione fra gli Stati partecipanti ad una Forza Multinazionale operante nel territorio di un altro Stato, nel senso dell’esclusiva attribuzione della giurisdizione allo Stato di invio di ciascun contingente militare e con carattere di prevalenza su ogni altro criterio di collegamento;
b) la Risoluzione ONU n. 1546 del 2004 (che non può considerarsi self-executing né immediatamente esecutiva nell’ordinamento statale, in assenza di uno specifico atto legislativo interno), le allegate lettere Allawi-Powell e gli Ordini nn. 17 e 100 della CPA si limitavano a stabilire la giurisdizione esclusiva degli Stati membri della MNF, e quindi una sorta di immunità del personale, solo nel rapporto con la giurisdizione territoriale dello Stato di soggiorno, ma non nei rapporti fra gli Stati contribuenti alla MNF;
c) in numerose leggi statali, emanate fra il 2003 e il 2007 per regolamentare la disciplina delle missioni italiane all’estero, si è stabilita la giurisdizione penale italiana e la competenza del Tribunale di Roma per tutti i reati commessi in territorio iracheno dallo “straniero” a danno dello Stato o di cittadini italiani partecipanti alla missione; d) con la giurisdizione “attiva” degli USA concorreva quella “passiva” dell’Italia in ragione della nazionalità delle vittime, a norma degli artt. 8 e 10 cod. pen., mentre dal rapporto investigativo delle autorità militari statunitensi non risultava che gli USA avessero esercitato la giurisdizione nel caso concreto.
I motivi di diritto esposti dalla pubblica accusa sono condivisi e sviluppati con ulteriori considerazioni - a sostegno della tesi della giurisdizione italiana - dal difensore della parte civile Sgrena, il quale sottolinea la “dimensione assiologica degli interessi protetti”, come criterio di determinazione della concorrente giurisdizione “passiva” dell’Italia, in assenza di specifiche norme derogatorie di carattere pattizio, al fine di evitare situazioni di impunità per crimini gravemente lesivi dei diritti fondamentali dell’uomo.
L’Avvocatura Generale dello Stato, costituitasi per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, si è associata alle richieste della pubblica accusa e della parte civile ricorrente.
3.- La correttezza della sentenza impugnata è invece sostenuta dal difensore dell’imputato, il quale ha replicato con apposite memorie ai motivi di gravame dei ricorrenti, allegando a sostegno delle proprie argomentazioni i pareri pro veritate del Dr. Dieter Fleck, consulente di diritto internazionale del Governo della Repubblica Federale di Germania, e del Prof. Fredric I. Lederer, esperto di diritto penale militare americano.
Dopo avere dato atto del contesto storico-politico e del regime giuridico vigente in Iraq all’epoca dei fatti, la difesa dell’imputato confuta analiticamente i rilievi critici sviluppati dai ricorrenti e ribadisce (anche mediante diffuse citazioni giurisprudenziali e dottrinali):
a) l’esistenza e la rilevanza della norma consuetudinaria sulla c.d. “legge della bandiera”, ai fini dell’attribuzione della giurisdizione esclusiva allo Stato di invio sul proprio personale partecipante alla Forza Multinazionale operante in Iraq;
b) il riconoscimento di tale giurisdizione in forza della Risoluzione n. 1546 del 2004 del Consiglio di Sicurezza, adottata ai sensi del Cap. VII della Carta delle Nazioni Unite e perciò vincolante, oltre che recepita nell’ordinamento italiano mediante le leggi di finanziamento della missione in Iraq, nonché degli Ordini nn. 17 e 100 della CPA, riguardanti lo status del personale degli Stati contribuenti alla MNF;
c) in ogni caso, il primato della giurisdizione “attiva” statunitense in forza della norma di diritto internazionale generale che sancisce l’ “immunità funzionale” dalla giurisdizione dello Stato straniero dell’individuo-organo, il quale, come il M.L.L., abbia agito iure imperii nell’esercizio delle funzioni militari di guardia e controllo a un posto di blocco; d) l’insussistenza, nella specie, di eccezioni alla regola dell’immunità funzionale che potrebbero radicare la giurisdizione penale italiana, non configurandosi comunque un “crimine internazionale”, per l’evidente assenza nelle modalità del fatto contestato al M.L.L. delle caratteristiche di gravità, intensità, arbitrarietà, odiosità ed intenzionalità, proprie dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra;
e) l’avvenuto, effettivo, esercizio della giurisdizione penale nei confronti del M.L.L. per i fatti di cui all’odierno processo, da parte della giustizia militare degli Stati Uniti, giusta il parere del Prof. Lederer circa i termini e le modalità di investigazione e chiusura del caso.
Il P.G. presso la Corte di cassazione, non condividendo le censure dei ricorrenti, ha concluso per il rigetto dei ricorsi, sull’assunto della immunità funzionale dell’imputato dalla giurisdizione penale italiana per il compimento di atti eseguiti nell’esercizio delle funzioni militari affidategli.
Considerato in diritto
1.- La questione di giurisdizione.
La Corte di cassazione è chiamata a rispondere al quesito “se, con riferimento all’uccisione e al ferimento di due funzionari del SISMI, in missione governativa in territorio iracheno per conseguire la liberazione di una giornalista rapita, e della medesima giornalista appena liberata (attinti da numerosi colpi di arma da fuoco esplosi contro l’autovettura sulla quale essi viaggiavano la sera del 4 marzo 2005 ad un posto di blocco istituito nei pressi dell’aeroporto di Baghdad), reati contestati ad un soldato in servizio al posto di blocco ed appartenente al contingente militare USA, dislocato in Iraq con la Forza Multinazionale, in forza della Risoluzione n. 1546 del 2004 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sussista, o non, la giurisdizione penale dello Stato italiano”.
2.- Il contesto storico-ordinamentale.
Assume preminente rilievo, per l’inquadramento del contesto storico-ordinamentale vigente al momento del fatto omicidiario in Iraq (ove operava fin dal 2003 un contingente militare italiano, nell’ambito della missione umanitaria denominata “Antica Babilonia” di stabilizzazione e ricostruzione postbellica di quel Paese), la Risoluzione n. 1546 adottata l’8/6/2004, alla stregua del Cap. VII della relativa Carta, dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la quale, richiamate le precedenti Risoluzioni nn. 1483, 1500 e 1511 del 2003, si dava atto della fine della “occupazione” da parte dell’Autorità Provvisoria della Coalizione (CPA) e dell’apertura di nuova fase di “transizione” verso la ripristinata indipendenza e sovranità statale dell’Iraq a far data dal 30 giugno 2004.
Con il consenso del Governo iracheno ed a supporto della transizione politica, veniva confermata l’autorizzazione della Forza Multinazionale (MNF), sotto comando unificato, ad esercitare l’autorità per adottare ogni misura necessaria per contribuire al mantenimento “of security and stability” in Iraq (con l’obbligo per gli Stati Uniti di riferire, per conto della MNF, degli sforzi fatti e dei progressi conseguiti), “in accordance - si aggiunge - with international law, including obligations under international humanitarian law”.
La Risoluzione n. 1546 richiamava, a sua volta, le annesse lettere 5/6/2004 del Primo Ministro iracheno, Ayad Allawi, e del Segretario di Stato USA, Colin Powell, nelle quali erano fissate le intese dirette ad assicurare il coordinamento fra il Governo iracheno e la Forza Multinazionale.
In particolare, nella lettera di Powell si avvertiva che, per contribuire efficacemente alla sicurezza, la MNF doveva continuare a funzionare in un quadro che offrisse al personale lo status di cui aveva bisogno per portare a termine la missione, nel quale gli Stati contribuenti “have responsibility for exercising jurisdiction over the personnel” alla stregua dell’ “existing framework”; si aggiungeva, inoltre, che i contingenti militari che formavano la MNF erano impegnati a compiere le loro attività “under the law of armed conflict, including the Geneva Conventions”.
In tal senso era anche orientata la disciplina dettata dalla Sez. 2 dell’Order n. 17 (confermato dal successivo Order n. 100, Sez. 3 § 8, del 28/6/2004), emanato il 27/6/2004 da L. Paul Bremer, rappresentante della CPA, circa lo status del personale civile e militare della MNF, stabilendosi che il relativo personale “shall be immune from Iraqi legal process” (§ 1) e “shall be subject to the exclusive jurisdiction of their Sending States” (§§ 3 e 4).
2.1.- Quanto al regime giuridico del contingente militare italiano che dal 2003 al 2006, insieme ad altri contingenti della coalizione multinazionale a comando unificato, ha partecipato alla missione umanitaria di stabilizzazione e ricostruzione postbellica dell’Iraq, va segnalato il d.l. 24/6/2004 n. 160, conv. in l. 30/7/2004, n. 207, recante proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali, che, insieme con la finalizzazione delle attività operative “nell’ambito degli obiettivi e delle finalità individuati nella Risoluzione delle Nazioni Unite n. 1546 dell’8 giugno 2004” (art. 1, comma 2), statuisce, fra le disposizioni in materia penale, che “i reati commessi dallo straniero in territorio iracheno, a danno dello Stato o di cittadini italiani partecipanti alle missioni … sono puniti sempre a richiesta del Ministro della giustizia e sentito il Ministro della difesa per i reati commessi a danno di appartenenti alle forze armate” (art. 10, comma 2) e che “per i reati di cui al comma 2 la competenza territoriale è del tribunale di Roma” (art. 10, comma 3): disposizioni, quest’ultime, tralaticiamente reiterate nei successivi decreti legge sulla partecipazione italiana a missioni internazionali (v., fra gli altri, l’art. 13 del d.l. 19/1/2005 n. 3, conv. in l. 18/3/2005 n. 37, e, da ultimo, l’art. 5 del d.l. 31/1/2008 n. 8, conv. in l. 13/3/2008 n. 45).
2.2.- Lo stazionamento sul territorio iracheno di contingenti militari appartenenti alla MNF, tenuto conto del contesto storico e internazionale in cui le operazioni di intervento erano inserite, si collocava dunque, almeno a partire dalla Risoluzione n. 1546, nell’ambito delle missioni di pace (peace support operations) delle Nazioni Unite, definite, di volta in volta, peace-keeping, peace-building o peace-enforcement, a seconda del prevalere di taluni aspetti (la sicurezza, la stabilità, la tutela dei diritti umani ecc.) rispetto al mero mantenimento della pace: tutte caratterizzate, peraltro, nonostante il moltiplicarsi e la diversità delle situazioni di crisi internazionali, anche non belliche o postbelliche, dal consenso dello Stato ospitante (Host State), dal significativo impiego di personale militare da parte degli Stati contribuenti (Sending States) e, infine, dalla pluralità e complessità delle funzioni e degli obiettivi perseguiti anche di polizia internazionale, sulla base del meccanismo previsto dal Cap. VII della Carta delle Nazioni Unite.
3.- La “legge della bandiera” (“nello zaino”).
Orbene, a fronte del descritto modulo organizzativo, multinazionale e multifunzionale, della missione di pace autorizzata dalle Nazioni Unite in Iraq, difficilmente riconducibile ai classici schemi di occupazione bellica elaborati nel passato, appare davvero inadeguato il riferimento fatto nel caso in esame dalla Corte d’assise di Roma, al fine di paralizzare l’operatività del criterio di collegamento della giurisdizione “passiva” dello Stato italiano, giusta la nazionalità delle vittime del fatto criminoso (artt. 8 e 10 cod. pen.; art. 13 d.l. 19/1/2005 n. 3, conv. in l. 18/3/2005 n. 37), ad un preteso principio internazionale consuetudinario (c.d. “legge della bandiera”), universalmente riconosciuto e direttamente applicabile in virtù dell’art. 10, 1° comma, Cost., in virtù del quale è attribuita in via esclusiva allo Stato di invio del contingente militare all’estero, in caso di occupazione, bellica o non, transito e stazionamento di truppe straniere sul territorio di uno Stato, la giurisdizione civile e penale per gli illeciti commessi dal proprio personale in quel territorio.
Pure a prescindere dai dubbi espressi dalla Corte permanente di giustizia internazionale nella remota decisione pronunciata il 7/9/1927 nel caso S.S. Lotus, circa l’effettiva prova dell’esistenza di “a rule of customary international law which established the exclusive jurisdiction of the State whose flag was flown on board a merchant ship on the high seas”, poiché “the principle is not universally accepted”, osservavano infatti le Sezioni Unite penali di questa Corte, già con sentenza del 28/11/1959, Meitner (in Giust. pen., 1960, III, 481; cui adde Cass., Sez. II, 30/1/1959, P.M. in proc. Parker, ivi, 1959, III, 424 e Sez. II, 15/4/1959, Knopich, ivi, 1960, III, 22), che l’evolversi dei rapporti internazionali dopo il secondo conflitto mondiale, con la conseguente creazione di basi permanenti nel territorio di altri Stati, “… ha determinato la progressiva limitazione del principio della c.d. giurisdizione della bandiera (“ubi signa et jurisdictio”, “la loi suit le drapeau”), in forza del quale veniva riconosciuto allo Stato d’origine, o della bandiera, “ne impediatur officium”, e cioè ad assicurargli la disponibilità dei propri reparti, il diritto di esercitare la giurisdizione sulle proprie truppe dislocate in territorio estero e perciò esenti da quella dello Stato occupato od ospitante”.
Segnalavano le Sezioni Unite, con tale storica sentenza, come nella Convenzione di Londra del 19/6/1951, ratificata e resa esecutiva con legge 30/11/1955 n. 1335, concernente lo statuto dei militari appartenenti alle forze armate della NATO dislocate in territorio alleato (c.d. NATO SOFA), il tradizionale principio immunitario di personalità attiva, “a tutela della funzione e non della persona”, per i reati commessi dall’organo militare nell’espletamento del servizio - “on official duty” -, veniva limitato rispetto al principio di territorialità: “accanto alla già esclusiva giurisdizione della bandiera, è riconosciuta quella dello Stato di soggiorno”, prevedendo l’art. VII del Trattato Nord Atlantico un più sofisticato sistema di riparto e regolamentazione delle priorità fra le due giurisdizioni concorrenti.
E in tal senso si sono altresì pronunciati sia la Corte costituzionale (n. 96 del 1973 e n. 446 del 1999), sia taluni giudici di merito (G.i.p. Trib. Trento, 13/7/1998, Ashby e altri, nel caso Cermis, in Cass. pen., 1999, 3588).
4.- I SOFAs (Status of Forces Agreements): il SOFA Iraq. Con riguardo alla frammentarie declinazioni dei moderni modelli delle missioni di pace istituite o autorizzate dalle Nazioni Unite sono cresciute - come si è detto - le difficoltà di identificazione del quadro delle fonti normative, nazionali o internazionali, applicabili alle condotte penalmente illecite del personale dei plurimi contingenti militari, operanti anche per conto di organismi sopranazionali, e ciò soprattutto in considerazione della multinazionalità della forza impiegata in una medesima missione, della portata del mandato internazionale che ne legittima l’operato, del tipo e dell’effettività della catena di comando, del ruolo delle regole d’ingaggio e di altre variabili, anche in rapporto alla singola o alle diverse nazionalità dei militari autori dell’illecito e al margine di applicazione riservato alla giurisdizione locale.
Trova oggi, pertanto, ampia diffusione la prassi internazionale di disciplinare pattiziamente il dispiegarsi di immunità funzionali e il sistema di riparto della giurisdizione penale, mediante un nucleo di norme regolatrici dello status del personale dei contingenti militari impegnati nelle operazioni militari all’estero, incorporate in più ampi accordi stipulati fra gli Stati contribuenti alla Forza Multinazionale e lo Stato di soggiorno delle truppe: accordi bilaterali o multilaterali denominati SOFAs - Status of Forces Agreements -, diretti a risolvere i problemi che possono insorgere dalla convivenza delle leggi dello Stato di invio e di quello di destinazione in ordine alle condotte criminose poste in essere dal personale della Forza Multinazionale nell’espletamento del servizio.
Assume indubbio rilievo, in questa logica consensuale, il modello di riferimento per la stesura di siffatti accordi costituito dal Model SOFA ONU (Model status-of-forces agreement for peace-keeping operations) adottato dalle Nazioni Unite nel 1990 (Rapporto del Segretario Generale, Doc. A/45/594, 9 ottobre 1990), che statuisce l’immunità dalla giurisdizione locale e la competenza esclusiva sui militari dello Stato di appartenenza per ogni reato commesso nello Stato di destinazione, nel corso di un’attività finalizzata all’adempimento dei propri doveri, escludendo radicalmente la competenza di quest’ultimo (art. VI, § 46, 47-b, 48), seguito dal Model Agreement del 1991 tra l’ONU e i Paesi membri che contribuiscono al personale delle missioni (Doc. A/46/185, 23 maggio 1991, art. VIII).
A siffatto modello sembra sostanzialmente ispirarsi, d’altra parte, anche la specifica disciplina dettata dalla Risoluzione n. 1546 del Consiglio di Sicurezza, dalle annesse lettere 5/6/2004 del Primo Ministro iracheno e del Segretario di Stato USA e dalle disposizioni dell’Order n. 17, sopra richiamate, circa lo status, le immunità e la giurisdizione esclusiva dello Stato d’invio del personale della MNF (c.d. SOFA Iraq).
Gli accordi bilaterali o multilaterali detti SOFAs, anche nella più articolata versione di una regolamentazione del riparto e della priorità della giurisdizione (quali esempi di “shared jurisdiction”, v. l’art. VII dell’Accordo di Londra del 1951 tra i Paesi della NATO e l’art. 17 del Model SOFA UE stipulato il 17 novembre 2003 tra gli Stati membri dell’Unione Europea), sono diretti, pertanto, a disciplinare, convenzionalmente e nel dettaglio, i rapporti per così dire “verticali” tra lo Stato di invio e lo Stato di destinazione, escludendo, in linea di principio, la competenza “territoriale” di quest’ultimo in favore dell’esclusiva giurisdizione “attiva” dello Stato di appartenenza per i fatti illeciti commessi nell’espletamento del servizio dai componenti del contingente militare.
E però, nonostante la tendenziale riserva di giurisdizione a favore dello Stato d’invio rivelata dalle prassi internazionali, non è dato ancora ravvisare l’esistenza di un riconosciuto principio consuetudinario internazionale ovvero di accordi ad hoc o SOFAs, che dettino speciali ed esplicite regole di riparto “orizzontale” della giurisdizione fra gli Stati partecipanti alla Coalizione o alla Forza Multinazionale operante nel territorio di un altro Stato.
S’intende dire, in altre parole, che non risulta affermato con chiarezza nel sistema di diritto internazionale lo status dei contingenti multinazionali nei loro rapporti reciproci, né tantomeno l’esclusiva attribuzione della giurisdizione allo Stato di appartenenza di ciascun contingente militare, con carattere di prevalenza su ogni altro criterio concorrente di collegamento, come quello della giurisdizione “passiva”, neppure nei più drammatici casi - come nella specie - di “danni collaterali” o di “fuoco amico”, cioè di condotte criminose, dolose o colpose, in danno di membri del contingente militare o comunque cittadini di altro Stato, contribuente e alleato nella medesima missione di pace: zone grigie, queste, caratterizzate dall’emersione di problematiche nuove e controverse per l’evidente coinvolgimento di una pluralità di ordinamenti.
Donde l’irrilevanza, ai fini della controversa questione di giurisdizione, del problema attinente alla pretesa natura self-executing, o non, nell’ordinamento italiano della Risoluzione del Consiglio Sicurezza n. 1546 del 2004, pur dovendosi rilevare che l’opzione negativa sembra preferibile alla luce della prassi legislativa italiana che richiede una norma di adattamento interno, soprattutto se ne debbano conseguire effetti indiretti in materia penale, ostandovi la riserva di legge ex art. 25, 2° comma Cost. (Cass., Sez. I, 8/7/1994, Barcot, in Giur. it., 1995, II, 232).
5.- L’immunità funzionale (ratione materiae) degli organi dello Stato estero.
Anche per quest’aspetto, dunque, in assenza di una solida e riconosciuta consuetudine o di convenzioni internazionali, bilaterali o multilaterali, che disegnino con chiarezza “the legal framework”, per quanto riguarda lo status del personale e la sorte delle relazioni “orizzontali” fra gli Stati contribuenti alle missioni internazionali di pace, si rivela inadeguata l’analisi condotta dalla Corte d’assise per giustificare la soluzione ostativa, nel caso di specie, all’operatività del criterio di collegamento della giurisdizione “passiva” dello Stato italiano ex artt. 8 e 10 del codice penale (dovendosi escludere, in ogni caso, l’applicabilità dell’art. 13 d.l. n. 3 del 2005, conv. in l. n. 37 del 2005, atteso che nessuno dei cittadini italiani coinvolti nei tragici eventi cagionati dall’azione militare del M.L.L. partecipava alla missione di pace in Iraq, essendo il Calipari e il Carpani funzionari del Sismi incaricati ad hoc della liberazione della Sgrena, giornalista sequestrata da terroristi iracheni).
Ritiene, invece, questa Corte che il fondamento del primato esclusivo della giurisdizione “attiva” degli USA debba rinvenirsi nel principio consuetudinario di diritto internazionale che sancisce la “immunità funzionale” (ratione materiae), dalla giurisdizione interna dello Stato straniero, nella specie quello italiano, dell’individuo-organo il quale, come l’imputato M.L.L., soldato del contingente militare statunitense facente parte della MNF, operante in Iraq sotto l’egida del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ma sotto il “controllo effettivo” della struttura di comando dello Stato d’invio (v., in proposito, Corte eur. d. uomo, 31/5/2007, nei casi Behrami e Saramati c. Francia), abbia agito iure imperii nell’esercizio delle funzioni di guardia e di controllo a un posto di blocco.
Costituisce, infatti, principio di fonte internazionale consuetudinaria, universalmente accettato dalla prevalente dottrina e dalle prassi giurisprudenziali, nazionali e internazionali, recepito nell’ordinamento giuridico italiano siccome norma di diritto internazionale generale preesistente (Corte cost., n. 48 del 1979), in forza dell’adeguamento automatico disposto dall’art. 10, 1° comma, Cost., e prevalente, in quanto tale, sui criteri di collegamento delineati dalle norme statali anche di fonte penale, quello per cui sono sottratti alla giurisdizione civile o penale di uno Stato estero i fatti e gli atti eseguiti iure imperii dagli individui-organi di un altro Stato nell’esercizio dei compiti e delle funzioni pubbliche ad essi attribuiti.
L’esistenza di una siffatta norma consuetudinaria di diritto internazionale e la sua operatività nel nostro ordinamento non sono revocabili in dubbio, poiché il principio della immunità funzionale, pure nella nozione “ristretta” o “relativa”, limitata cioè alle sole attività che, a differenza di quelle “iure gestionis”, sono espressione diretta e immediata della funzione sovrana degli Stati, tra le quali ontologicamente rientrano le attività eseguite nel corso di operazioni militari, ha trovato ampio e incontroverso riconoscimento, fin dal risalente e famoso caso McLeod del 29 dicembre 1837, sia nella dottrina che nella giurisprudenza, interna e internazionale.
A conforto della tesi della permanente validità del principio dell’immunità dalla giurisdizione civile per questa tipologia di atti possono richiamarsi, oltre la costante giurisprudenza nazionale di legittimità (Cass., Sez. Un. civ., nn. 14199 e 14201 del 2008, n. 11255 del 2005, n. 5044 del 2004, n. 8157 del 2002, n. 530 del 2000), le pronunzie di altre Corti supreme europee (17/7/2002 della Corte Suprema greca, 26/6/2003 della Corte federale di cassazione tedesca, 16/12/2003 della Corte di cassazione francese, 14/6/2006 della House of Lords inglese, nel caso Jones), gli arresti della Corte europea dei diritti dell’uomo (21/11/2001, Al Adsani c. Regno Unito, 12/12/2002, Kalogeropoulou c. Grecia e Germania, 14/12/2006, Markovic c. Italia), la decisione 29/10/1997 del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, caso Blaškic' (subpoena) e, infine, la più recente pronunzia della Corte internazionale di giustizia, 4/6/2008, Gibuti c. Francia, §§ 185, 194-196 (cui adde, della stessa Corte, la sent. 14/2/2002, Repubblica democratica del Congo c. Belgio, caso del Mandato d’arresto dell’11/4/2000 nei confronti dell’ex Ministro degli esteri Yerodia, § 58).
La regola (autonoma e distinta da quella sulla “immunità personale” o ratione personae, di cui beneficiano tradizionalmente alcuni organi dello Stato, temporaneamente ma per qualsiasi atto da essi compiuto finché rivestono il relativo ruolo, perciò insuscettibile di interpretazioni estensive o analogiche: Cass., Sez. III, 17/3/1997 n. 1011, P.M. in proc. Ghiotti, rv. 210861; Sez. III, 17/9/2004 n. 49666, P.M. in proc. Djukanovic, rv. 230222), costituisce il naturale corollario del principio, pure consuetudinario, sull’immunità “ristretta” degli Stati dalla giurisdizione straniera per la responsabilità civile derivante da attività di natura ufficiale, iure imperii, materialmente eseguite dai suoi organi. Ogni Stato, indipendente e sovrano, è libero di stabilire la propria organizzazione interna e individuare le persone autorizzate ad agire per suo conto, sicché, una volta determinate la qualità di organo e la sua competenza, le relative condotte individuali esprimono l’esercizio di una funzione pubblica e sono imputabili allo Stato, comportandone, senza indebite interferenze da parte dei tribunali di un altro Stato, solo la responsabilità per l’eventuale illecito internazionale da far valere nei rapporti fra lo Stato leso e lo Stato responsabile, a garanzia dell’assetto strutturale della stessa comunità e delle relazioni internazionali nel rispetto delle reciproche sovranità fra gli Stati (“par in parem non habet imperium/jurisdictionem”).
Va sottolineato altresì che l’immunità, quale regola generale (nei procedimenti civili), è enunciata sia nella Convenzione europea sull’immunità degli Stati del 16 maggio 1972, sia nella più recente Convenzione di New York sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 2 dicembre 2004 (entrambe non ratificate dall’Italia), redatte secondo il metodo della “lista” delle “commercial exceptions” con riguardo ad attività di tipo privatistico.
Restano comunque escluse dalla c.d. tort exception, e perciò dalla sfera di applicazione di entrambe le Convenzioni, le azioni o le omissioni produttive di lesioni personali e danni, imputabili alle forze armate di uno Stato straniero stanziate sul territorio di altro Stato, vieppiù in situazioni di conflitto armato, che continuano ad essere regolate da “the rules of customary international law” (v. l’art. 12 della Convenzione di New York, sulla base dell’opinione resa dal Prof. G. Hafner, Presidente del Comitato ad hoc incaricato di redigere la Convenzione, alla Sesta Commissione dell’Assemblea generale il 25/10/2005, e l’art. 31 della Convenzione di Basilea).
Il principio dell’immunità funzionale sembra, infine, espressamente confermato dallo Statuto della Corte penale internazionale (ratificato dall’Italia con legge 12/7/1999, n. 232), che, pur sancendo l’irrilevanza delle qualifiche ufficiali e delle immunità delle persone chiamate a rispondere davanti ad essa (art. 27), esige peraltro la cooperazione o il consenso dello Stato terzo o dello Stato d’invio per la rinunzia all’immunità e per la consegna da parte dello Stato territoriale della persona ricercata, come nel caso di militare appartenente al contingente dello Stato d’invio (art. 98).
6.- “Immunità funzionale”, “crimini internazionali” e “jus cogens”. E’ peraltro ricostruibile una più recente tendenza evolutiva, sia nella dottrina internazionalistica che in una parte ancora minoritaria della giurisprudenza interna, diretta a contrastare la più ampia applicazione della regola consuetudinaria sull’immunità dello Stato estero, relativamente alla responsabilità civile derivante dall’attività illecita compiuta iure imperii da un suo organo, oltre che sull’immunità dalla giurisdizione penale dell’individuo-organo autore del medesimo illecito, prospettandosene la “cedevolezza” laddove gli atti siano stati eseguiti in violazione di norme di diritto internazionale cogente, come in tema di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, per essersi l’individuo-organo reso colpevole di “crimini internazionali”, a garanzia di valori fondanti la comunità internazionale nel suo insieme.
D’altra parte, pur dovendosi dare atto della prevalenza dell’opposta tesi, che al più ammette deroghe solo di fonte convenzionale, come per il genocidio o la tortura, alla dottrina dell’immunità dello Stato, “as the current rule of public international law” (House of Lords, 14/6/2006, nel caso Jones, e 24/3/1999, nel caso Pinochet III; Corte suprema d’Irlanda, 15/12/1995, nel caso McElhinney; Corte suprema dell’Ontario, 1/5/2002, nel caso Bouzari; C. eur. d. uomo, 21/11/2001, Al Adsani c. Regno Unito, 21/11/2001, McElhinney c. Irlanda, 12/12/2002, Kalogeropoulou c. Grecia e Germania, 14/12/2006, Markovic c. Italia; C.I.G., 14/2/2002, caso del Mandato d’arresto, § 58; Trib. pen. intern. per la ex Yugoslavia, 10/12/1998, caso Furundžija), merita di essere sottolineato che nelle più attente decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo (21/11/2001, Al Adsani e 12/12/2002, Kalogeropoulou, citt.) si avverte, tuttavia, che ciò “does not preclude a development in customary international law in the future”.
Può pertanto ritenersi (condividendosi, sul punto, le lucide argomentazioni dei più recenti arresti delle Sezioni Unite civili: n. 5044 del 2004, nn. 14199 e 14201 del 2008, citt.) che sia “in via di formazione” una consuetudine internazionale la quale, in considerazione del carattere cogente e imperativo delle norme di diritto internazionale umanitario (“peremptory norms of general international law”, nella dizione dell’art. 53 della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati), che impongono il rispetto dei diritti umani fondamentali, e della concreta lesività di “valori universali che trascendono gli interessi delle singole comunità statali”, è diretta a limitare l’immunità dalla responsabilità civile dello Stato estero, il cui organo, pur nell’esercizio di un’attività iure imperii, come in situazioni belliche, si sia tuttavia reso autore di atti di gravità tale da “minare le fondamenta stesse della coesistenza tra i popoli” (Corte cost. di Ungheria, n. 53 del 1993), configurabili perciò come “crimini internazionali”.
D’altra parte, anche sul diverso piano del regime della responsabilità penale individuale per talune fattispecie di crimini contro l’umanità, crimini di guerra o atti di genocidio commessi dall’individuo-organo di uno Stato estero, pure nell’esercizio di funzioni ufficiali, questa Corte suprema ha affermato, in armonia con le risalenti decisioni pronunziate nei confronti di criminali nazisti dai Tribunali militari internazionali di Norimberga e Tokyo, dalla Corte suprema israeliana il 29/5/1962 nel caso Eichmann e da altre Corti supreme interne, l’imprescrittibilità dei reati e, in considerazione del criterio di collegamento della nazionalità delle vittime o del luogo di commissione del delitto ovvero in forza della universalità della giurisdizione ex art. 7 n. 5 cod. pen., ha ritenuto pacificamente sussistente la giurisdizione passiva o per taluni versi universale. E ciò sull’assorbente rilievo che l’esecuzione di un barbaro eccidio di prigionieri inermi, in violazione del diritto bellico e dei più elementari principi umanitari dello jus gentium, nel pur inadeguato quadro di riferimento vigente all’epoca dei fatti (Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 sulle leggi e gli usi di guerra terrestre e marittima), anteriore al regime delle regole del diritto umanitario bellico di cui alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e ai due Protocolli addizionali del 1977, recava ontologicamente “le stimmate” della riconoscibile contrarietà ai più elementari principi di umanità e della clamorosa criminosità dello sterminio di massa (Trib. Supr. Mil., 25/10/1952, Kappler; Cass., Sez. I pen., 16/11/1998 n. 1230, Priebke e Hass, per l’eccidio delle Fosse Ardeatine; Sez. I pen., 8/11/2007 n. 4060/08, Sommer, per la strage di Sant’Anna di Stazzema).
Dalla parallela e antinomica coesistenza nell’ordinamento internazionale dei due principi, entrambi di portata generale, consegue, come logico corollario, che l’eventuale conflitto, laddove essi vengano contemporaneamente in rilievo, debba risolversi sul piano sistematico del coordinamento e sulla base del criterio del bilanciamento degli interessi, dandosi prevalenza al principio di rango più elevato e di jus cogens, quindi alla garanzia che non resteranno impuniti i più gravi crimini lesivi dei diritti inviolabili di libertà e dignità della persona umana, “per il suo contenuto assiologico di meta-valore” nella comunità internazionale, rispetto agli interessi degli Stati all’uguaglianza sovrana e alla non interferenza, rappresentando la violazione di quei diritti fondamentali “il punto di rottura dell’esercizio tollerabile della sovranità”, in altre parole l’ “abuso di sovranità” dello Stato. 7.- La non configurabilità, nella specie, del “crimine di guerra”.
Occorre pertanto chiedersi, a questo punto, se nella vicenda omicidiaria de qua possa, o non, ravvisarsi un crimine internazionale, idoneo a paralizzare, insieme con l’immunità funzionale dell’imputato, l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice penale italiano, essendosi già rimarcato come l’applicazione delle norme di diritto internazionale umanitario, incluse quelle della Convenzione di Ginevra, prevista in via generale per le operazioni multinazionali di pace su mandato o autorizzazione delle Nazioni Unite (Bollettino del Segretario Generale, 6 agosto 1999), costituisca oggetto di specifiche clausole della Risoluzione del Consiglio di sicurezza n. 1546 del 2004 e dell’annessa lettera di Powell: donde l’irrilevanza, a tal fine, della definizione della situazione irachena, almeno a far data dalla fine dell’occupazione militare in senso stretto, come conflitto armato internazionale o non internazionale.
Si osserva in dottrina - e il rilievo va condiviso - che i crimini individuali di natura propriamente internazionale hanno una struttura complessa, nel senso che essi, anche se si sostanziano in fattispecie costituenti reati per il singolo ordinamento penale nazionale (es. omicidio), presentano, rispetto agli schemi di parte speciale dei vari codici penali, un quid pluris costituito da uno o più elementi tipici, soggettivi e oggettivi, atti a trasformarli qualitativamente e ad elevarli a rango autonomo di delitti lesivi degli interessi e dei valori della comunità internazionale nel suo insieme.
Dovendosi certamente escludere la configurabilità, nella specie, di un “crimine contro l’umanità”, inserito in un contesto di pratica diffusa e sistematica contro la popolazione civile di cui l’autore abbia consapevolezza (per la puntuale descrizione di questa figura, v. l’art. 7 dello Statuto della Corte penale internazionale, nonché Trib. pen. intern. per la ex Yugoslavia, 2/9/1998, caso Akayesu), mette conto di rilevare, quanto alla categoria dei “crimini di guerra”, che si qualificano tali le violazioni gravi (“grave breaches”) del diritto umanitario nei conflitti armati, a tutela della vita e dell’integrità fisica e psichica delle persone, appartenenti in particolare alla popolazione civile, che in quel contesto non prendono parte alle ostilità.
Crimini, quest’ultimi, che, già codificati nelle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e nei due Protocolli addizionali del 1977 (ratificati dall’Italia con leggi, rispettivamente, del 27/10/1951 n. 1739 e dell’11/12/1985 n. 762), sono altresì analiticamente indicati nel dettagliato elenco di cui all’art. 8 dello Statuto della Corte penale internazionale, e la cui repressione è affidata sia alle giurisdizioni penali interne degli Stati contraenti (sulla base dei tradizionali criteri della territorialità, della personalità attiva o passiva e della universalità), sia ai Tribunali penali internazionali ad hoc (per la ex Yugoslavia e per il Ruanda) sia alla Corte penale internazionale.
In particolare, mette conto di rilevare che: è espressamente vietato dall’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra, nei confronti dei civili e delle persone che non partecipano direttamente alle ostilità, l’omicidio in tutte le sue forme (“murder of all kinds”: § 1 a); l’art. 147 della IV Convenzione annovera nella lista delle infrazioni gravi, per le quali il precedente art. 146 impegna le Parti contraenti a deferirne gli autori ai propri tribunali o a consegnarli ad un’altra Parte interessata al procedimento (“aut dedere aut judicare”, secondo il principio di complementarità della giurisdizione), l’omicidio intenzionale (“wilful killing”); infine, l’art. 85 del I Protocollo addizionale qualifica infrazioni gravi gli atti commessi intenzionalmente che provochino la morte o lesioni gravi all’integrità fisica o alla salute di persone coinvolte in attacchi alla popolazione civile.
L’art. 8 dello Statuto della Corte penale internazionale statuisce, a sua volta, che s’intendono per “crimini di guerra” (per cui la Corte ha competenza a giudicare, in particolare se commessi come parte di un piano o di un disegno politico, o come parte di una serie di crimini analoghi commessi su larga scala) gli atti posti in essere contro le persone protette dalle norme delle Convenzioni di Ginevra, costituenti “gravi violazioni”, fra i quali l’ “omicidio intenzionale” (2)(a)(i) e, nei conflitti armati internazionali, “dirigere intenzionalmente attacchi contro civili che non partecipano direttamente alle ostilità” (2)(b)(i), o, nei conflitti armati non di carattere internazionale - escluse le situazioni interne di disordini e tensioni -, le gravi violazioni dell’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra, fra le quali gli “atti di violenza contro la vita e l’integrità della persona, in particolare tutte le forme di omicidio” (2)(c)(i), o “dirigere intenzionalmente attacchi contro civili che non partecipino direttamente alle ostilità” (2)(e)(i): fattispecie, queste, per le quali si esige, quale indefettibile elemento costitutivo, la consapevolezza da parte dell’autore del crimine delle circostanze fattuali che fissano lo stato di protezione della vittima secondo le leggi internazionali regolatrici del conflitto armato.
Orbene, ritiene questa Corte, ai fini della dedotta questione di giurisdizione, che sia evidente la sproporzione di scala fra la vicenda in esame (nei termini fattuali della imputazione omicidiaria contestata al M.L.L., come stabilizzatasi all’esito dell’udienza preliminare) e le caratteristiche soggettive ed oggettive del “crimine di guerra”, con riguardo sia alla definizione di “grave breaches” nelle citate norme di diritto umanitario dei conflitti armati, sia alle più recenti prassi giurisprudenziali interne (per l’Italia, v. G.u.p. Trib. mil. Roma, 9/5/2007, nel caso di uso delle armi da parte di militari italiani di stanza in Iraq contro un’ambulanza irachena e il personale addetto, con la conseguente uccisione di civili; per la Spagna, v. Tribunal Supremo, 11/12/2006 e Audiencia Nacional, 13/5/2008, nel caso dell’attacco intenzionale e indiscriminato da parte di un carro armato statunitense contro l’Hotel Palestine a Baghdad, ove erano notoriamente alloggiati giornalisti della stampa internazionale, con la conseguente uccisione di un giornalista spagnolo José Manuel Couso).
Sembrano ostare, in linea di principio, alla configurabilità di un odioso e inumano atto ostile contro civili e quindi del “crimine di guerra”, nonostante l’indubbia tragicità degli eventi lesivi in danno di persone estranee al conflitto armato iracheno, la concreta dimensione storico-fattuale dell’episodio (l’approssimarsi del veicolo, con a bordo i due funzionari italiani e la giornalista liberata, in avvicinamento veloce al posto di blocco per raggiungere l’aeroporto militare di Baghdad; la localizzazione del checkpoint all’intersezione fra due strade di accesso all’aeroporto, già oggetto di ripetuti attacchi terroristici; la situazione obiettiva di massima allerta dei soldati in servizio al posto di blocco, in attesa del corteo dell’ambasciatore USA in Iraq; l’ora notturna) e il carattere isolato e individuale dell’atto. E ciò a prescindere da ogni valutazione di merito, in questa sede inammissibile, circa la pur richiesta, piena consapevolezza - da parte dell’autore - delle circostanze fattuali dalle quali poter desumere lo statuto di protezione delle vittime, nonché in ordine alla effettiva necessità militare e alla proporzionalità dell’attacco, e alla corretta osservanza degli ordini e delle regole d’ingaggio.
D’altra parte, non può affatto considerarsi priva di significato la circostanza che neppure la pubblica accusa ha mai preso in considerazione l’ipotesi che nella vicenda in esame potesse configurarsi un “crimine di guerra”.
Il reato di omicidio di Calipari e di tentato omicidio di Carpani e Sgrena è stato invero qualificato dal pubblico ministero prima come delitto “comune” e poi come delitto “politico”, commesso dallo straniero all’estero a danno dello Stato e di cittadini italiani, con riferimento alle specifiche condizioni di procedibilità richieste, rispettivamente, dagli artt. 10 e 8 cod. pen., ma non con riguardo allo spazio di tutela incondizionata consentito dal principio di universalità di cui all’art. 7 n. 5 cod. pen., qualora si fosse invece ravvisata la natura internazionale del delitto secondo la IV Convenzione di Ginevra del 1949.
Nessun cenno al preteso “crimine di guerra” è dato altresì rinvenire nei pur diffusi e articolati motivi di ricorso per cassazione proposti avverso la sentenza impugnata dal Procuratore Generale e dal Procuratore della Repubblica di Roma (cui l’Avvocatura dello Stato si è limitata a prestare adesione).
8.- Le statuizioni decisorie.
A conclusione delle suesposte considerazioni, riguardo al quesito sottoposto al vaglio di questa Corte (enunciato retro, sub 1), può affermarsi il seguente principio di diritto:
“Non sussiste la giurisdizione penale dello Stato italiano né quella dello Stato territoriale, bensì quella esclusiva degli USA, Stato di invio del personale militare partecipante alla Forza Multinazionale in Iraq, in applicazione del principio di diritto internazionale consuetudinario della ‹‹immunità funzionale›› o ratione materiae dell’individuo-organo dello Stato estero dalla giurisdizione penale di un altro Stato, per gli atti eseguiti iure imperii nell’esercizio dei compiti e delle funzioni a lui attribuiti: principio non derogabile, nella specie, per l’assenza nelle circostanze e modalità del fatto contestato delle caratteristiche proprie della ‹‹grave violazione›› del diritto internazionale umanitario, con particolare riguardo alla non configurabilità nel caso concreto di un ‹‹crimine contro l’umanità›› o di un ‹‹crimine di guerra››”.
Di talché, attesa la priorità esclusiva della giurisdizione degli Stati Uniti in ordine alla fattispecie criminosa de qua, resta assorbita la questione riguardante la verifica dell’avvenuto, effettivo, esercizio da parte dello Stato d’invio, della giurisdizione penale nei confronti del M.L.L.: giurisdizione che, secondo il parere del Prof. Lederer, sarebbe stata comunque attivata nei termini e con le modalità propri del sistema di giustizia penale militare statunitense, concludendosi con una pronuncia analoga ad una sorta di provvedimento di non luogo a procedere, sull’assunto che il soldato avesse agito (“cercando di neutralizzare il veicolo che si stava avvicinando e che era stato percepito dalle forze come una minaccia”: nota 19/4/2006 del direttore della divisione criminale, ufficio affari internazionali, del Dipartimento della Giustizia USA) in conformità alle regole d’ingaggio previste per le operazioni di guardia e di controllo al posto di blocco.
Risulta parimenti assorbita l’ulteriore questione in rito, anch’essa pregiudiziale, cui si fa cenno nella narrativa della sentenza impugnata e che è desumibile dagli atti, circa la sussistenza, per il delitto in esame, di una valida condizione di procedibilità, pur dovendo la Corte sottolineare l’anomalia procedimentale per cui, a fronte della formale richiesta 8/3/2005 del Ministro della Giustizia di procedere contro ignoti in ordine a tale delitto, ai sensi dell’art. 10 cod. pen. (delitto “comune” commesso dallo straniero all’estero, per cui occorre l’ulteriore presupposto che egli si trovi nel territorio dello Stato), il G.u.p. del Tribunale di Roma, nel disporre il rinvio a giudizio del M.L.L. con decreto del 7/2/2007, ha qualificato lo stesso, secondo la concorde prospettazione del P.M. e delle PP.CC. circa l’avvenuta lesione di interessi politici dello Stato, sottesi all’incarico governativo di ottenere la liberazione della giornalista rapita, come delitto “oggettivamente politico”, per la cui procedibilità, a differenza del delitto comune, l’art. 8 cod. pen. non prescrive, oltre la richiesta del Ministro della Giustizia, la necessaria presenza dello straniero nel territorio nazionale.
In definitiva, la declaratoria di non doversi procedere nei confronti del M.L.L. per difetto della giurisdizione penale italiana va confermata, pur con le opportune rettificazioni, nei termini suesposti, del percorso giustificativo delle ragioni della decisione impugnata.
Al rigetto dei ricorsi della parte pubblica e della parte civile segue la condanna di quest’ultima al pagamento delle spese del procedimento, a norma dell’art. 592, comma 1 c.p.p..
P. Q. M.
Rigetta i ricorsi e condanna la ricorrente parte civile al pagamento delle spese processuali.
Così deliberato in Roma il 19 giugno 2008.
Il Consigliere estensore Il Presidente
(Giovanni Canzio) (Paolo Bardovagni)
Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2008
|