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 Tribunale di Milano, ordinanza 25 gennaio 2005, dott. Tacconi

Uno stralcio da un'ordinanza del Tribunale di Milano, che sancisce l'inammissibilità della costituzione di parte civile in un procedimento ex d.lgs. 231/01.

Tribunale Milano
Ordinanza
 
(omissis)
Il problema sollevato nelle dette richieste è se è ammissibile e legittima la costituzione di parte civile nei confronti di ente chiamato a rispondere quale responsabile amministrativo ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001.
Punto necessario di partenza è la disciplina prevista dai codici penale e di procedura penale in materia di esercizio dell'azione civile nel processo penale.
Gli artt. 74 c.p.p. e 185 c.p. prevedono che, ai fini delle restituzioni e del risarcimento del danno, la legittimazione attiva spetta al danneggiato (o successori universali) dal reato, quella passiva all'imputato/colpevole ed al responsabile civile, ossia al soggetto che, in base alle leggi civili, deve rispondere per il fatto del colpevole.
L'ambito di applicazione dell'istituto è, pertanto, ben delineato dalle dette norme: presupposti sono la commissione di un reato, l'esistenza di un danno patrimoniale o non patrimoniale quale conseguenza diretta ed immediata dal reato, la sussistenza di una responsabilità disciplinata dalla normativa civilistica in capo a soggetto diverso dal colpevole.
Già il richiamato alla detta disciplina evidenzia come l'ente chiamato a rispondere nel processo penale ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001 non è soggetto passivo di una pretesa risarcitoria avanzata dalla parte civile.
Esso, infatti, non è né l'autore del reato né soggetto che, sulla base del detto D.Lgs., può essere chiamato a rispondere civilmente per il fatto del colpevole.
Quest'ultima responsabilità potrà sussistere, ove ne ricorrano i presupposti, nella veste di responsabile civile ed in base alla disciplina appositamente dettata dal codice per quest'ultimo soggetto processuale.
A supporto di questa conclusione vi è la disciplina prevista dal D.Lgs. n. 231/2001.
Essa si riferisce alla responsabilità amministrativa dell'ente per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato.
Ripetutamente la normativa in questione parla di responsabilità amministrativa: nell'intitolazione del Capo I, delle Sezioni I e III, del Capo III negli artt. 2, 3, negli artt. 9 e 22, 34, 36, 37, 38, 43, 44, 45, 55, 56, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 66, 69, 71, 74, 78, 83, 85, nonché negli artt. 1, 2, 3, 4, 7 delle relative disposizioni regolamentari (norme tutte dove si parla di illeciti amministrativi dipendenti da reato e di sanzioni amministrative).
Accertata la detta responsabilità amministrativa non vi è spazio perché l'ente, sulla base della stessa, possa essere chiamato a rispondere civilmente per le restituzioni od il risarcimento del danno.
Sicuramente non può farlo sulla base degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. in quanto, lo si ripete, l'ente non è autore del reato ma di un comportamento differente e ben distinto dal medesimo. Questa distinzione emerge con tutta evidenza dagli artt. 5 e 6 del decreto laddove vengono individuati i soggetti che, commettendo il reato, fanno scattare la responsabilità dell'Ente e gli oneri a carico di quest'ultimo per evitare la condanna. Distinzione che ancora è sottolineata nell'art. 59, di cui si dirà tra poco.
D'altro canto il dettato normativo del D.Lgs. n. 231/2001 da un lato non prevede né richiama l'istituto della costituzione di parte civile, fatto significativo posto che la detta normativa disciplina molteplici istituti paralleli a quelli penali e processuali (si pensi, ad esempio, al principio di legalità, alla successione delle leggi, al sistema sanzionatorio, a quello cautelare, alla prescrizione, alla contumacia, alle fasi delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare, ai riti speciali), d'altro lato specifiche disposizioni di legge che nella legge processuale penale menzionano la parte civile, o comunque ad essa fanno riferimento, sono ribadite nel decreto in questione senza alcun riferimento a quest'ultimo soggetto processuale.
Ed infatti:
l'art. 54 del decreto, relativo al sequestro conservativo, prevede tassativamente che possa essere richiesto dal P.M. in relazione alla dispersione delle garanzie per il pagamento della sanzione pecuniaria. Si tratta di norma che ricalca l'art. 316 c.p.p. che consente analoga richiesta alla parte civile in relazione alle obbligazioni civili derivanti da reato.
L'art. 54 non solo non prevede alcun potere in capo alla parte civile ma - a conferma che non si tratta di norma che semplicemente omette di prevedere un potere di una parte processuale che comunque potrebbe essere presente nel procedimento contro l'ente, ma di norma che segnala inequivocabilmente che la detta parte non può agire nei confronti dell'ente imputato dell'illecito amministrativo - nel richiamare espressamente la disciplina del sequestro conservativo del c.p.p., con riferimento all'art. 361 c.p.p. limita il richiamo al relativo quarto comma, omettendo il comma secondo (ossia quello che consente la richiesta anche alla parte civile) ed il comma terzo (che stabilisce che il sequestro richiesto dal Pm giova anche alla parte civile).
Trattandosi di norme di rilevante importanza per detta parte, in quanto dirette a garantire il soddisfacimento proprio della pretesa civilistica, ossia il risarcimento, il fatto che non siano ribadite nel D.Lgs. n. 231/2001 non può essere considerata una mera dimenticanza del legislatore: si tratta invero di una precisa ed inequivocabile scelta legislativa nel senso di non prevedere nel procedimento in questione la parte civile.
Né può dirsi che la lacuna è colmabile dall'art. 34, ossia dalla norma affermante che, per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato, si osservano le norme previste dal Capo III del decreto (relativo al procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative) e le disposizioni processuali penali in quanto compatibili.
Da un lato, quest'ultimo inciso comporta che non tutti gli istituti non previsti dal decreto possano applicarsi «tout court», al procedimento amministrativo.
Ma vi è di più: il concetto di compatibilità comporta che l'eventuale ricorso all'analogia, o meglio, la trasposizione di un istituto dalla sede di un corpo normativo ad un'altra debba essere vagliata con particolare attenzione interpretativa.
Questa particolare attenzione determina che la detta trasposizione non è possibile che venga effettuata in un blocco normativo in cui alcun cenno, neanche indiretto, vi è all'istituto in questione, anzi, una delle facoltà più significative attribuita alla parte civile (la detta possibilità di richiedere il sequestro conservativo) viene addirittura esclusa.
Ma non solo nessuna traccia vi è della parte civile nella disposizione relativa al sequestro conservativo, ma anche in altre norme.
Così nella Sezione I del Capo II, dove si fa riferimento alla responsabilità patrimoniale dell'ente, la norma (art. 27) sancisce che l'ente risponde con il suo patrimonio o con il fondo comune dell'obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria (nessun riferimento, quindi, al danno risarcibile).
L'art. 69 prevede che, in caso di condanna, il Giudice applica all'ente le sanzioni e lo condanna al pagamento delle spese processuali. Nessun riferimento al risarcimento del danno laddove il c.p.p. prevede una articolata normativa in tema di decisione sulle questioni civili (artt. 538 ss. c.p.p.).
In tema di archiviazione, poi, l'art. 58 non prevede, così come l'art. 408 comma 2 c.p.p., alcun avviso alla persona offesa della determinazione del P.M. di procedere alla archiviazione del procedimento (laddove la persona offesa è frequentemente anche danneggiata dal reato ed è quindi una potenziale parte civile che ha interesse all'esercizio dell'azione penale onde poi esercitare l'azione).
Sulla stessa linea si pone l'art. 61, comma 2, del decreto che stabilisce ciò che deve contenere, a pena di nullità, il decreto che dispone il giudizio nei confronti dell'ente: alcun riferimento viene fatto alla indicazione di parti differenti dall'ente, laddove il corrispondente art. 429, comma primo, lett. a), c.p.p. stabilisce che oltre alle generalità dell'imputato il decreto deve anche indicare quelle delle altre parti private (tra cui, appunto, la parte civile).
Particolarmente significativa la norma di cui all'art. 59 del decreto: essa prevede, attraverso il rinvio all'art. 405 c.p.p., che la contestazione da parte del P.M. all'ente dell'illecito amministrativo viene effettuata in via ordinaria mediante la richiesta di rinvio a giudizio. Detta contestazione deve contenere gli elementi identificativi dell'ente, l'enunciazione in forma chiara e precisa del «fatto» che può comportare applicazione delle sanzioni amministrative, l'indicazione del «reato» da cui l'illecito dipende e dei relativi articoli di legge e delle fonti di prova.
Da un lato manca l'indicazione della persona offesa, laddove il corrispondente art. 417 c.p.p. la prevede.
Ma ancor più significativo, a conferma della netta distinzione tra comportamento - non reato addebitabile all'Ente e comportamento - reato addebitabile alla persona fisica/imputata, è che la norma distingue espressamente il fatto da cui deriva la responsabilità dell'ente dal reato. Distinzione che, ovviamente, non è necessaria in tema di responsabilità penale in quanto vi è corrispondenza e coincidenza tra fatto e reato, tanto è che l'art. 417 c.p.p. parla di enunciazione in forma chiara e precisa del «fatto».
Il detto art. 59 secondo comma del decreto dà chiara conferma, pertanto, che una cosa è il reato, altra cosa è il fatto addebitabile all'ente.
Ed ancora e da ultimo: il decreto 231 intitola la Sezione II del Capo III «soggetti, giurisdizione e competenza» ed in essa non vi è alcuna menzione della parte civile, differentemente da quanto avviene nel libro I del c.p.p. (parimenti dedicato ai soggetti del procedimento) in cui vi è compiutamente disciplinata la detta parte.
A sostegno della tesi opposta, il richiamo alle disposizioni del decreto che prevedono la possibilità dell'Ente che abbia risarcito il danno di ottenere una riduzione della sanzione pecuniaria (art. 12) e di non essere sottoposto a sanzione interdittiva (art. 17) e quello all'art. 35 che estende all'ente la disciplina processuale dell'imputato, non sono pertinenti.
La possibilità risarcitoria dell'Ente, evidentemente finalizzata ad una sanzione inferiore ed a non essere sottoposto a sanzione interdittiva, è argomento neutro.
La seconda disposizione, poi, contiene la precisazione che la disciplina processuale dell'imputato è estesa all'Ente solo se compatibile.
Questa delimitazione non può essere intesa unicamente con riferimento a quegli istituti che, evidentemente, non potrebbero trovare applicazione per gli enti (si pensi, ad esempio, ai provvedimenti limitativi della libertà personale) e per cui, quindi, non ci sarebbe alcun bisogno di specificarne l'inapplicabilità, ma deve essere letta alla luce del sistema complessivo e secondo i criteri in precedenza evidenziati.
In sostanza gli elementi a sostegno dell'inammissibile esperimento dell'azione civile nei confronti del responsabile amministrativo sono tali che comportano, appunto, l'incompatibilità di cui parla l'art. 35 del decreto.
Va aggiunto che l'art. 35 limita il richiamo alle disposizioni processuali, laddove l'art. 185 c.p. non può certamente considerarsi pura norma processuale.
Né da ultimo può invocarsi l'art. 8 del decreto e sostenersi che negare la costituzione di parte civile nei confronti dell'Ente significherebbe, nei casi previsti da detta norma, privare il danneggiato della possibilità di rivalersi nel processo penale.
La detta norma, infatti, ancora conferma la distinzione tra reato e fatto generatore dell'illecito amministrativo con le conseguenze già ampiamente evidenziate.
(omissis)
Milano, 25 gennaio 2005.
Il Giudice, dott. Tacconi
 
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