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 Giuseppe Dacquì, Al di là di ogni ragionevole dubbio

Brevi riflessioni su un paradigma non ancora sufficientemente definito nella cultura giuridica italiana

Al di là di ogni ragionevole dubbio. Cosa vuol dire essere convinti della responsabilità dell’imputato o esserne certi?
 
Convinzione e certezza etimologicamente sono parole diverse. Viaggiano su binari separati che spesso possono portare allo stesso traguardo.
 
Ma nel processo accusatorio non bisogna comunque e sempre arrivare al traguardo.
 
La corsa può arrestarsi anzi deve arrestarsi quando la convinzione non è ammantata dalla certezza.
 
Quando il popolo di una nazione si divide su un fatto omicidiario clamoroso tra innocentisti e colpevolisti è perché si lascia ammaliare dai mass-media che gli offrono informazioni parziali e comunque molto spesso non processuali.
 
E in uno di questi schieramenti non può appartenere il giudice poiché egli non deve manifestare “convinzioni” ma certezze.
 
Ed è qui il dramma. Quando si è certi? Quando si è sicuri di aver attraversato il binario dell’<<al di là di ogni ragionevole dubbio>> ? Si è ripetuto più volte che libero convincimento non è arbitrio. “Il giudice deve dare conto nella valutazione della prova dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”(ex art. 192 c.p.p.).
 
La nota sentenza della Cass. Pen. I Sez. del 14 Maggio 2004, Grasso, offre lo spunto per parlarne anzi per riparlarne.
 
Il controllo affidato alla Corte di Cassazione sulla struttura e sulla congruenza logica della motivazione involge anche l’osservanza del principio dell’<<oltre il ragionevole dubbio>>, che non può dirsi certamente rispettato quando la pronuncia di condanna si fondi su un accertamento giudiziale non sostenuto dalla certezza razionale, ossia da un grado di conferma così elevato da confinare con la certezza”.
 
Già con la sentenza Franzese delle Sezioni Unite si era dato ossigeno al principio “dell’al di là ogni ragionevole dubbio” – che non può significare una ricostruzione del fatto più “probabile” rispetto ad un’altra.
 
La ricostruzione del fatto, attraverso la valutazione rigorosa e logica della prova, non può che essere quella che esclude in maniera categorica altre ipotesi alternative.
 
Si può essere convinti della responsabilità dell’imputato e non esserne certi e ciò perché la prova non è sufficiente o contraddittoria.
 
Ma in tale contesto, per principio codificato, non si può condannare. E questo, purtroppo, non spesso accade poiché il giudice, talvolta, lasciandosi trasportare emotivamente dalla voglia di non farsi “beffare” ricostruisce i pezzi del mosaico in maniera tale da renderlo “verosimile” al suo convincimento.
 
Ma la storia della vita insegna che il diavolo fa le pentole e talvolta dimentica i coperchi. Tutto si può affermare senza aver l’obbligo di dimostrare.
 
Qualcuno crederà, altri no. E non accade nulla. Accade, invece, qualcosa ed è un disastro quando nel processo il giudice afferma senza logicamente dimostrare.
 
Da qui l’insegnamento dei Supremi Giudici. Il dibattito sul tema si è infiammato, alimentato anche dai pronunciamenti d’oltreoceano.
 
Federico Stella nella sua splendida opera “Modernità e giustizia” ricorda il caso di O. J. Simpson risoltosi con la proclamazione d’innocenza.
 
Li è stato possibile. Qui da noi, sia pure sotto la vigenza del vecchio codice, (sono cambiate le regole ma i risultati rimangono immutati) il caso Fenaroli, per esempio, si è concluso con il pollice verso.
 
Eppure leggendo e rileggendo Antonio Padellaro che ha rivisto, sia pure in chiave giornalista e dopo molti anni, il caso (“Non aprite agli assassini”) sembrerebbe che il ragionevole dubbio in quell’occasione non sia stato superato.
 
Scrive Padellaro: “Che dire poi dei magistrati dai modi vessatori e inclini al disprezzo per i diritti della difesa? Dei funzionari di polizia, spergiuri per compiacenza nei confronti dei ministri? Dei giornalisti, appiattiti sulle versioni ufficiali e sempre lì a rifiutare da che parte tirava il vento?
Sono dunque tornato al punto di partenza per constatare che l’innocenza e la colpevolezza degli individui dipendono, più che altro, dai punti di vista, dallo spirito dei tempi e da un grado più o meno elevato di comprensione umana.
Cosa ci aspettiamo dopo questa illuminata sentenza della Cassazione? Una rivoluzione copernicana? Forse, semplicemente il rispetto delle regole: – che l’arbitrio non sia mai “certezza”. Non foss’altro perché la “logica” non sia vinta dalla “probabilità”. 
 
                       
- avv. Giuseppe DACQUI’ - febbraio 2008
(riproduzione riservata)
 
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