(nota a decreto Corte d’ Appello Torino 31.10.2007, R.L.)
Con decreto del 31.10.2007 la Corte d’Appello di Torino è intervenuta su di un’importante questione relativa all’applicabilità delle misure di prevenzione patrimoniali, discostandosi dall’orientamento interpretativo prevalente in alcuni Tribunali (tra cui quelli di Torino e Milano) e presente in alcune pronunce della Corte di Cassazione.
Il procedimento di prevenzione in esame si riferiva ad una richiesta di confisca, a seguito di sequestro cautelativo, di svariati beni appartenenti a R.L., una donna più volte condannata per il traffico di sostanze stupefacenti.
La richiesta della Procura di procedere alla confisca dei beni sequestrati incontrava l’opposizione dei difensori di R.L. , i quali eccepivano che la norma di cui all’art. 14 L.55/1990 non individua tra i reati richiamati quello relativo allo spaccio di sostanze stupefacenti.
E’ noto come la possibilità di applicare le disposizioni della normativa antimafia di cui alla L. 575/1965, ivi comprese le misure di prevenzione di carattere patrimoniale, ai soggetti di cui ai nn. 1 e 2 dell’art. 1 della L. 1423/1956, vale a dire ai soggetti destinatari delle “normali” misure di prevenzione emesse nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità, derivi senza possibilità di equivoco dal chiaro disposto di cui all’art. 19 della L.152/1975.
Peraltro, l’art. 14 della L. 55/1990 – vale a dire una disposizione contenuta in un provvedimento legislativo cronologicamente successivo a quello testé citato - sembra limitare tale possibilità alle sole ipotesi in cui l’attività delittuosa da cui si ritiene derivino i proventi illeciti sia una di quelle specificatamente indicate nel medesimo articolo, vale a dire “una di quelle previste dagli articoli 600, 601, 602, 629, 630, 644, 648-bis o 648-ter del codice penale, ovvero quella di contrabbando”. Va detto che nel testo originario dell’art. 14 compariva unicamente il riferimento all’art. 630 c.p.. Solo attraverso successive interpolazioni la norma è stata così modificata, prima, dall'art. 11, d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, conv. nella L. 18 febbraio 1992, n. 172, poi, dall'art. 9, L. 7 marzo 1996, n. 108, infine, dall'articolo 7 L. 11 agosto 2003, n. 228.
A sostegno della propria opposizione, la difesa, nel procedimento in esame, richiamava una sentenza della Suprema Corte del 1994 (Cass. Pen. , sez. VI, 14.7.1994, ric. Maisto), con la quale la Corte aveva affermato che “le misure di prevenzione di carattere patrimoniale.. non possono applicarsi a chi è sospettato di finanziare le proprie attività con il danaro ricavato dal traffico di stupefacenti da lui svolto”. A parere della Corte, “tali misure sono essenzialmente dirette a contrastare la criminalità organizzata, colpendola nei suoi aspetti economici, non già ad impedire in via generale il reimpiego del denaro di provenienza illecita da parte di persone socialmente pericolose in senso generico”. Esse, pertanto, “non possono estendersi oltre i casi espressamente previsti” dal disposto di cui all’art. 14, comma 1, L.55/1990.
Il Tribunale si dimostrava però di diverso avviso e, richiamando a sua volta ampia giurisprudenza di legittimità (“Cass. Pen, 11.10.1995, rv.202509; Cass. Pen. 25.3.1997, rv.207019; Cass. Pen. 21.9.1999, Gangi; Cass. Pen., sez. V, 25.1.1999, ric. Galasso”), accoglieva la richiesta di confisca, con decreto emesso in data 31.5.2007.
Per motivare la propria decisione, il Tribunale citava ampi passaggi della sentenza 19.11.2003 n.1832 emessa dalla V sezione penale della Suprema Corte, cui riteneva di uniformarsi integralmente.
In tale pronuncia, la Corte di Cassazione, dopo aver rilevato che il rinvio alla legislazione antimafia disposto dall’art. 19 L.152/1975 ha carattere formale e non meramente materiale, con la conseguenza che si estende a tutte le modifiche successivamente introdotte alla predetta normativa, era passata ad esaminare i rapporti intercorrenti con la successiva norma di cui all’art. 14 L.55/1990.
A parere dei giudici di legittimità “la normativa richiamata.. non ha innovato quella precedente, ma ha soltanto voluto rendere più agevole l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali ogniqualvolta si ritenga che il proposto abbia tratto provento dalle specifiche attività delittuose elencate nell’art. 14 della legge 55/90. Nei casi previsti da tale legge non vi è, quindi, bisogno di dimostrare che il soggetto vive abitualmente di tali proventi, essendo sufficiente che il bene da sequestrare e poi confiscare costituisca il provento di uno di quei reati. Per l’applicazione di misure di prevenzione patrimoniali con riferimento ad illeciti diversi…vi è invece il bisogno che il proposto viva, almeno in parte, dei proventi dei delitti commessi. Trattasi quindi di istituti diversi e di conseguenza la normativa precedente, che non è stata abrogata espressamente, non si può ritenere implicitamente abrogata”.
Nella motivazione della sentenza il Tribunale recepiva acriticamente tali argomentazioni, senza aggiungere alcuna personale osservazione e limitandosi laconicamente ad affermare che quello citato appariva un punto di vista interpretativo ormai consolidato nella giurisprudenza di merito e di legittimità.
I giudici di primo grado, sulla falsariga della citata sentenza della Corte di Cassazione, si incamminavano, pertanto, spericolatamente sulla distinzione tra casi nei quali è necessario provare che il soggetto viva dei proventi criminosi e casi in cui tale circostanza è ritenuta provata in via presuntiva dal legislatore.
A questa ricostruzione, con un decreto emesso in data 31.10.2007, si è sottratta la Corte d’Appello di Torino, adita dai difensori di R.L.
Per motivare la sua decisone, la Corte è partita, anzitutto, dalla collocazione sistematica della norma in questione, collocata nel capo II della L 55/1990, dedicato a definire “l’ambito di applicazione delle leggi 31.5.1965 n. 575 e 13.9.1982, n.646”, per rilevare come, secondo i primi commentatori di tale riforma, la stessa avesse inteso limitare l’applicazione delle norme in tema di misure di prevenzione patrimoniali “solo ad alcune categorie di soggetti ritenuti pericolosi…allo scopo di migliorarne l’efficacia e la funzionalità”. In particolare con tale innovazione legislativa, secondo la Corte, il legislatore aveva ritenuto opportuno non affidare l’individuazione di tali soggetti alla discrezionalità del giudice, ma aveva, al contrario, “tassativamente individuato, elencandole compiutamente, le attività delittuose, così stabilendo una sorta di presunzione iuris et de iure di pericolosità qualificata” per quelle categorie di soggetti autori di attività delittuose, dettagliatamente indicate nella norma in esame.
A riprova di tale ricostruzione, la Corte ha ricordato come l’elencazione dei delitti rilevanti, contenuta nel richiamato art. 14, “era stata via via arricchita con..successivi interventi legislativi”, che muovevano dall’originaria previsione dell’art. 630 c.p..
Quanto, in particolare, all’inserimento in tale elenco della fattispecie di cui all’art. 644 c.p., la Corte territoriale ha segnalato come proprio in riferimento a tale originaria mancata inclusione era stata sollevata una questione di legittimità costituzionale da parte del Tribunale di Crotone [1] per contrasto con il parametro costituzionale di cui all’art.3, “per irragionevolezza e disparità di trattamento di situazione tra loro parificabili”, posto che, fra le attività che realizzano l’intento che il legislatore voleva evitare con la riforma di cui alla L.55/1990, doveva ritenersi “sicuramente compreso il delitto di usura, per la sua funzione di riutilizzo altamente remunerativo di capitali provenienti da attività poste in essere dalle associazioni mafiose”. A fronte dell’entrata in vigore della legge 7marzo 1996, n. 108, che all’art. 9 aveva proprio espressamente incluso nell’elenco di cui al citato art. 14 il reato di usura, la Corte Costituzionale aveva disposto la restituzione degli atti al giudice remittente [2].
Orbene, secondo la pronuncia della Corte d’Appello di Torino tale vicenda era indicativa della circostanza di come sia l’eccezione di incostituzionalità proposta che la risposta del Giudice delle leggi “si.. (fossero) mosse in un’ottica secondo la quale la elencazione di attività delittuose di cui all’art. 14 L. 55/1990 ha carattere tassativo e le eventuali lacune di tutela non possono essere colmate dall’interprete ma devono essere valutate ed eventualmente colmate dal legislatore”.
Proprio in ossequio alle osservazioni dottrinali sopra richiamate e, più in generale, alla ratio legis della norma in questione e alla tassatività dei riferimenti ai tipi di attività delittuose che, per presunzione legislativa, sono parificate alla delinquenza di tipo mafioso ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, la Corte territoriale ha concluso nel senso di non poter condividere l’opzione interpretativa fatta propria dal Tribunale.
Il riferimento alle attività delittuose elencate nel più volte richiamato art. 14, secondo la Corte d’Appello, infatti, “sembra… comportare una restrizione rispetto all’ambito di casi ricavabile delle fattispecie di pericolosità di cui ai..numeri 1 e 2 dell’art. 1 L.142/1956: fattispecie queste ultime che sono richiamate nella loro interezza, e dunque comprendendo nel richiamo gli elementi di fattispecie che consistono nella dedizione abituale a traffici delittuosi (n°1) e nell’abituale
anche solo parziale sostentamento della vita con i proventi di delitti(n°2)”.
Ineccepibile pare allo scrivente il percorso argomentativo con cui la Corte territoriale ha disatteso le conclusioni cui erano pervenuti i giudici di primo grado.
A fronte di un dato letterale limpido e inequivoco, che riduce il campo di applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali contenute nella legge antimafia ad un ristretto gruppo di attività delittuose specificatamente indicate, la distinzione introdotta dal Tribunale appare arbitraria e artificiosa. Non solo, essa, con una evidente acrobazia interpretativa, finisce per obliterare il contenuto stesso della norma.
Al contrario, pienamente condivisibile appare l’assunto sostenuto dalla Corte d’Appello, relativo alla tassatività dell’elenco contenuto nell’art. 14, che non sembra consentire né sul piano letterale né su quello sistematico allargamenti interpretativi che finiscono per snaturare le scelte del legislatore.
Sempre in riferimento alla decisione del Tribunale, giova ancora segnalare come sia del tutto erroneo il presupposto da cui lo stesso è partito quando ha inquadrato la propria decisone nel filone largamente maggioritario della Corte di legittimità.
Se si ha, infatti, l’accortezza di confrontare le sentenze della Suprema Corte citate dal Tribunale non con le massime ma con la parte motiva delle stesse, ci si accorge dell’errore nel quale è incorso il Tribunale.
La prima sentenza richiamata (Cass. Pen., sez. I, 26.9.195, in realtà depositata il 1°.10.1995, n.4585) riguarda, infatti, un caso di estensibilità delle misure di prevenzione personali, e non patrimoniali, antimafia ai soggetti indicati nei numeri 1 e 2 della L. 1423/1956 (e, più in particolare, la possibilità di proporre e comminare tali misure anche senza la comunicato il preventivo avviso orale).
La seconda (Cass. Pen., sez. I, 25.3.1997, n. 6825 ) e la terza (Cass. Pen., sez. I, 21.9.1999, n. 5063) si riferiscono, invece, al diverso istituto della misura di sicurezza della cauzione e, nuovamente, quindi, non alle misure di prevenzione patrimoniali.
La quarta, infine (Cass. Pen. sez. V, 12.1.199, depositata in realtà il 25.1.199, n. 38), nell’affrontare il problema dell’applicabilità della normativa antimafia in tema di confisca a beni acquistati precedentemente all’entrata in vigore della legge 55/1990, senza che, a tale data, i relativi procedimenti di prevenzione fossero già pendenti, paradossalmente sembra sostenere, relativamente al tema che qui interessa, l’esatto contrario di quanto asserisce il Tribunale.
In tale pronuncia, infatti, la Corte di Cassazione si limita a rilevare, incidentalmente, come l’art. 14 della L.55/1990 abbia “reso possibile la confisca dei beni anche dei soggetti dichiarati pericolosi ai sensi dei nn. 1 e 2 del primo comma dell'art. 1 della legge 27 dicembre 1956 n. 1423, quando i beni siano provento di attività delittuose riconducibili agli artt. 629 630, 644, 648 bis e 648 ter c.p. ed al contrabbando”, mentre nella sua originaria stesura questa norma limitava l'applicabilità dell'istituto alle persone rientranti nelle ipotesi di cui al n. 2 del primo comma dell'art. 1 L. 1423/56 citata e soltanto se i beni fossero frutto dei proventi dei sequestri di persona.
Al di là delle errate indicazioni, quello compiuto dal Tribunale appare, in ogni caso, come un tentativo di legittimare la propria decisione attraverso l’apparente ossequio ad un principio di autorità sul piano interpretativo (le massime della Cassazione), come non è raro vedere in molti provvedimenti di merito. Ciò, però, ha finito per appiattire i criteri di valutazione del giudicante sulle massime richiamate, senza che il Tribunale abbia cercato di esprimere un proprio autonomo punto di vista ermeneutico sulla questione di diritto sottoposta al suo giudizio.
La decisone della Corte d’Appello, al contrario, appare non solo di diverso “spessore” interpretativo ma, soprattutto, frutto di una personale sforzo di ricostruzione sistematica e di valutazione delle norme che si sottrae al ripetitivo(e nel caso di specie, oltretutto, errato) richiamo alla giurisprudenza di legittimità.
avv. Claudio Novaro - febbraio 2008
(riproduzione riservata)
[1] Tribunale di Crotone, ordinanza n. 465 dell’8.2.1996.
[2] Corte Costituzionale,ordinanza n.81 del 3.4.1997.
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