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 Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 18 ottobre 2007 (dep. 21 novembre 2007), n.43076

Con le modifiche apportate all'art. 1 L.Fall. (ex d.lgs. 5/2006) in tema di soggetto assoggettabile a fallimento, si e' verificata una successione di norme penali nel tempo regolata dall'art. 2 c.p.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NARDI Domenico - Presidente
Dott. FERRUA Giuliana - Consigliere
Dott. AMATO Alfonso - Consigliere
Dott. MARASCA Gennaro - Consigliere
Dott. FUMO Maurizio - Consigliere



ha pronunciato la seguente:

 
SENTENZA


sul ricorso proposto da R.D., nato il ..., avverso la sentenza del 16/03/2007 della Corte d’Appello di Venezia;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Maurizio Fumo;
udito il P.G. in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. Febbraro Giuseppe che ha chiesto rigettarsi il ricorso.

Osserva:

FATTO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
RICORSO

La Corte di appello di Venezia, con sentenza 16.3.2007, ha confermato la pronunzia di primo grado, con la quale il GUP Treviso (rito abbreviato) aveva condannato R.D., con attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante e ritenuta la continuazione, alla pena di anni 2 mesi 4 reclusione.
Il R. è imputato di bancarotta fraudolenta per distrazione in relazione al fallimento della s.n.c. S.C. (dichiarato con sentenza ...), nonchè di omessa istituzione e tenuta dei libri e delle altre scritture contabili previste dalla legge.

Ricorre per cassazione il difensore e deduce:
1) Erronea applicazione di legge, in particolare dell'art. 2083 c.c. in relazione alla L. Fall., art. 1, comma 2 come modificato dal D.Lgs. n. 5 del 2006, con riguardo alla qualifica di piccolo imprenditore dell'imputato e della conseguente assoggettabilità alla procedura fallimentare, oltre a difetto e contraddittorietaà della motivazione sul punto.
E' noto, da un lato, che la sentenza di fallimento non fa stato nel procedimento penale (competendo al giudice penale stabilire se il soggetto era fallibile), dall'altro, che è esclusa per legge la fallibilità del piccolo imprenditore.
Ebbene la sentenza di secondo grado pretende di escludere in capo al R. la qualifica di piccolo imprenditore, valutando unicamente le risultanze contabili, senza prendere in considerazione la natura della attività esercitata.
La stessa Corte ammette che la relazione del curatore è lacunosa, ma pretende di supplire ad essa valorizzando la informativa della G.d.F. la quale, tuttavia, appare intrinsecamente contraddittoria. Invero non è dato comprendere come la s.n.c. possa avere - nel biennio 1999/2000 - effettuato incassi per oltre L. 371 mln., emettendo fatture per oltre L. 279 mln. e possa poi avere una disponibilità di cassa di oltre L. 437 mln..
In realtà la sentenza di primo grado (e lo stesso curatore) valutano prudenzialmente la contestata violazione in circa L. 300 mln..
La Corte veneta poi ha evidentemente basato il suo convincimento sul dettato della L. Fall., art. 1 nel testo previgente che, come è noto, prevedeva che in nessun caso potessero essere considerati piccoli imprenditori le societaà commerciali.
Ora, a parte il fatto che tale contenuto dell'art.1 è stato nel corso degli anni, eroso dalla dottrina e dalla giurisprudenza, anche costituzionale (le quali sono giunte alla conclusione che l'unico criterio valido per attribuire la qualifica di piccolo imprenditore è quello ex art. 2083 c.c.). è da considerare
che il ricordato D.Lgs. n. 5 del 2006 ha dettato criteri diversi per la identificazione dello status di piccolo imprenditore.
Ebbene la Corte di appello cade in contraddizione quando tenta di utilizzare - alternativamente, ma in negativo - i nuovi criteri.
Da un lato, infatti, essa afferma che il volume di affari complessivo della s.n.c. nel biennio 1999-2000 è pari a oltre L. 370 mln. a fronte di fatture emesse per oltre L. 270 mln., dall'altro, considerando la natura della attività esercitata, rileva che R. operava in un "ridotto spazio immobiliare", acquistava e vendeva materiale informatico, fornendo anche prestazioni di software, con la conseguenza che era normale non fosse stato investito un capitale rilevante e comunque "pari all'importo specificato nella novella del 2006... che richiede investimenti superiori ai 300.000 Euro".
In realtà la Corte altro non ha fatto che descrivere la natura della attività del R. proprio nei termini ex art. 2083 c.c., atteso che il socio R.D. (con l'aiuto del figlio G.) era l'unico, come scrive il curatore, a possedere le conoscenze tecniche e commerciali per gestire l'azienda, che non aveva dipendenti e operava, come si è visto, in un piccolissimo laboratorio.
In ogni caso andava applicata, nella successione di norme, quella più favorevole all'imputato, vale a dire quella introdotta nel 2006.
Certamente la sentenza non può utilizzare, per un verso, il riferimento alla L. Fall., art. 1 previgente (per escludere le società commerciali dalla nozione di piccolo imprenditore) e, per l'altro, invocare il criterio del volume di affari, per dedurne le medesime conclusioni.
Ma anche su tale ultimo punto, la motivazione è tutt'altro che chiara perchè si limita a un raffronto tra gli incassi effettuati nel biennio (L. 370 mln. = Euro 185.000, vale a dire Euro 92.500 annui, somma ben al di sotto del limite dei 200.000 Euro, previsto dallo nuova normativa) e fatture emesse (L. 270 mln. = Euro 135.000 nel biennio = Euro 67.500 annui).
D'altronde la stessa Corte territoriale afferma - ma non ne trae le conseguenze - che il capitale annualmente investito (criterio alternativo a quello prima illustrato) non ha superato il limite previsto dalla nuova legge.
In realtà, la s.n.c., come premesso ampiamente, ha operato solo per due anni e quindi va considerato il parametro degli investimenti iniziali, piuttosto che quello dei ricavi lordi conseguiti in un
così breve arco temporale.

2) Erronea applicazione degli artt. 2214, 22302 c.c., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 13: proprio perchè piccolo imprenditore, la s.n.c. era esonerata dalla tenuta delle scritture obbligatorie di cui all'art. 2214 c.c., commi 1 e 2, non solo ai fini fiscali, atteso che la norma va interpretata unitamente al disposto dell'art. 2302 c.c..
In realtà sia l'art. 2214 c.c., u.c., sia il D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 13 e 14, consentivano alla s.n.c. in quanto tale la tenuta della cd. contabilità semplificata.
Dunque l'omessa tenuta del libro giornale e del libro degli inventari non integra il delitto di bancarotta documentale.
E' pertanto errato quanto si sostiene in sentenza, vale a dire che l'esonero sarebbe vigente solo ai fin fiscali.
Inoltre va rilevato che le altre scritture risultavano regolarmente tenute; ne consegue, allora, che la eventuale omissione va riportata a un atteggiamento colposo più che doloso del R..
Infine, nessuna motivazione viene spesa, in risposta a specifico motivo di appello, in ordine alla eccepita rilevanza dell'ignorantia iuris ai sensi della nota sentenza Corte cost. 364/88, in relazione alla impossibilità per il cittadino, volendo aderire alla tesi dei giudici di merito, di comprendere che l'esonero in questione nriguarderebbe solo la rilevanza ai fini fiscali;

3) Pena eccessiva con riferimento alla obiettiva modestia dei fatti addebitati; se pure si ravvisa responsabilità penale, essa non può che essere di natura colposa e dunque non si giustifica un aumento per continuazione di ben 6 mesi.

In data 3.10.2007 è stata depositata memoria difensiva, con la quale, nel ribadire quanto sostenuto in ricorso, si evidenzia che gli investimenti effettuati in azienda, qualunque definizione si voglia adottare, non superano Euro 300.000, e che i ricavi degli ultimi tre anni non superano Euro 200.000.
Inoltre si afferma che la retroattività della legge più favorevole certamente non vale agli effetti civili; tuttavia, nel caso in esame, trattandosi di legge civile che viene a integrare un precetto penale,
atteso che elemento essenziale delle fattispecie contestate è la sentenza di fallimento (e dunque la fallibilità dalla s.n.c.), ha rilievo la nuova definizione di piccolo imprenditore.
La norma extrapenale che, di volta in volta, va a completare quella penale, costituisce parte integrante di quest'ultima; dunque in caso di modifica della norma integratrice (nel caso in esame con funzione definitoria), deve trovare applicazione l'art. 2 c.p..

DIRITTO E MOTIVI DELLA DECISIONE

Occorre innanzitutto fissare alcuni capisaldi dal punto di vista cronologico, atteso che il ricorso si sviluppa principalmente avendo riguardo alla successione di leggi nel tempo con riferimento alla attribuibilità al R. della qualifica di piccolo imprenditore e, conseguentemente, alla possibilità che lo stesso fosse soggetto a dichiarazione di fallimento.

La fonte normativa che ha introdotto la modifica è il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n.5 (entrato in vigore il 16.7.2006) che, con l'art. 1, ha modificato la L. Fall., art. 1.
Ai sensi della novella appena citata, non sono piccoli imprenditori quei soggetti (individuali o collettivi) che, alternativamente, hanno effettuato investimenti in azienda per un capitale superiore a Euro 300.000, ovvero hanno realizzato ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi 3 anni (o dall'inizio attivita' se di durata inferiore) per un ammontare complessivo annuo superiore a Euro 200.000.

Ebbene:
1) la sentenza dichiarativa di fallimento è precedente alla novella del 2006: il R., pertanto, non è stato ritenuto, all'epoca, piccolo imprenditore perchè la sua era una società commerciale;
2) anche la sentenza di primo grado è intervenuta sotto la vigenza della vecchia legge;
3) la sentenza di appello (16.3.2007) è intervenuta sotto la vigenza del novum legislativo.

Tanto premesso, va ricordato (come correttamente sostiene il ricorrente e come chiarisce la giurisprudenza di questa Corte, cfr., tra le tante, ASN 200348542-RV 226945) che, poichè la sentenza dichiarativa di fallimento non fa stato nel procedimento per bancarotta, spetta al giudice penale stabilire se, nel caso concreto, l'interessato possa essere considerato piccolo imprenditore, e, come tale, non soggetto alle disposizioni sul fallimento.

Ora, non è dubbio che, come si è visto, la nuova normativa, intervenuta in pendenza del processo penale per bancarotta a carico del R., debba essere considerata più favorevole rispetto a quella previgente, la quale, come è noto, in fine dell'art.1, recava "in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali, disegnando in tal modo, un ben più ampio perimetro della punibilità per reati fallimentari a carico del soggetto imprenditore, rispetto a quanto stabilito dallo jus superveniens.

Invero, come si è appena visto, la nuova normativa fa dipendere la qualifica di piccolo imprenditore, non da un dato estrinseco e formale, ma da dati oggettivi e sostanziali, quali la consistenza del capitale investito in azienda o l'ammontare dei ricavi realizzati, dando dunque un "ancoraggio materiale" (e, conseguentemente, stabilendo una correlazione tangibile tra le dimensioni dell'azienda e la sua qualificazione giuridica) alla rinnovata definizione.

Ebbene l'art. 2 c.p., che regola - come è noto - la successione nel tempo della legge penale, riguarda quelle norme che definiscono la natura (sostanziale e circostanziale) del reato, comprese ovviamente quelle norme extrapenali richiamate espressamente a integrazione della fattispecie incriminatrice, nonchè le leggi costituenti indispensabile presupposto del (o comunque concorrenti a individuare il) contenuto sostanziale del precetto (ASN 199704114-RV 207479).

Dunque, se appare ovvio che la semplice successione di norme giuridiche integrative di un elemento costitutivo della norma penale non dà luogo, di per sè, ad una successione di leggi penali,
occorre viceversa accertare se tale successione comporti, o meno, rispetto al fatto, quella reale novità legislativa che costituisce la ratio giustificatrice del principio di retroattività della legge più favorevole, sancito appunto dall'art. 2 c.p..

Prima di compiere tale operazione, tuttavia, è necessario tener presente il dettato del D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 150, che, nell'introdurre la nuova disciplina cui si è sopra fatto cenno, prevede, con apposita norma transitoria, che "i ricorsi per dichiarazione di fallimento e le domande di concordato fallimentare depositate prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 5 del 2006, nonchè le procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti alla stessa data, sono definiti secondo la legge anteriore”.

Al proposito, va anche ricordato che questa stessa sezione, con precedente decisione (ASN 200719297-RV 237025), ebbe ad affermare che la predetta disciplina transitoria deve aver vigore anche per quanto riguarda la individuazione dell'imprenditore assoggettabile a fallimento e, dunque, la nozione di piccolo imprenditore, che si vorrebbe definibile alla luce della "vecchia" normativa, (a maggior ragione) se il fallimento fu dichiarato prima della entrata in vigore del novum legislativo del 2006, in una sorta di perpetuatio definitionis, che avrebbe tanto vigore da spiegare i suoi effetti fino alla conclusione del processo per il delitto di bancarotta; ciò perchè - come si legge nella ricordata sentenza, che questo Collegio però non condivide - "la modifica innovativa portata dal D.Lgs. 9 febbraio 2006, n. 5 non è suscettibile di meccanica trasposizione nelle dinamiche della successione delle leggi penali. E tuttavia la stessa pronuncia appena citata sostiene che l'accertamento della qualificazione soggettiva della fattispecie di bancarotta, in quanto
reato proprio, attiene solo al giudice penale, come indefettibile requisito del reato; con la conseguenza che la qualificazione di piccolo imprenditore, al di là del giudizio espresso dal giudice
fallimentare, è appannaggio del solo giudice penale (in termini, d'altra parte ASN 200236032-RV 223456; ASN 199905544-RV 213529).

E' allora il caso di ribadire che, poichè la sentenza dichiarativa di fallimento è elemento costitutivo del delitto di bancarotta (tra le tante: ASN 200446182-RV 231167), non è dubbio che l'immutatio legis in ordine alla fallibilità dell'imputato si rifletta sulla sussistenza stessa del reato in questione.

E se, per scelta del legislatore, l'elemento costitutivo di un reato cambia configurazione nel corso di un giudizio penale, non è dubbio che di tale novum debba tener conto il giudice che procede, in qualsiasi stato o grado si trovi il procedimento stesso.
Certo, quel medesimo legislatore può, con disposizione transitoria, diversamente regolare le situazioni pendenti al momento della entrata in vigore della norma innovativa, ma se, in campo civile, nessun ostacolo si frappone alla introduzione di una disciplina che regoli il "passaggio dal vecchio al nuovo", non va dimenticato che, in materia penale, si deve tener conto del dettato del ricordato art. 2 c.p., che, per essere stato collocato dal legislatore nel libro primo, titolo primo del codice ("della legge penale"), rappresenta norma di generale applicazione in tutto il sistema, costituendo un vincolante canone ermeneutico in tema di successione di leggi nel tempo.

Va da sè che, non trattandosi di un principio costituzionalizzato, ad esso il legislatore ordinario può derogare, ma - questo è il punto – la deroga deve essere espressa in maniera inequivoca tale da rispecchiare con assoluta chiarezza la mens legis; nè l'interprete può pensare di "aggirare" l'ostacolo attraverso un percorso tutto interno alla legislazione civile.

In tal senso, d'altra parte, si è sempre espressa la giurisprudenza (ancorchè risalente) di questa Corte, quando, ad es., a proposito della cessazione ope legis della qualifica di p.u. in capo a determinati soggetti, ha affermato (cfr. SS.UU. sent. n.8342 del 1987, ric. Tuzet, RV 176406) che, qualora un fatto perda il carattere di illecito penale a seguito di una modifica legislativa intervenuta successivamente, modifica che concerna la disciplina normativa extrapenale di riferimento per attribuire la qualità di soggetto attivo di un reato proprio, si applica il principio di retroattivitaà della legge più favorevole affermato dall'art. 2 c.p., atteso che per legge incriminatrice deve intendersi il
complesso di tutti gli elementi rilevanti ai fini della descrizione del fatto tra cui, nei reati propri, è indubbiamente compresa la qualità del soggetto attivo (cfr. inoltre ASN 199804176-RV 210696;
ASN 200404296-RV 228152).

Orbene, sulla base di quanto anticipato, non può dubitarsi che la norma transitoria D.Lgs. n. 5 del 2006, ex art. 150 abbia certamente carattere procedurale, ma nel silenzio del legislatore, non (anche) definitorio, atteso che essa regola, appunto, le procedure concorsuali pendenti al momento della entrata in vigore, ma non rende ultrattivo lo status di imprenditore "fallibile" (e quindi potenziale soggetto attivo del delitto di bancarotta) a mente delle norme previgenti, inibendo al giudice penale la applicazione dell'art. 2 c.p., la cui ratio è, evidentemente, quella di evitare che sia sottoposto a sanzione penale (o a sanzione penale più severa) un soggetto che, alla luce della nuova normativa, non sarebbe meritevole di punizione (ovvero andrebbe incontro a pena più lieve).

Opinare diversamente vorrebbe dire sposare una concezione in base alla quale è punibile la mera ribellione all'ordinamento, il che contraddice uno dei principi cardine del nostro sistema penale, vale a dire quello di offensività, principio cui può derogarsi solo per espressa e inequivoca disposizione legislativa.

Tanto premesso, va ulteriormente chiarito che, nel caso in esame, è di tutta evidenza che il novum legislativo non ha affatto portato a un'abrogazione di una norma penale, ma, semplicemente, alla ridefinizione della qualifica di soggetto attivo, di talchè ci si trova di fronte a uno di quei casi che la giurisprudenza delle SS.UU. ha affrontato - proprio con riferimento a reati fallimentari e societari (sent. n. 25887 del 2003, ric. Giordano, RV 224607) - stabilendo che, accertata la immutatio legis, si deve verificare, in base al criterio di coincidenza strutturale tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo, la eventuale permanente punibilità della condotta alla luce del fatto che la stessa rientri tanto nella fattispecie astratta prevista dalla vecchia, quanto in quella prevista dalla nuova normativa.

Deve, conseguentemente, essere accertato se il R., alla luce dei parametri ora vigenti poteva, già al momento della sentenza dichiarativa di fallimento (anno 2000), essere considerato piccolo imprenditore, vale addire se il predetto avesse effettuato nella s.n.c. S.C. investimenti per un capitale superiore a Euro 300.000, ovvero realizzato ricavi lordi, nel periodo previsto dalla nuova legge, per un ammontare complessivo annuo superiore a Euro 200,000.

Orbene la sentenza impugnata, sul punto, appare alquanto confusa e contraddittoria; essa innanzitutto non chiarisce, a ben vedere, in base a quali criteri ha ritenuto che il R. non potesse essere considerato piccolo imprenditore.
Invero la stessa sembra affermare (erroneamente per quanto si è scritto sopra) la ultrattività della vecchia normativa, per poi aggiungere che "a ogni buon conto... il volume complessivo di affari maturato dalla società in questione... induce a escludere che R. possa avere avuto i requisiti per essere considerato piccolo imprenditore, tenuto anche conto che ... era normale che non sussistesse un capitale investito di un certo rilievo e comunque pari all'importo specificato nella novella del gennaio 2006... che richiede investimenti superiori ai 300.000 Euro".
La frase riportata appare intrinsecamente contraddittoria.
Subito dopo, tuttavia, la sentenza soggiunge che gli incassi lordi nel biennio 1999-2000, ammontavano a L. 370 mln., a fronte di fatture emesse per L. 270 mln..

Dunque, escluso (a quanto sembra) che, con riferimento agli investimenti, il R. fosse andato oltre il limite stabilito dalla legge, i giudici di appello passano al criterio di valutazione dei ricavi lordi, non dando ragione, però, della ritenuta discrepanza tra le fatture emesse e la somma che si ritiene incassata e non tenendo poi conto del fatto che la somma indicata (L. 370 mln. ovvero L. 270 mln.) si riferisce a un periodo complessivo superiore all'anno e che dunque la media (criterio individuato dalla legge) potrebbe essere anche inferiore al controvalore di Euro 200.000 annui.

La prima censura dunque appare fondata, mentre le altre restano assorbite.

Si impone conseguentemente l'annullamento con rinvio (ad altra sezione della Corte di appello di Venezia) della sentenza impugnata.
Il giudice di rinvio, stabilito, in base ai criteri sopra indicati, se il R. possa essere considerato piccolo imprenditore, esaminerà, in caso di risposta negativa a tale quesito, i successivi motivi di appello. In caso contrario, trarrà le debite conseguenze.

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Venezia per nuovo esame.

Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2007.
Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2007
 
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