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 Chiara Crisci, Osservazioni sulle indagini genetiche nel processo penale

Ai fini della disamina che si vuole intraprendere, si analizzano le disposizioni che hanno dilatato le maglie dell’attività investigativa della polizia giudiziaria, le quali, sono sostanzialmente da ricondurre a due prospettive complementari fra loro: sotto il primo profilo, si evidenzia che la polizia giudiziaria è affrancata da compiti ausiliari al procedimento, sotto il secondo profilo, viene sensibilmente intensificato e reso più forte il ruolo investigativo che le appartiene, in favor delle esigenze di difesa sociale, a scapito però, dell’effettività delle garanzie concernenti i diritti fondamentali enucleati dalla Costituzione; logica conseguenza è che laddove si accresce la sovranità di indagine accresce pesantemente la vulnerabilità dei diritti e delle tutele previste dall’ordinamento.
Procediamo per gradi.
Con il decreto legge 27 luglio 2005 n. 144 recante «Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale» convertito rapidamente con la legge 31 luglio 2005 n. 15, si è voluta dare una chiara risposta istituzionale ma soprattutto manifestare la tenace volontà del legislatore di contrastare la minaccia del terrorismo sulla scia del precedente provvedimento legislativo (l. 15 dicembre 2001 n. 438) che introduceva la fattispecie di reato di associazione finalizzata al terrorismo internazionale.
Il provvedimento de quo, prevede una sequela di misure pluriformi, cioè di carattere amministrativo, penale e procedural-penale, tutte avviate in prospettiva di prevenzione in primis, e di repressione ex post della minaccia terroristica.
L’intoduzione di nuove fattispecie di delitti in materia di terrorismo e le connesse nuove ipotesi di arresto e fermo, non si sono limitate solamente ad ampliare i poteri d’indagine della polizia giudiziaria ma, hanno disciplinato per la prima volta, con “leggeri” mezzi le intrusioni de libertate nella sfera personalissima dell’individuo, per mezzo del prelievo di materiale biologico.
E’ fuori discussione, che a seguito dell’azione legislativa lo stesso dato normativo ha delineato contorni netti in riferimento all’impiego nel processo penale del DNA-test in qualità di prova scientifica, dando una disciplina base in materia di prelievo di saliva o capelli finalizzata soprattutto all’identificazione dell’indagato (art. 349 co. 2° bis c.p.p.) e poi a produrre effetti nell’ambito degli accertamenti e rilievi urgenti della polizia giudiziaria (art. 354 co. 3° c.p.p.)[1]).
E’ di palmare evidenza che la “novella” del 2005 schiude inedite prospettive applicative e senza dubbio fresche questioni ermeneutiche.
Sul punto, risulta facile osservare come si siano -attraverso la disciplina de qua- immesse nella procedura penale, nozioni non comuni quali quelle di “materiale biologico” e di “prelievo”, determinando come corrollario conseguenziale l’ampliamento dell’ambito operativo della prova scientifica e l’esigenza emergente di fornire una solida disciplina del procedimento rivolto all’indagine genetica.
Ab imis, ed in via del tutto generale si deve precisare che le indagini edificate sull’accertamento del DNA, costituiscono probabilmente quella tipologia di prova atipica che sempre più frequentemente trova privilegiato ingresso nei tribunali giudiziari[2]).
E’ bene constatare, che la “scienza” genetica si eleva a prospettiva che coinvolge plurimi aspetti della conoscenza e della vita associata, i breve, la branca del diritto civile[3]), sia la branca penale[4]);decisamentè si è assistito ad un decisivo trasferimento del baricentro dell’impianto probatorio del sistema penale a motivo dell’avanzare della prova scientifica riguardante i test genetici del DNA, gli esami biologici, le analisi chimiche e tossicologiche, la raccolta e la repertazione di materiale biologico con conseguente deminutio della rilevanza per la prova dichiarativa[5]); indicando l’incisivo ed affidante valore processuale di una c.d. perizia tecnica in materia medico-legale, balistica, immunoematologica o dattiloscopica rispetto ai risultati ottenuti per li tramite di una testimonianza.
In merito è doveroso porre a debito confronto, la differente capacità probante del riconoscimento dell’imputato quale effettivo autore del reato, derivante da una ricognizione personale e del riconoscimento fondato sulla univoca e perfetta corrispondenza delle impronte digitali ovvero del DNA fingerprint (impronta genetica), repertate nel locus commissi delicti o sul corpo della vittima ed il materiale biologico asportato dall’accusato[6]).
Preliminarmente occorre chiarire che il rafforzamento dell’attività investigativa eseguita su c.c. d.d. piattaforme scientifiche, tecnologiche ed informatiche, ha un pesante impatto sul percorso di acquisizione della prova: puntualizzando, si determinano aggressioni alla sfera giuridica dell’individuo, tanto più perforanti quando si comprime la libertà personale riconosciuta quale diritto inviolabile di ogni uomo.
Ma andando oltre.
V’è da precisare che l’imputato e la persona offesa dal reato possono divenire oggetto di accertamento nel momento in cui partecipino ad un’attività investigativa ovvero probatoria sic et simpliciter come mera realtà fisica.
In altre parole, trattasi di ipotesi in cui la persona è protagonista sul boccascena dell’attività procedimentale effettuata da soggetti pubblici (organo inquirente o p.g.) senza però avere una partecipazione attiva, vocale o gestuale; il corpo umano vivente diviene strumento ed oggetto allo stesso tempo di “Beweisermittlungsverfahren” (ricerca della prova) a prescindere da qualsivoglia cooperazione, contributo dell’interessato il quale, se non occorre una concreta sua attivazione “corporale” per lo svolgimento dell’indagine, non ha alcun mezzo ed anche fosse (!) non ha facoltà alcuna di ostacolare l’emergere di elementi di prova espunti dal proprio organismo.
Soggetto dunque, che diviene “oggetto di prova” qualora l’accertamento non richiede partecipazione attiva di esso, per cui, l’imputato è titolare di una situazione giuridica soggettiva inquadrabile come soggezione quale si identifica la condizione di colui che di fatto subisce passivamente le conseguenze di un legittimo atto coercitivo e rientrante sotto l’egida della tutela prevista dall’art. 13 Cost. (libertà personale); a contraris, diviene “organo di prova”, qualora il soggetto de quo offra spontaneamente il proprio contributo probatorio, il quale non è coercibile e si identifica –l’individuo- quale soggetto che rende dichiarazioni svolgendo un’attività inerente al concetto di autodifesa: l’imputato, infatti, può decidere di non collaborare esercitando il diritto al silenzio o negando il proprio consenso ad atti condizionati ad esso, si pensi in piccolo alla perizia ematologica[7]).
Nella suddetta ottica, acquista rilevanza la necessità di tutelare da un lato la libertà personale, dall’altro la riservatezza dell’individuo intesa come valore a cui ricondurre il diritto di mantenere la propria sfera personale intatta indenne da aggressioni discrezionali condotte arbitrariamente, ed oltre, occorre contenere il più possibile la rivelazione e l’uso pubblico di dati, notizie ed informazioni attinenti al soggetto-oggetto processuale.
A tale punto, sembra doveroso nonché ragionevole svolgere una minima ricognizione della normativa concernente gli accertamenti, che possono essere condotti nelle rispettive sedi di indagine o di successiva formazione della prova, il cui raggio d’azione è il corpo della persona.
Ci si sofferma dunque, ad una serie di attività accertative effettuabili in alcuni casi con apparecchiature tecnico-scientifiche, il cui minimo comune denominatore rimane l’oggetto, cioè, il corpo umano. In riferimento alle indagini realizzate dalla p.g., si considerino, oltre al prelievo di saliva o capelli che rimangono strumentali all’identificazione dell’indagato (art. 349 co. 2° bis c.p.p.) e agli accertamenti ritenuti urgenti su persone, che possono anche sfociare nel prelievo di materiale biologico sull’indagato (art. 354 co. 3° c.p.p.), i rilievi ed accertamenti finalizzati esclusivamente all’identificazione dell’indagato (art. 349 c.p.p.), ovvero alle perquisizioni urgenti (art. 352 c.p.p.). Sempre con lo sguardo rivolto alle indagini preliminari, è da considerare l’attività svolta dal P.M. che può eseguire tecnicamente l’individuazione di persona (art. 361 c.p.p.), accertamenti tecnici (artt. 359-360 c.p.p.) nonché ispezioni e perquisizioni personali (artt. 245 e 249 c.p.p.). Da ultimo, sotto il profilo della formazione della prova, non si possono tralasciare le specifiche attività di ricognizione delle persone (art. 213 c.p.p.) e la perizia da eseguirsi su corpo umano (art. 220 c.p.p.)[8]).
Lo svolgimento degli accertamenti c.c.d.d. corporali senza dubbio comporta una concreta coazione laddove il soggetto passivo dell’accertamento non voglia ex se cooperare o addirittura opponga ferma resistenza; essendo comunque la coazione a tempus, per entità e durata variabili si può sostenere che concretizzi sempre una restrizione della libertà personale?
In proposito si rileva di necessità, che la compressione della libertà personale si determina anche dal grado di invasività dell’accertamento, caso emblematico è proprio il prelievo ematico finalizzato all’esame del DNA.
In tema di accertamenti corporali, vi è stata una progressiva e sequenziale specificazione delle concettualizzazioni effettuata dalla Corte Costituzionale per mezzo di tre pronunce; primariamente si è operata una distinzione netta tra i rilievi incidenti direttamente sulla libertà personale rientranti sotto la categoria delle ispezioni personali: tra cui viene ricompreso il prelievo ematico (Corte Cost., sent., 27 marzo 1962 n. 30)[9]), e l’intangibilità dei medesimo valore però in via indiretta.
In particolare la Consulta ha tratto in salvo dalla censura di incostituzionalità talune norme contenute nel vecchio codice di procedura penale all’epoca vigente in tema di perizia, ritenendo rispettata la duplice garanzia prevista dall’art. 13 Cost. della riserva di legge e di giurisdizione; è stata stimata come legittima, l’esecuzione coattiva del prelievo ematico rientrante nell’ordinaria amministrazione della prassi medica, sotto l’unica condizione del limite invalicabile costituito dalla dignità umana che non ammette deroghe e che, non si pongano i pericolo la vita ovvero la salute del periziando[10]).
Con una pronuncia successiva[11]) a distanza di dieci anni dalla perentoria fissazione dei limiti concernenti l’esecuzione del prelievo ematico, la Consulta ha ribadito gli stessi limiti, dichiarando expressis verbis –questa volta- che il prelievo ematico coattivo lede la libertà personale in quanto è tecnica invasiva, anche se in minima misura, della sfera corporale; diversa invence, si profila l’ispezione intesa quale osservazione esterna della persona, istituto questo limitativo reso tale per espressa previsione costituzionale.
Questa previsione, ha avuto l’effetto di rendere incoercibile l’esecuzione della perizia ematologica, con la suddetta decisione a contraris di quanto espresso nella antesignana pronuncia del 1986, la Corte Costituzionale ha voluto colpire la formulazione dell’art. 224 co. 2° c.p.p. tacciata di estrema genericità, che in tema di perizia prevede per il giudice penale un ampio potere ordinatorio ma che rimane non specificato sul piano obbiettivo. Il potere de quo, è talmente esteso che ricomprende l’adozione dei provvedimenti coercitivi idonei ad incidere sulla libertà personale dell’indagato ovvero dell’imputato nonché di terzi, qualora oggetto dell’accertamento risulta essere il corpo delle suddette persone.
La Corte Costituzionale nella sentenza sopra citata ha chiarito che: “l’esecuzione coattiva del prelievo ematico, necessaria a superare l’eventuale diniego del periziando, comporta una restrizione della libertà personale e diventa tanto più allarmante […] in quanto non solo interessa la sfera della libertà personale, ma la travalica perché, seppur in minima misura, invade la sfera corporale […]”.
La disposizione oggetto di censura (art. 224 co. 2° c.p.p.), infatti, non prevede in maniera espressa i casi ed i modi che legittimano il giudice all’esercizio di quel potere coercitivo che comprime la libertà personale: una tipizzazione in tal senso è imposta perentoriamente dall’art. 13 Cost., ma nonostante la previsione di natura costituzionale, il legislatore si è manifestato silente sul punto[12]).
Occorre dare rilevanza ai princìpi affermati dai giudici costituzionali con la decisione del 1996; il principio dell’inviolabilità della libertà personale non è l’unico preso in considerazione dalla Corte la quale puntualizza che: “l’esigenza di acquisizione della prova del reato costituisce un valore primario sul quale si fonda ogni ordinamento ispirato al principio di legalità”.
Inoltre, nonostante il renvirement giurisprudenziale rispetto alla propria precedente sentenza emanata nel 1986, la Corte ribadisce fermamente gli stessi limiti negativi posti come parametri sui quali si fondano garanzie insopprimibili e cioè: la vita, l’incolumità personale, l’intimo della psiche, la salute e la dignità della persona.
Chiare e precise in definitiva, appaiono le direttive dei giudici costituzionali alle quali il legislatore deve attenersi; ogni acquisizione probatoria deve avvenire nel rispetto dell’art. 13 co. 2° Cost., e dei limiti negativi prefissati, al fine di garantire il grado massimo di tutela dell’individuo.
In sostanza, l’obiettivo principe a cui deve aspirare il legislatore deve consistere nel tendenziale equilibrio tra esigenza di accertamento della fattispecie criminosa e la necessaria tutela del singolo per ciò che concerne la sua sfera di libertà personale[13]).
V’è da aggiungere inoltre, che il monito indirizzato al Legislatore non riguarda la mera tipizzazione delle misure coercitive idonee a consentire l’accertamento da parte del perito ma occorre distinguere in maniera inequivocabile e per categoria, da un lato le misure incidenti e quelle non incidenti sulla libertà personale e dall’altro i mezzi ritenuti invasivi e quelli non invasivi specificando come sottocategoria dei mezzi ritenuti invasivi, quelli che “sottraggono” un quid dal corpo di colui che è sottoposto a perizia (tipico esempio è rinvenibile nel prelievo ematico) e, quelli che al contrario “aggiungono” un quid.
Premettendo che l’indagine genetica è utilizzata nel procedimento penale come tecnica di identificazione personale per la ricerca della coincidenza tra identità fisica ed identità anagrafica in riferimento ad una determinata persona al fine di evitare l’instaurazione di un processo “erroneo” a carico di persona estranea ai fatti di reato, occorre sottolineare che codesta tecnica di identificazione personale su tracce biologiche si basa tecnicamente sul confronto tra le caratteristiche del DNA delle tracce repertate sulla scena del delitto, e quelle appartenenti all’indagato: allorché le sequenze genetiche ricavate dal campione e quelle dell’indagato siano coincidenti, si affronta l’ulteriore passaggio concernente il calcolo delle probabilità che la coincidenza ottenuta sia occasionale ovvero si pongono a confronto i risultati con i dati ottenuti dalla comunità degli individui per verificare la frequenza di quel particolare gene rilevato[14]).
Il procedimento concernente l’acquisizione e la repertazione di materiale biologico, si scompone in plurime fasi, ognuna delle quali, avendo una propria peculiarità dal punto di vista processuale, comporta di necessità sul piano normativo, una regolamentazione espressa e dettagliata attualmente carente soprattutto nelle tecniche acquisitive e di repertazione utilizzate ante 2processum.
La sequela tecnica e procedimentale dovrebbe così estrinsecarsi.
Dopo la raccolta del materiale organico, segue l’estrazione del DNA; in prima battuta, abbiamo la raccolta di tracce biologiche nel luogo dove si è consumato il reato ovvero sul corpo della vittima, successivamente si dovrebbe procedere all’estrazione del DNA per mezzo di un processo chimico reattivo.
In progressione, la successiva fase si compie con il prelievo di materiale organico del soggetto da identificare; ad essa segue una fase concernente l’estrazione del campione di DNA da porre a confronto in base a quanto detto sopra.
In tale articolato ventaglio di attività, chiara risulta essere la necessità di elevata competenza specialistica degli operatori chiamati a svolgere le attività che ciascuna fase richiede, come altrettanto palese è l’esigenza di un equilibrio normativo tra la necessità di un’accertamento attendibile e quella di fornire le opportune garanzie per il soggetto passivo di investigazione scientifica.
Di fatto, la laboriosità dell’indagine genetica si riverbera sull’inquadramento giuridico della stessa, in riferimento alle attività del procedimento penale in cui si immette, ed anche, con riguardo alla legittimazione e ai poteri dei soggetti che eseguono le attività de quibus, in considerazione del leit motiv del tema in disamina, fondato dall’esigenza di tutele effettive dei valori fondamentali stimati dalla Costituzione ma più elasticamente da una società democratica riguardanti l’essere umano.
A tal punto, sembra essenziale un’osservazione in ordine alle attività di ricerca probatoria.
L’accertamento in cui si esprime l’indagine genetica “patisce” per così dire di talune variabili che riguardano l’attività espletata, ci si riferisce sostanzialmente alla ripetibilità o irripetibilità degli atti eseguiti, alla potenziale urgenza della stessa ed alla fase in cui talune attività vengono disposte; sans doute sia l’attività prettamente inerente la raccolta di tutto il materiale qualificabile come organico dal locus commissi delicti, sia il prelievo di materiale biologico sul corpo umano in particolare sull’interessato richiedono una competenza qualificata da parte degli addetti a tale tipo di attività; le suddette attività tecnicamente si possono ricondurre agli accertamenti e rilievi urgenti della p.g. (art. 354 c.p.p.), che deve garantire la non alterazione del materiale e dello stato dei luoghi ovvero agli accertamenti tecnici del P.M. (artt. 359-369 c.p.p.).
Il passo successivo dell’attività accertativa “genetica” su di un piano scientifico consiste nel rendere libero il DNA dalla “corteccia protettiva” costituita dalle cellule del tessuto di appartenenza, depurandolo –se ne occorre- dalle sostanze di vario genere delle quali se ne trova traccia in ogni substrato che lo caratterizza per poterlo analizzare con le opportune metodiche predisposte per lo studio integrale su di esso.
Il percorso di analisi si suddivide in tre momenti ben specificati: il primo riguarda l’applicazione di protocolli di estrazione del materiale biologico ben determinati che variano solo col variare del tipo di fonte biologica di provenienza; il secondo momento l’estratto considerato “grezzo” viene depurato applicando a quanto ottenuto il protocollo di amplificazione di specifiche regioni del DNA; il momento terminale coincide con la tipizzazione dei risultati prodotti dalla precedente operazione di amplificazione del DNA che, consente in ultima battuta la identificazione[15]); vero è che la necessità di svolgere l’attività de qua  si avverte in sede di accertamento tecnico del P.M. ovvero, dopo il rinvio a giudizio, in sede di perizia.
Come non riflettere sulla questione di non poca importanza, concernente l’attendibilità delle prassi seguite nelle metodiche di laboratorio, si individuano i veri aspetti problematici in riferimento soprattutto, alla ricerca ed alla raccolta dei dati genetici dell’individuo e poi processualmente parlando, l’utilizzabilità degli stessi.
Si delinea con evidenza, la problematica della coercizione in ordine al prelievo di materiale biologico dal soggetto sospettato da una parte e la crescente ed insopprimibile garanzia di tutela dell’individuo rispetto all’utilizzazione dei dati genetici, poiché si tratta di informazioni che toccano la sfera intima della persona; l’altra faccia della medaglia.
Negli ordinamenti di common law, di alto tasso di democraticità ovvero in quegli ordinamenti di più spiccata sensibilità verso le garanzie dei diritti umani attualmente, è particolarmente avvertita la preoccupazione di tutelare la riservatezza della persona sottoposta all’indagine del DNA, considerato che con tale accertamento si accede agevolmente all’informazione genetica, quindi, alla conoscenza dei caratteri ereditari, non strettamente e squisitamente necessaria all’identificazione che rimane lo scopo finale ed unico dell’accertamento de quo.
Ne discende come corollario logico, l’esigenza di una chiara e puntuale disciplina che vede in primo piano norme sull’utilizzabilità dei risultati del test genetico[16]).
In riferimento alla prova del DNA le esigenze comuni dei paesi europei ed internazionali in generale, sono di garantire primariamente libertà civili e valori primari quali: privacy, dignità personale, equità del giudizio consenso dell’individuo e poi su di un piano secondario solo per modo di dire in quanto costituiscono l’humus per garantire a pieno i valori de quibus si sistemano le modalità di raccolta e conservazione dei campioni biologici, standards metodologici di laboratorio e poi in sede processuale occorre una “schietta” regolamentazione delle analisi, dell’utilizzabilità dei risultati, sulla distruzione di essi nonché sull’esegesi dei test genetici[17]).
 
2. CONSIDERAZIONI SULLA FASE DI ASPORTAZIONE DEL MATERIALE BIOLOGICO: INTRUSIONI DE LIBERTATE
Il timido accenno legislativo sul tema in disamina, vi è stato nel 2005 dove la disciplina predisposta ha dato vita a due ipotesi normative: a fini di identificazione dell’indagato (art. 349 co. 2° bis c.p.p.)ed in sede di accertamenti e rilievi urgenti sulle persone (art. 354 co. 3° c.p.p.); il potere di effettuare il prelievo di materiale biologico –con tale novella- è stato assegnato, in presenza di determinati presupposti all’iniziativa della p.g. e per quanto si richiedano i presupposti suddetti lasciare sbrigliata l’attività della p.g. rende ancora più labile il panorama delle garanzie costituzionali ed europee riconosciute in tema di rispetto della personalità.
Si tratta in maniera lampante di un intervento flash parziale e farraginoso che non raccoglie le spie di tutela fornite in punto dalla Consulta con la sentenza n. 238 del 1996 citata.
Il legislatore non ha risolto la questione inerente all’eseguibilità coattiva della perizia, né ha fornito rilievi sistematici generali sugli accertamenti coattivi o scendendo in profondità sul prelievo ematico; troppe le lacune!
La disciplina del prelievo di materiale biologico è insufficiente a garantire le garanzie procedurali, le garanzie per i soggetti interessati, le garanzie processuali in breve: quid iuris?
E’ assodato che in sede di identificazione dell’indagato la p.g. può eseguire, laddove occorre, “rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici nonché altri accertamenti” (art. 349 co. 2° c.p.p.).
In via del tutto residuale, quando non soccorrono altre modalità per accertare l’identità dell’indagato o su di essa vi siano dei dubbi, la p.g. è “autorizzata” a prelevare capelli o saliva dell’indagato con il consenso esplicito e non dedotto o deducibile da comportamenti dello stesso; in assenza del consenso, la p.g. nel rispetto della dignità della persona – francamente si hanno dei dubbi sul rispetto della dignità quando vi sia manifestazione di resistenza all’invasione nella sfera personale- procede al prelievo coattivo ex post l’autorizzazione del P.M. scritta ovvero orale da confermarsi per iscritto (art. 349 co. 2° bis)[18])anche qui celerità rischia di far abusare il P.M. dell’oralità a scapito della certezza sulla motivazione dell’intervento richiesto; sotto il profilo del diritto di difesa si rammenta che l’identificazione è atto non garantito: la p.g., non ha l’obbligo di avvisare il difensore il quale, in ogni caso, non ha diritto di ingresso cioè di partecipazione.
Nondimeno in fase di accertamenti e rilievi urgenti gli ufficiali “inquisitori” di p.g. possono eseguire il prelievo di materiale biologico sull’indagato ovvero terze persone,esempio ne sia la persona offesa dal reato.
L’art. 354 co. 3° c.p.p. così come rivisitato, prevede che fra I prelievi effettuabili dalla p.g. sulle persone, differenti dalle ispezioni personali, si possa compiere un rilievo-prelievo di “materiale biologico” l’urgenza del quale è ancorata a presupposti relativi alla situazione di fatto(pericolo di modificazione o dispersione di tracce ovvero elementi di prova asportabili dal corpo dell’interessato) ovvero al rapporto tra p.g. e P.M. (il magistrato non può intervenire tempestivamente ovvero non ha ancora assunto la direzione delle indagini).
In tutto ciò, occorre privilegiare una lettura della disposizione de qua in armonia con i princìpi fondamentali di libertà personale[19]); inoltre un’esegesi sistematica, suggerisce di ritenere che anche il prelievo urgente abbia ad oggetto saliva e capelli dell’indagato (già identificato) ovvero di terza persona con esclusione di qualunque altro materiale asportabile dal corpo umano quindi, sangue e tessuti biologici, per mezzo di modalità cruente[20])o comunque invasive cioè superando il limite fisico dell’individuo[21]).
V’è da rilevare, inoltre, che sulla legittimità della coazione come pure sull’invasività sembra incidere la tipologia di prelievo.
Infatti, la raccolta di saliva, pur non potendosi qualificare come attività invasiva, poiché l’asportazione del materiale biologico non crea continuità tra l’organismo e ciò che è esterno, presuppone comunque una minima attivazione fisica oltreché collaborazione del soggetto passivo il quale non trattandosi di carmelidae o simili deve necessariamente aprire o socchiudere la bocca; in proposito, dunque residuano incertezze, dato che non sembra legittimamente coercibile il facere ma solamente il pati.
Il diritto di difesa sembra garantito compiutamente dall’art. 356 c.p.p., dove è previsto che il difensore dell’indagato ha facoltà di assistere senza però il diritto ad una qualunque forma di avviso. Quanto poi alle forme ed alle modalità del prelievo l’art. 354 co. 3° c.p.p., opera sistematicamente un rinvio alle disposizioni sull’identificazioni dell’indagato[22]).
Nei casi saggiati poc’anzi, è palese che trattasi di attività che la p.g., in caso di esecuzione coattiva, effettua vulnerando la libertà personale di chi vi è sottoposto; tale fatto ha incalzato parte della dottrina a denunciare, con riferimento alla doppia riserva di legge e di atto motivato dell’autorità giudiziaria imposta dalla Carta fondamentale a tutela della libertà personale, perplessità sulla costituzionalità dell’intervento legislativo evidenziandone una sorta di matrice tirannica o quantomeno uno sbilanciamento verso esigenze di difesa sociale[23]).
In tale mondo “investigativo” sembra propizio un cauto e prudente realismo che crudamente e purtroppo privilegia-rispetto ad argomentazioni eleganti,delicate e raffinate nella ricerca, in mancanza di regolamentazione e di adeguamento ai principi europei sul tema,per cui argomentazioni astratte e per questo da isolare- il favor ai profili meramente tecnici che considerano ed hanno come obbiettivo la ricerca ed acquisizione della prova.
L’intero meccanismo procedurale si muove esclusivamente in un balletto dove si alternano l’esigenza del preventivo consenso segno di civiltà, e la coazione autorizzata ex ante dal P.M.
In prima battuta, si sottolinea come, a garanzia della libera autodeterminazione del soggetto, il consenso debba essere preceduto da una compiuta e corretta informazione sulle conseguenze di un potenziale rifiuto e sugli scopi conseguiti per il tramite del prelievo[24]); invero, ogni volta che all’interessato è richiesto un atto di volizione come il consenso a svolgere attività sul proprio corpo ovvero di rendere dichiarazioni, entra in scena l’art. 188 c.p.p. a tutela della libertà morale.
Identica prospettiva di tutela, affiancando la libertà di autodeterminazione etrattandosi di linea guida e principio cardine di un ordinamento che non deve dismettere la propria veste ptersonalistica,si erege sul canone della dignità della persona espressamente richiamata dal legislatore del 2005 quale valore da tutelare nell’esecuzione del prelievo, conformemente a quanto previsto dal codice procedurale per l’ispezione personale (art. 245 co. 2° c.p.p.),e per la perquisizione personale (art. 249 co. 2° c.p.p.); ricordando che l’art. 1 della Carta dei Diritti EU, ha sancito nel panorame europeo, la definitiva giuridificazione di una nozione, quale quella di dignità, che per troppo tempo è stata solo oggetto di studi etico-filosofici[25]). Come non ritenere che sia lesivo della dignità personale ed in anticipo della libertà morale, persuadere ovvero trascinare l’interessato a consentire al prelievo con intimidazioni o pressioni psicologiche, al pari dell’adempimento di azioni mortificanti del corpo umano; la manipolazione psichica, inoltre, non si palesa neanche necessaria atteso che, in assenza del personale consenso, con l’autorizzazione del P.M. il prelievo è eseguito coattivamente.
Sotto tale aspetto, riemerge l’esigenza di tutela della dignità nell’esecuzione coattiva del prelievo che deve avvenire con schemi non degradanti per l’individuo, limitando la coercizione alla base minima indispensabile per l’indagine.
Sulla legittimità della coazione, sono ragionevoli le critiche di quanti rilevano che il legislatore avrebbe dovuto indicare, quale forma dell’auorizzazione al compimento forzoso del prelievo, il decreto motivato, stante la riserva di atto sorretto da motivazione dell’autorità giudiziaria di cui all’art. 13 co. 2° Cost.[26]).
La necessità del consenso, seppure coercibile, rende necessaria, infine, un’osservazione in tema di raccolta “occulta” di materiale biologico. In particolare ci si domanda se determinate pratiche surrettizie, ritenute legittime dalla giurisprudenza, siano sempre tali dopo l’intervento normativo del 2005[27]).
Sul punto si fa presente una riflessione della Suprema Corte di legittimità relativa alla legittimità dell’acquisizione e dell’analisi di campioni biologici prelevati, anche senza il consenso dell’interessato, in un momento in cui non fanno più parte dell’entità corporea del soggetto e senza necessità di alcun intervento idoneo ad incidere sulla sfera di libertà del soggetto stesso[28]). Viene affermato che, qualora oggetto di raccolta ed accertamento siano materiali biologici “disgiunti” dal corpo umano, non è più in questione la tutela della libertà personale ed è quindi in conferente il rinvio alla sentenza della Consulta del 1996[29]). Nella fattispecie concreta, oggetto dell’accertamento ritenuto irripetibile era stato un campione di saliva dell’indagato raccolto da un bicchiere in cui lo stesso, aveva bevuto un caffè offerto dalla p.g. il sequestro delle tracce di saliva sembrerebbe non comportare alcuna compressione della libertà personale; non rivestirebbe importanza a detta della Suprema garante di legittimità, la circostanza che la bevanda sia stata offerta al solo scopo di acquisire reperti biologici “in quanto nessuna disposizione di legge subordina lo svolgimento delle indagini al consenso dell’indagato, quando appunto non si risolva in violazione della libertà personale o di altri diritti costituzionalmente garantiti”.
La prassi reiterata di raccolta all’insaputa dell’interessato, sembra oggigiorno aggirare la necessità del consenso o, per lo meno, pare inutile ed insignificante stante la disciplina espressa del prelievo di materiale bilogico con modalità coattive.
Sembra corretto e razionale, ritenere del tutto legittimi i prelievi di signa biologici lasciati dall’interessato all’esterno del contesto “inquisitorio”[30]) e in assenza di sollecitazioni da parte dell’autorità che effettua indagini, senza perciò, che entri in gioco la necessità di tutelare la libertà di autodeterminazione né, tantomeno, l’integrità fisica o la dignità del “titolare” del reperto corporeo.
La riforma dunque, è di dubbia costituzionalità; non sembra onorata la riserva di giurisdizione, né quella di legge mancando tuttora una specifica previsione legislativa circa i casi ed i modi del prelievo, circa le eccezionali ragioni di necessità ed urgenza che impongono l’intervento della p.g.[31]).
Ma vediamo ulteriori vuoti di tutela.
In relazione all’art. 349 co. 2° bis, si è sottolineato come la effettiva funzione della disposizione de qua, consita nell’appellare ovvero conferire identità a persone sconosciute, piuttosto che identificare soggetti presenti[32]); si tratterebbe sostanzialmente di un escamotage rivolto a costruire un archivio informatico relativo alle identità.
 Emerge chiaramente, la necessità non procastinabile di prevedere e disciplinare una banca dati del DNA, quale presupposto indefettibile di testsgenetici con finalità di accertamento probatorio ed efficace contrasto alla criminalità.
L’analisi puntata sull’art. 354 co. 3° c.p.p. fa rilevare come giustamente l’urgenza dell’intervento della p.g. deve attenere al prelievo di materiale biologico, non alla successiva analisi del DNA che dovrebbe essere effettuata dal P.M. in base alle disposizioni sugli accertamenti tecnici (artt. 359/369); piuttosto, l’urgenza dell’intervento della p.g., sembra configurarsi nella pratica, nel caso in cui un soggetto identificato appaia propenso in maniera ferma e decisa a rendersi indisponibile pro futuro al prelievo.
Si può pensare che la longa manus del P.M., raccolto urgentemente il materiale biologico con il consenso dell’interessato, ne informi il dominus P.M., sollecitato a quel punto, a disporre un accertamento tecnico.
Ciò detto, si impongono un paio di riflessioni sulla legittimazione attiva.
Il potere di eseguire il prelievo non è stato aggiudicato specificatamente e formalmente né al giudice, né al P.M.; si evidenzia dunque, una carenza normativa in riferimento all’organo giurisdizionale che in modalità persistente continua ad essere in stand-by, sotto il profilo del potere di disporre, nell’ambito peritale, un prelievo di materiale biologico forzoso[33]); in rapporto all’organo dell’accusa, si deve ritenere invece, che questi abbia in sede di accertamenti tecnici, il potere di disporre autonomamente il prelievo.
Difatti, se il P.M. ha il potere di autorizzare la p.g. al prelievo, si deve stimare anche che egli sia il titolare del potere di disporre lo stesso in via del tutto autonoma se del caso delegando la p.g. alle operazioni.
Reputando come quanto detto, si profila un rimedio ad una situazione che si può concretizzare, ossia le conseguenze di un comportamento non collaborativi quale l’irreperibilità del soggetto.
Con riferimento al prelievo ematico e all’esame del DNA si è messa in luce[34]), prima dell’intervento legislativo esaminato la problematicità della seguente situazione; eseguito il prelievo con il consenso del soggetto passivo ovvero acquisito surrettiziamente il materiale biologico dello stesso, il P.M. fa svolgere il test genetico poi in dibattimento, l’imputato decide di rifiutarsi di sottoporsi ad un ulteriore prelievo, impedendo la rinnovazione della prova nella suddetta sede processuale; anche se il prelievo è attualmente coercibile, il periziando può vanificare la prova con la sua “irreperibilità” ed ancora, per evitare la dispersione di elementi di prova il P.M. potrebbe disporre un accertamento tecnico irripetibile.
Ricostruendo il tutto dal dato normativo: il legislatore, ha configurato in tema di accertamenti coattivi corporali, un quadro progressivo di compressione della libertà personale delineando una disciplina “diabolica” ovvero macchinosa che sembra essere in sintonia con le disposizioni costituzionali; alla diversa incidenza restrittiva o alla diversa portata lesiva degli istituti corrisponde la predisposizione di garanzie differenti.
In ordine al parametro del sacrificio imposto alla libertà della persona, e in base all’art. 354 co. 3° c.p.p., il prelievo di materiale biologico dove naturalmente si comprendono saliva o capelli, si colloca tra le ispezioni personali che limitano la libertà personale ex art. 13 Cost. e che sono vietate alla p.g., e i rilievi ed accertamenti urgenti sulle persone però diversi dalle ispezioni, intesi quali attività relative all’esteriorità della persona; esempio ne sia i rilievi dattiloscopici, fotografici ed antropometrici.
L’eseguibilità coattiva del prelievo, tuttavia impone il rispetto delle garanzie costituzionali prima di quelle poste su di un piano ancora superiore, ma procediamo a piccoli passi.
Preliminarmente, si ritiene legittima la coazione del pati come ad esempio il prelievo di formazioni pilifere, a contraris, non sembra possa essere imposta un’attivazione fisica la quale, è presupposta dal prelievo di saliva, urina, o altri fluidi corporei dell’indagato, stante il diritto di non collaborare.
Seppure a grandi linee, in tale prospettiva si può percepire che il dato normativo è perfettibile; partendo dal basso il primo passo impone un intervento sul potere attribuito alla p.g., i presupposti del quale dovrebbero essere chiari e specifici.
Con sguardo rivolto al P.M., sarebbe opportuna una previsione espressa e con netti limiti del potere di disporre con decreto motivato, il prelievo coattivo di materiale biologico per un successivo esame del DNA, delineando una procedura similare a quella dell’accertamento tecnico irripetibile, in primis, per garantire il contraddittorio, e poi per non perdere elementi di prova utili in dibattimento.
Non è corretto ancorare l’eseguibilità dei suddetti accertamenti a procedimenti per reati di una determinata gravità, si rendono efficaci ed adeguati per o più, con riguardo a delitti di sangue ovvero di avvertito allarme sociale.
Attualmente,  si avverte l’esigenza di prevedere un potere analogo a quello del P.M., in capo al giudice che, ora, davanti al rifiuto del periziando di sottoporsi ad un prelievo anche di natura non invasiva come quello di capelli, non può disporne l’esecuzione coattiva; unica possibilità potrebbe essere quella del giudice dell’udienza preliminare che perentoriamente ordini al P.M., nell’ambito dell’integrazione investigativa ex art. 421 bis c.p.p., di effettuare un accertamento tecnico implicante prelievo di materiale biologico e test genetico, qualora non possa decidere rebus sic stantibus.
Altro buco nero normativo si rileva sui prelievi ed accertamenti invasivi –prelievo ematico- i quali determinando una più “alta” intrusione nella sfera corporale,  essi dovrebbero avere dignità di disciplina peculiare.
Nelle ipotesi de quibus, dovrebbe essere assicurato un meccanismo di controllo giurisdizionale, con attribuzione in capo allo judex e solo allo stesso, del potere di disporli e di convalidare eventuali iniziative –se necessario- del P.M. e, solo in caso di urgenza.
Opportuna sarebbe una previsione dai contorni rigidi che delinei i casi ed i modi della coazione; il riferimento potrebbe essere ai presupposti della necessità per le indagini e, qualora l’interessato sia indagato, gravi indizi di colpevolezza.
 
3. PROVA ED EQUITA’ NEL PROCESSO PENALE
Sul piano europeo.
Talune decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di acquisizione della prova nel processo penale ed interferenza con i diritti guarentigiati  dalla C.e.d.u., offrono valido spunto per riassumere lo stato “febbrile” della giurisprudenza interna, gli auspici della giurisprudenza europea ed i riflessi delle decisioni extra moenia nel diritto interno.
Appaiono due i percorsi seguiti dalla Corte europea in tema di prove: il primo relativo al momento dell’acquisizione della prova, ed il secondo concernente il successivo utilizzo nel processo della prova nell'ipotesi acquisita in violazione di un diritto scolpito nella convenzione europea a salvaguardia dei diritti umani.
Sul profilo dell’acquisizione probatoria; qualora l’attività degli organi inquirenti incida su di un diritto garantito dalla C.e.d.u., la Corte ritiene necessario un bilanciamento tra sacrificio del diritto ed interesse pubblicistico sotteso all’accertamento delicti. In tale ottica, la Corte valuta immediatamente la gravità della violazione del diritto del singolo, sia alla luce della struttura sostanziale della garanzia incisa, sia alla luce del grado di compressione del diritto. Ex post, la Corte confronta il risultato di tale valutazione con quello dell’apprezzamento dell’interesse generale, misurato in base alla gravità del fatto di reato oggetto di procedimento.
La gravità de qua, viene valutata nel suo aspetto astratto nella species di reato e in concreto cioè, fattispecie oggetto di investigazione.
Un esempio concreto: incisivo sembra il caso Jalloh c. Germania[35]), dove il ricorrente era stato fermato perché colto nell’atto di cedere stupefacenti a terzi e, al momento dell’arresto, lo stesso aveva inghiottito un piccolo involucro di plastica che custodiva nella bocca.
Gli era stato quindi intimato di ingerire un emetico; al suo rifiuto, questo gli era stato somministrato forzosamente per via nasale. Di conseguenza, aveva rigurgitato l’involucro che era risultato contenitore di cocaina. Tale fatto era stato la base fondante la propria condanna. Su ricorso proposto dal condannato Jalloh alla Corte europea si eccepiva la manifesta violazione dell’art. 3 C.e.d.u., a fronte di tale eccezione la Corte, dopo aver osservato che di per sé la Convenzione non proibisce il ricorso ad interventi medici coatti come metodologia d’indagine, ha ritenuto nel caso di specie che, il mezzo impiegato costituisse una grave interferenza con l’integrità fisica e psicologica del ricorrente, sia per la pericolosità della somministrazione forzosa dell’emetico in sé, sia per le modalità “tendenti al brutale” impiegate nella somministrazione. Questa interferenza non poteva ritenersi proporzionata al fatto –cessione di una limitata quantità di stupefacente- né poteva ritenersi indispensabile per l’ottenimento della prova del reato –essendo possibile attendere la naturale espulsione dell’involucro ingerito- ritenendo pertanto sussistente la violazione dell’art. 3 C.e.d.u.
Il decisum europeo, richiama i principi individuati in modo costante e persistente dalla giurisprudenza di Strasburgo in tema di rapporto tra divieto di autoincriminazione –implicito nell’art. 6 C.e.d.u.- e raccolta forzosa di elementi organici; elementi probatori che pur essendo strettamente inerenti alla persona dell’imputato esistono, nella loro oggettività, indipendentemente dalla sua libera e consapevole autodeterminazione[36]).
Di conseguenza, allorquando la raccolta di elementi di prova incide sul diritto all’integrità psico-fisica dell’interessato, il Consesso europeo individua –oltre i criteri generali indicati sopra- il criterio di giudizio costituito dalla mancanza ovvero dalla irrilevanza del dissenso dell’indagato rispetto alla violazione di tale diritto. In nessun caso potranno dirsi conformi all’art. 3 C.e.d.u. le prove raccolte violando l’integrità fisica dell’indagato al fine di acquisire non dati oggettivi –quali i campioni biologici- ma dichiarazioni[37] ).
Seppur ribadendo la Corte che il suo sindacato non si estende sino al vaglio critico della disciplina nazionale sull’ammissibilità delle prove, essa ha ritenuto –caso GÖCMEN v. Turchia- che l’utilizzo delle confessioni estorte al ricorrente costituisse già di per sé violazione violazione ad un processo equo.
Riassumendo: gravità della violazione riscontrata a monte, valutazione del peso della prova nel complesso degli elementi a sostegno della decisione, da un lato; possibilità per l’interessato di contestare l’illegittimità della prova ed interesse generale all’accertamento dei reati, dall’altro, costituiscono pesi da utilizzare nel bilanciamento che costituisce il giudizio della Corte europea su prova ed equità del processo.
Se dunque non può essere disinvoltamente –in materia- trascurato che il consenso dell’interessato non solo permette di effettuare legittimi prelievi di materiale biologico ma, allo stato, sembra l’unica condizione in grado di garantire l’esatta riferibilità del reperto all’indagato ed oltre, la genuinità dello stesso; se ancora considerevolmente dubbia si palesa l’utilizzazione processuale dei risultati delle operazioni di identificazione per mezzo del DNA effettuate dalla p.g.; dunque stantibus, la soluzione ragionevole per assicurare in sede processuale i risultati di tale prova scientifica, è il percorso obbligato  della procedura dell’incidente probatorio, previo contraddittorio ex art. 189 co. 1° c.p.p. «sulle modalità di assunzione della prova» c.d.  prova atipica.
In conclusione,visto che l’illegittimità dell’ acquisizione della prova penale sebbene atipica, comporta l’iniquità del processo penale, come non inserirla alla luce delle garanzie europee nei motivi oggi tassativi di riapertura del processo.
Ragionevole sembra seguire il cammino della legge Belga (9 maggio 2007) applicabile finanche ai casi pregressi e che prevede: “le modifiant de le Ccode d’instruction criminelle en vue de la réouverture de la procédure en matière pénale”; quale miglior garanzia se non quella della prova equa, vera in un processo altrettanto veritiero ed equo.
 
dott.ssa Chiara Crisci, Collaboratrice presso lo Studio Legale Carnelutti di Roma  (diritto e procedura penale europea) - dicembre 2007
(riproduzione riservata)
 

([1]) Sul tema, O. DOMINIONI, La prova penale scientifica, Milano, 2005, 27, il quale, evidenzia alcune disposizioni che confermano l’operatività di strumenti tecnico-scientifici nella formazione della prova (artt. 64 e 188 c.p.p. che vietano l’uso di metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di determinaione o ad alterare la capacità di ricordare i fatti ovvero l’esecuzione di determinate operazioni affidate ad un esperto dal giudice nell’ambito dell’esperimento giudiziale ex art. 219 co. 1° c.p.p. o le operazioni necessarie per rispondere ai quesiti peritali ai sensi dell’art. 228 co. 1° c.p.p.); altre previsioni normative, invece impongono l’uso, in speifiche ipotesi, di un determinato strumento tecnico (si pensi all’autopsia per l’accertamento tecnico irripetibile in caso di sospetto di reato in relazione alla morte di ua persona ex art. 360 c.p.p. e 116 disp. Att. c.p.p. o all’etilometro per l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza).
([2]) C. BRUSCO, Il vizio di motivazione nella valutazione della prova scientifica, in Dir. pen. proc., 11, 2004, 1412.
([3]) M. STALTERI, Genetica e processo: la prova del “dna fingerprint”. Problemi e tendenze, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, 189.
([4]) A. GARGANI, I rischi e le possibilità dell’applicazione dell’analisi del DNA nel settore giudiziario, in Riv. it. Dir. proc. pen., 1993, 1307; R. ORLANDI, Il problema delle indagini genetiche nel processo penale, in Medicina legale. Quaderni camerti, 1992, 413.
([5]) G. CANZIO, Prova scientifica, ragionamento probatorio e libero convincimento del giudice nel processo penale, in Dir. pen. proc.2003, 1200, il quale precisa che le indagini tecnico-scientifiche si concretizzano per lo più in atti irripetibili determinando un limite piuttosto ampio al contraddittorio stante la deroga ex art. 111 co. 5° Cost.
([6]) L. D’AURIA, Prova penale scientifica e “giusto processo”, in Giust. pen., 2004, 20 ss.; P. ZANGANI, Diritti della persona e prelievi biologici: aspetti medico-legali, in Giust. pen., 1988, I, c. 541.
([7]) Sul punto v. P. FELICIONI, Considerazioni sugli accertamenti coattivi nel processo penale, in Ind. pen.,1999,502. 
([8]) al fine di una compiuta analisi, si menzionano, inoltre, quelle attività poco probatorie ma strumen6tali all’accertamento della capacità del testimone di rendere il proprio contributo propbante, gli accertamenti che il giudice ex se può disporre per valutare l’idoneità psico-fisica della fonte di prova (art. 196 co. 2° c.p.p.).
([9]) Corte cost., sent. 27 marzo 1962 n.30, in Giur. cost., 1962, 241 ss., con nota di R.G. DE FRANCO; la Corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 4 t.u.l.p.s., nella parte in cui consentiva alla polizia di effettuare rilievi segnaletici.
([10]) Corte cost., sent. 24 marzo 1986 n. 54, in Giur. cost., 1986, 387 ss. Tra i commenti alla suddetta si ricordano: E. BERNARDI, Prove ematologiche, poteri coercitivi del giudice e libertà personale, in Leg. pen., 1986, 365; A. FERRARO, Il prelievo ematico coatto e la violenza lecita, in Cass. pen., 1986, 868; N. MAZZACUVA-G. PAPPALARDO, Prelievo ematico coatto e accertamento della verità: spunti problematici, in Foro it., 1987, c. 717.
([11]) Corte cost., sent., 27 giugno 1996 n. 238, in Giur. cost., 1996, 2142, con nota di M. RUOTOLO, Il prelievo ematico tra esigenza probatoria di accertamento del reato e garanzia costituzionale della libertà personale. Note a margine di un mancato bilanciamento tra valori; la Consulta ha dichiarato, in riferimento all’art. 13 Cost., la parziale illegittimità dell’art. 224 co. 2° c.p.p. Ulteriori commenti sono stati proposti da: R.E. KOSTORIS, Alt ai prelievi di sangue coattivi, in Dir. pen. proc., 1996, 1091; D. VIGONI, Corte costituzionale, prelievo ematico coattivo e test del DNA, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, 1022; R. ORLANDI-G. PAPPALARDO, L’indagine genetica nel processo penale germanico: osservazioni su una recente riforma, in Dir. pen. proc., 1999, 762; M. CHIAVARIO, Commento al codice di procedura penale, Agg., III, Torino, 1998, 120; P.TONINI, La prova penale, Padova, 1999, 164. 
([12]) P. TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2004, 267, rileva come l’inerzia legislativa sia irragionevole soprattutto se si considera che la riforma richiesta dalla Consulta è fattibile, in quanto, non incide sul bilancio dello Stato.
([13]) In tal senso P. FELICIONI, Considerazioni sugli accertamenti coattivi nel processo penale: lineamenti costituzionali e prospettive di riforma, in Ind. pen., 1999, 497.
([14]) A. GARGANI, I rischi e le possibilità dell’applicazione dell’analisi del DNA nel settore giudiziario, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, 1320.
(15) V. BARBATO, F. CORRADI, V. LAGO, L’identificazione personale tramite DNA, in Dir. pen. proc., 1999, 216.
 (16) P.J. TAK, G.A. VAN EIKEMA HOMMES, Le test AND et la procédure pénale en Europe, in Revue de science criminelle, vol. IV, 1993, 683 ss.
(17) D. CHALMERS, GeneralThemes,in D. CHALMERS (a cura di), Geneting Testing and the Criminal Law, 1 ss.
(18) Le suddette operazioni devono essere compiute presso gli uffici di polizia nei quali viene accompagnato coattivamente il soggetto da identificare. L’attività è documentata con un verbale integrale ai sensi dell’art. 357 co. 2° lett. b) c.p.p., collocato nel fascicolo del P.M. In riferimento al fermo per identificazioni illuminanti sono le perplessità espresse da L. FILIPPI, Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale. Le disposizioni processuali, in Dir. pen. proc., 2005, 1217 che prospetta un contrasto con gli artt. 23 co. 3°, 24 co. 2° e 111 co. 3° Cost.
(19) Sul punto: A. SCALFATI, Potenziamento della polizia giudiziaria tra ruoli investigativi ed intrusioni de libertate, in E. ROSI, S. SCOPELLITI, (a cura di), Terrorismo internazionale: modifiche al sistema penale e nuovi strumenti di prevenzione, Milano, 2006, 91; BRICCHETTI, Prelievi del DNA senza consenso, in Guida dir., 2005, 33, 63. Contra, R. CANTONE, Le modifiche processuali introdotte con il “decreto antiterrorismo” (D.L. 144/05 conv. in l. n. 155/05), in Cass. pen. 2005, 2515, secondo il quale la nozione di materiale biologico va intesa in senso ampio.
(20) L. FILIPPI, Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale. Le disposizioni processuali, cit. 1217.
(21) V. BARBATO, G. LAGO, V. MANZARI, Come ovviare al vuoto sui prelievi coattivi creato dalla sentenza n. 238 del 1996, in Dir. pen. proc., 1997, 363.
(22) Con riferimento alla documentazione dell’attività urgente compiuta dalla p.g., si ricorda che essa è oggetto di verbalizzazione (art. 357 co. 2°, lett. e)); il relativo verbale, qualora si tratti di prelievo irripetibile, viene inserito nel fascicolo per il dibattimento.
[23] ) A. SCALFATI, Potenziamento della polizia giudiziaria tra ruoli investigativi ed intrusioni de libertate,cit. 91.
(24) A. SCALFATI, Potenziamento della polizia giudiziaria tra ruoli investigativi ed intrusioni de libertate, cit., 99.
([25] ) Parte I, titoli I, art. I-2, Carta UE: “L’Unione si fonda su valori del rispetto della dignità umana,della libertà, della democrazia, dell’eguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi diritti delle persone appartenenti ad una minoranza […]”.
(26) F. PULEIO, Banca dati DNA: basta con i rinvii. Sui prelievi servono più garanzie, in  Dir. giust., vol. 2, 2006, 125.
(27) Diffusamente, A. GAITO, Aspetti problematici in tema di prove, in A. GAITO (a cura di), Procedura penale e garanzie europee, Torino, 2006,110 ss., il quale configura il consenso come una condizione indispensabile per la tutela di valori come la libertà personale, il diritto di difesa e il diritto di non collaborare a fronte di attività invasive della sfera corporale dell’individuo.
(28) Cass. sez. I, 22 giugno 1999, Fata, in Cass. pen., 2000, 310.
(29) Cass. sez. I, 11 marzo 2003, Esposito, in Dir. giust., 2003, 34, 98; sempre A. GAITO,Aspetti problematici in tema di prove, in A. GAITO (a cura di), Procedura penale e garanzie europee, Torino, 2006, cit.
(30) A. SCALFATI, Potenziamento della polizia giudiziaria tra ruoli investigativi ed intrusioni de libertate, cit. 99.
(31) L. FILIPPI, Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale. Le disposizioni processuali, cit. 1218.
(32) G. DE LEO, Terrorismo : le « scappatoie » per uscire dall’incostituzionalità sul prelievo del DNA, in Guida dir.,2005, 37,11.
(33) G. FRIGO, Straniero “cacciato” senza garanzie, in Guida dir., 2005, 33, 79.
([34]) C. CESARI, “Prova del DNA” e contraddittorio mancato, in Giur. it., 2003, 354, in commento a Cass., sez. I, 14 febbraio 2002, Jolibert; nel caso di specie la corte che ha incidentalmente affermato che l’accertamento sul DNA eseguito dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 348 c.p.p., per essere acquisito al fascicolo per il dibattimento, avrebbe dovuto essere eseguito in base agli artt. 360 e 117 disp. att. c.p.p.
([35]) Grande Camera, 11 luglio 2006, in Cass. pen., 2006, 3843.
([36]) Così MOSCARINI, Il silenzio dell’imputato sul fatto proprio secondo la Corte di Strasburgo e nell’esperienza italiana, in Riv. it. dir. proc. pen. 2006, 611; caso Saunders c. Regno Unito, 29 novembre 1996, in Cass. pen. 1997, 2282; Quinn c. Irlanda, 21 dicembre 2000 ed Heaney e Mc Guinness c. Irlanda, 21 marzo 2001, in  Cass. pen.  2002, 1151.
([37]) Emblematico il caso GÖCMEN c. Turchia, 26 settembre 2006, in Cass. pen., 2007, 1351, in tale caso al ricorrente erano state estorte dichiarazioni confessorie mediante ripetuti maltrattamenti fisici durante un periodo di detenzione, durante interrogatori svolti senza la presenza del difensore.
 
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