Sull'art. 423 c.p.p. Il GIP non e' tenuto a notificare il verbale di udienza al contumace nell'ipotesi di variazione del capo d'imputazione.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 423, comma 1, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 22 dicembre 2003 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, nel procedimento penale a carico di K. C. ed altri, iscritta al n. 225 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2004.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Cosiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 ottobre 2006 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto in fatto
1. – Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 423, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’obbligo del giudice dell’udienza preliminare di disporre la notificazione all’imputato contumace del verbale di udienza che recepisce la modifica dell’imputazione, mediante contestazione di una circostanza aggravante, operata dal pubblico ministero sulla base degli stessi atti di indagine che hanno fondato l’esercizio dell’azione penale.
Il rimettente premette di essere investito, quale giudice dell’udienza preliminare, del processo penale nei confronti di tre persone imputate del reato di usura aggravata dall’approfittamento dello stato di bisogno della persona offesa. Nel corso dell’udienza – dopo che gli imputati, non comparsi, erano stati dichiarati contumaci ai sensi dell’art. 420–quater cod. proc. pen. – il pubblico ministero aveva modificato l’imputazione in base alla norma denunciata, contestando agli imputati medesimi l’ulteriore aggravante, prevista dall’art. 644, quinto comma, numero 1, del codice penale, del fatto commesso nell’esercizio di un’attività professionale (nella specie, quali rappresentanti di una società finanziaria): circostanza peraltro desumibile dagli atti, e in particolare dalla stessa denuncia della persona offesa e dalla documentazione ad essa allegata.
Ciò premesso, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 423, comma 1, cod. proc. pen., nei termini dianzi prospettati. La norma impugnata sarebbe lesiva, in primo luogo, del diritto di difesa, in quanto impedirebbe all’imputato di esercitare in maniera consapevole – alla luce del mutato quadro accusatorio – la propria facoltà di accesso ai riti alternativi, la cui attivazione rimane preclusa dalla formulazione delle conclusioni nell’udienza preliminare.
La richiesta dei riti alternativi si configura, difatti – al lume della giurisprudenza di questa Corte – come una modalità di esercizio del diritto di difesa, in quanto consente all’imputato di sottrarsi al rischio dell’applicazione di sanzioni più gravi, a seguito della celebrazione del rito ordinario. Le valutazioni dell’imputato in ordine alla convenienza dell’accesso a detti riti vengono peraltro a dipendere dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero: con la conseguenza che, quando l’imputazione subisce una variazione sostanziale, precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali equivarrebbe a compromettere il suo diritto di difesa.
Non gioverebbe obiettare che, scegliendo di restare contumace all’udienza preliminare, l’imputato accetta il rischio di non venire a conoscenza di una possibile modifica dell’imputazione: onde sarebbe suo onere, in vista di tale eventualità, rilasciare preventivamente una procura speciale che legittimi il proprio difensore a chiedere i riti alternativi in sua assenza. Sempre in base alla giurisprudenza di questa Corte, difatti, se l’imputato vanta un diritto intangibile a partecipare al processo, non è invece configurabile un suo simmetrico obbligo, salvo nei casi in cui la mancata partecipazione ostacoli fondamentali esigenze di giudizio, relative al compimento di atti per i quali è necessaria la presenza dell’imputato stesso: e ciò in quanto anche la scelta di non collaborare allo svolgimento del processo si traduce in una incoercibile opzione difensiva. Di conseguenza, ove l’imputato decida di non partecipare all’udienza preliminare, tale determinazione non potrebbe essere sanzionata annullando l’ulteriore suo diritto di valutare l’opportunità di accedere ai riti alternativi alla luce della modifica dell’originaria imputazione; o anche solo configurando a suo carico l’onere del rilascio di una procura speciale «preventiva» al difensore, di per sé incompatibile con un consapevole – e dunque effettivo – esercizio del diritto di difesa.
Analogamente, non varrebbe sostenere che l’imputato, non richiedendo tempestivamente i riti alternativi, si accollerebbe il rischio che il pubblico ministero proceda ad una modifica sostanziale dell’imputazione o alla contestazione di un reato concorrente. A prescindere, infatti, dal rilievo che questa Corte ha ritenuto legittimo gravare l’imputato di tale rischio solo nel caso in cui, sulla base dell’imputazione originariamente formulata in sede di esercizio dell’azione penale, egli abbia deciso di non chiedere alcun rito alternativo nei termini stabiliti dalla legge processuale, per poi vedere modificata l’imputazione nel corso del dibattimento (sentenza n. 316 del 1992 e ordinanza n. 213 del 1992); sarebbe comunque dirimente l’obiezione che la stessa giurisprudenza costituzionale ha comunque escluso la possibilità di trasferire sull’imputato i rischi dell’intempestiva attivazione dei riti alternativi, allorché la contestazione suppletiva trovi fondamento non già nelle risultanze dell’istruttoria dibattimentale, ma negli stessi atti d’indagine: configurandosi, dunque, come rimedio ad una incompletezza originaria dell’imputazione «addebitabile» allo stesso pubblico ministero (sentenze n. 101 del 1993 e n. 265 del 1994).
Il dubbio di costituzionalità non potrebbe essere d’altra parte superato ritenendo, in via interpretativa, che a fronte della modifica dell’imputazione il giudice dell’udienza preliminare debba concedere un termine a difesa. Ammesso pure, infatti, che tale soluzione sia praticabile – a dispetto della mancanza nell’art. 423 cod. proc. pen. di una previsione analoga a quella contenuta nell’art. 519 cod. proc. pen., riguardo alle contestazioni suppletive operate in dibattimento – essa non risulterebbe comunque idonea a «sanare» il difetto di conoscenza dell’imputato contumace; giacché non escluderebbe la possibilità di una mancata informazione del medesimo da parte del difensore che ha ricevuto per suo conto la contestazione (rimanendo irrilevante che ciò avvenga per difetto di diligenza del difensore o per cause indipendenti dalla sua volontà).
Né, ancora, si potrebbe ricorrere – nella medesima prospettiva del superamento dei dubbi di costituzionalità – ad una applicazione analogica dell’art. 520 cod. proc. pen., che impone la notifica al contumace, per estratto, del verbale dell’udienza dibattimentale nella quale si è proceduto alle contestazioni suppletive. Tale soluzione sarebbe stata, difatti, implicitamente esclusa da questa Corte con l’ordinanza n. 185 del 2001, relativa ad analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 423 cod. proc. pen., sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. sul presupposto della disparità di trattamento, in parte qua, tra la fase dell’udienza preliminare e quella dibattimentale: questione che la Corte stessa ha dichiarato manifestamente infondata in base al rilievo che la disparità denunciata non poteva considerarsi irrazionale, stante l’eterogeneità delle due fasi processuali; negando così implicitamente la configurabilità di un «principio immanente» alla legge processuale, che imponga di informare l’imputato contumace o assente dei mutamenti dell’«oggetto del contraddittorio» instaurato nell’udienza preliminare.
Il giudice rimettente ritiene, peraltro, che la questione di costituzionalità debba essere riproposta anche sotto il profilo, ora indicato, della violazione dell’art. 3 Cost.: e ciò a fronte dei mutamenti della giurisprudenza costituzionale in ordine alla natura dell’udienza preliminare, intervenuti successivamente alla citata ordinanza n. 185 del 2001. In detta pronuncia, difatti, la Corte aveva ritenuto giustificata, per le contestazioni suppletive nell’udienza preliminare, una disciplina difforme e più snella rispetto a quella dettata per il dibattimento, confermando il proprio consolidato orientamento secondo cui l’udienza preliminare si connoterebbe quale momento fondamentalmente orientato al controllo processuale dell’azione penale esercitata dal pubblico ministero. Successivamente, però, la stessa Corte ha riconosciuto – in particolare con le sentenze n. 224 del 2001 e n. 335 del 2002 – che, per effetto delle modifiche introdotte dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), l’udienza preliminare è venuta a caratterizzarsi sia per la completezza del quadro probatorio di cui il giudice deve disporre, sia per il potenziamento dei poteri riconosciuti alle parti in materia di prova, sia per la maggiore pregnanza delle decisioni che la concludono: tanto da doversi ormai annoverare, ai fini dell’applicazione della disciplina dell’incompatibilità del giudice, tra i giudizi idonei a pregiudicarne altri ulteriori e ad essere pregiudicati da altri anteriori. In particolare, argomentando dall’ampliamento dello spettro della regola di giudizio che presiede all’adozione della sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 cod. proc. pen. – ora in grado di scaturire anche dall’applicazione della disciplina di cui all’art. 69 cod. pen., in tema di comparazione tra circostanze – la Corte ha riconosciuto che tale sentenza presenta attualmente i connotati tipici delle statuizioni di merito.
Alla luce di tali indicazioni, peraltro, la disciplina differenziata delle contestazioni suppletive nell’udienza preliminare e nel dibattimento risulterebbe non più giustificabile. Infatti, appare ormai pacifico che nell’udienza preliminare il giudice non è più chiamato ad una mera verifica della generica idoneità dell’accusa ad essere sostenuta in giudizio, in rapporto ad una «piattaforma cognitiva eventualmente sommaria»: sarebbe, dunque, giocoforza ritenere che anche le modalità di esercizio dei diritti difensivi all’interno dell’udienza siano mutate; e che occorra, di conseguenza, ispessire il relativo apparato di garanzie sulla falsariga di quello proprio del giudizio di merito, in particolare per quanto attiene al diritto dell’imputato contumace ad essere informato delle contestazioni suppletive.
Con riferimento al caso oggetto del procedimento a quo, non si comprenderebbe, così, perché gli imputati – cui è stata contestata nell’udienza preliminare una nuova circostanza aggravante, peraltro in dipendenza di una precedente «inerzia» del pubblico ministero nell’estrarre dagli atti di indagine l’imputazione corretta – non possano di fatto accedere, in vista del loro eventuale interesse a neutralizzarne le conseguenze negative, ad un «negoziato» con l’organo dell’accusa, proponendo un «patteggiamento» che presupponga il riconoscimento delle attenuanti generiche con prevalenza sulla suddetta aggravante. E, allo stesso modo — posto che il giudice dell’udienza preliminare, ai fini dell’adozione della decisione conclusiva della fase, è chiamato a compiere la stessa valutazione rimessa al giudice del dibattimento, in punto di comparazione fra le circostanze del reato – non si comprenderebbe perché solo nel dibattimento l’imputato rimasto contumace, prima di difendersi dalla nuova contestazione di una circostanza aggravante, abbia diritto ad essere informato della modifica dell’imputazione.
La questione sarebbe infine rilevante nel giudizio a quo, in quanto sollevata prima dell’inizio della discussione che conclude l’udienza preliminare, e che segna il momento preclusivo per l’attivazione dei riti alternativi.
2. – È intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
La difesa erariale rileva come l’aggravamento della contestazione nel corso dell’udienza preliminare costituisca un rischio che – nel caso di modifica dell’imputazione basata su elementi già presenti negli atti di indagine – l’imputato è in grado di valutare, anche ai fini della scelta del rito, nel momento della fissazione dell’udienza, in conseguenza del preventivo deposito dei predetti atti a norma dell’art. 415-bis cod. proc. pen. Di conseguenza, si tratterebbe di un «rischio calcolato» dall’imputato che scelga di rimanere contumace, consentendo altresì lo svolgimento dell’udienza nelle forme ordinarie.
Il confronto con il dettato dell’art. 520 cod. proc. pen. – che prevede la notifica all’imputato contumace o assente delle nuove contestazioni operate in dibattimento – non sarebbe d’altro canto pertinente al caso di specie, dato che la predetta notifica non sarebbe finalizzata all’introduzione di riti alternativi, quanto piuttosto al generale e corretto esercizio del diritto di difesa.
Considerato in diritto
1. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 423, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’obbligo del giudice dell’udienza preliminare di disporre la notificazione all’imputato contumace del verbale di udienza che recepisce la modifica dell’imputazione, mediante contestazione di una circostanza aggravante, operata dal pubblico ministero sulla base degli stessi atti di indagine che hanno fondato l’esercizio dell’azione penale.
Ad avviso del rimettente, la norma impugnata lederebbe il diritto di difesa dell’imputato, impedendogli di avvalersi in maniera consapevole della propria facoltà di accesso ai riti alternativi entro il limite temporale finale segnato dalla formulazione delle conclusioni nell’udienza preliminare. La valutazione dell’imputato in ordine alla convenienza dei predetti riti è difatti in funzione della concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero: con la conseguenza che non informare l’imputato contumace della sopravvenuta modifica dell’imputazione – non permettendogli così di rivedere il suo apprezzamento in rapporto alla nuova caratura dell’accusa – equivarrebbe a compromettere il diritto tutelato dall’art. 24, secondo comma, Cost., del quale la richiesta dei riti alternativi costituisce espressione. Né gioverebbe obiettare che, rimanendo contumace all’udienza preliminare, l’imputato accetterebbe il rischio di non venire a conoscenza di una eventuale modifica dell’imputazione: così che sarebbe suo onere, in vista di tale eventualità, rilasciare preventivamente una procura speciale che legittimi il difensore a richiedere i riti alternativi in sua assenza. La scelta dell’imputato di non presenziare al processo si tradurrebbe difatti essa stessa in una incoercibile opzione difensiva; quest’ultima non potrebbe dunque venir «sanzionata» con la perdita del diritto di accesso ai riti alternativi alla luce della mutata imputazione, o anche solo configurando a carico dell’imputato l’onere del rilascio di una procura speciale «preventiva» al difensore, di per sé incompatibile con un consapevole – e dunque effettivo – esercizio del diritto di difesa.
Sarebbe leso altresì l’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto alla fase dibattimentale, avuto riguardo alla disciplina delle nuove contestazioni all’imputato contumace o assente, di cui all’art. 520 cod. proc. pen.: disparità di trattamento non più giustificabile alla luce dell’attuale fisionomia dell’udienza preliminare, la quale, per effetto delle innovazioni introdotte dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, avrebbe ormai perduto l’originaria connotazione di semplice momento di controllo processuale dell’azione penale esercitata dal pubblico ministero, per assumere le caratteristiche tipiche del vero e proprio giudizio di merito.
2. – La questione non è fondata.
2.1. – Quanto, infatti, alla dedotta violazione dell’art. 24, secondo comma, Cost., non è in realtà contestabile che, nella situazione considerata dal giudice a quo, l’impossibilità di proporre la richiesta di rito speciale a fronte della mutata imputazione in udienza preliminare – stanti le previsioni degli artt. 438, comma 3, e 446, comma 3, cod. proc. pen., in forza delle quali il giudizio abbreviato e il patteggiamento debbono essere richiesti dall’imputato personalmente o a mezzo di procuratore speciale – consegua ad una duplice, volontaria scelta dell’imputato medesimo: quella di rimanere contumace in detta udienza e quella di non conferire una procura speciale al difensore, che lo abiliti, in via preventiva, a presentare la richiesta di rito alternativo in sua assenza (così come consentito dall’art. 37 disp. att. cod. proc. pen.).
La modifica dell’imputazione nell’udienza preliminare – e, in particolare, la contestazione, nel corso di essa, di una nuova circostanza aggravante – non è, d’altro canto, un evento imprevedibile. In linea generale, difatti, l’udienza preliminare, nell’architettura del nuovo codice di rito (per questo verso non incisa dalla legge n. 479 del 1999), si connota per una maggior “fluidità” dell’addebito, il quale si “cristallizza” solo con il provvedimento che dispone il giudizio. Ma, soprattutto, l’evenienza di cui si discute non è imprevedibile nella specifica ipotesi che forma oggetto del quesito: vale a dire quando il mutamento si basi non su nuovi dati emersi nel corso dell’udienza, ma su elementi già desumibili dagli atti d’indagine. Si tratta, infatti, di elementi che l’imputato ha avuto modo di conoscere e di valutare – anche sotto il profilo della loro idoneità a propiziare “incrementi” dell’imputazione esposta nella richiesta di rinvio a giudizio – a seguito del deposito effettuato ai sensi dell’art. 415-bis cod. proc. pen.
Se ne deve dunque desumere che – contrariamente a quanto sostiene il giudice a quo – l’eventuale preclusione all’accesso ai riti alternativi non può considerarsi di per sé lesiva del diritto di difesa, traducendosi, nella sostanza, in un «rischio» che l’imputato volontariamente si assume con la duplice scelta dianzi indicata. Che la decisione dell’imputato di non presenziare al processo a suo carico si atteggi essa stessa come «scelta difensiva» non suscettibile di venir conculcata (sentenza n. 301 del 1994), non esclude, difatti, che tale opzione implichi comunque l’accettazione delle eventuali conseguenze sfavorevoli, derivanti dall’impossibilità del compimento di atti processuali che presuppongono la presenza del giudicabile.
Né giova alla tesi del rimettente, sotto il profilo considerato, il confronto con la previsione dell’art. 520 cod. proc. pen. Come osserva, infatti, anche l’Avvocatura dello Stato, la notifica del verbale all’imputato contumace o assente, nel caso di nuova contestazione in dibattimento, non è finalizzata, in via di principio, a consentirgli l’accesso ai riti alternativi; quanto piuttosto a permettergli l’esercizio del diritto di difesa in relazione al mutato quadro accusatorio, con la garanzia della fruizione, all’uopo, di un adeguato spazio temporale (dovendo in tal caso il dibattimento essere sospeso, con la fissazione di una nuova udienza per la prosecuzione nel rispetto dei termini indicati dall’art. 519, commi 2 e 3, cod. proc. pen.): e ciò in parallelo a quanto è previsto per l’imputato presente dal medesimo art. 519 cod. proc. pen., tramite il riconoscimento della facoltà di chiedere un termine a difesa. Aspetto, quest’ultimo, che resta peraltro estraneo al petitum del rimettente (il quale sottolinea specificamente che la concessione di un termine a difesa non varrebbe a sanare il vulnus denunciato) e, dunque, all’odierno thema decidendum.
Neppure può utilmente invocarsi, in senso contrario, la sentenza n. 265 del 1994, con la quale questa Corte – dichiarando costituzionalmente illegittimi, in parte qua, gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. – ha “rimesso in termini” l’imputato per la richiesta di applicazione della pena, nell’ipotesi di nuova contestazione dibattimentale basata su elementi già risultanti dagli atti di indagine: in particolare escludendo che, in detta ipotesi, il rischio della modifica possa essere addossato all’imputato, quale frutto di sua libera scelta.
Nell’allegare la citata decisione a sostegno delle sue censure, il rimettente non tiene, in effetti, adeguato conto della sostanziale diversità della situazione da essa avuta di mira, rispetto a quella oggetto dell’odierno quesito. La sentenza n. 265 del 1994 aveva riguardo, difatti, a modifiche dell’imputazione operate dopo la scadenza del termine per l’accesso ai riti alternativi, quali appunto quelle dibattimentali. Rispetto a tali modifiche, la contumacia dell’imputato costituisce una variabile del tutto indifferente (tanto che la sentenza in parola non se ne occupa affatto): giacché, anche presenziando al processo, l’imputato non potrebbe comunque esercitare il suo “diritto” al rito semplificato in rapporto alla nuova ipotesi accusatoria, proprio in quanto formulata allorché il termine per la relativa richiesta risulta ormai spirato. Donde la ritenuta esigenza costituzionale di un intervento correttivo, inteso ad evitare che eventuali inesattezze o negligenze del pubblico ministero – in punto di “estrazione” dell’imputazione corretta dagli atti di indagine – finissero per sviare irrimediabilmente le scelte dell’imputato relative al rito.
Nell’odierno frangente, si discute, al contrario, di modifiche dell’imputazione che intervengono prima dello sbarramento processuale ai riti alternativi: modifiche in relazione alle quali l’impossibilità di accedere ai riti alternativi non è affatto assoluta e irrimediabile, ma dipende, viceversa – secondo quanto dianzi rimarcato – da scelte processuali dell’imputato. Nella stessa sentenza n. 265 del 1994, del resto, questa Corte non ha mancato di segnalare che il problema di costituzionalità che essa intendeva risolvere in tanto veniva a porsi, in quanto l’erroneità o l’incompletezza originaria dell’imputazione non fosse stata «sanata» attraverso il «meccanismo di adeguamento delle imputazioni» nell’udienza preliminare, previsto dalla norma dell’art. 423 cod. proc. pen., oggi denunciata.
Quanto, poi, all’ulteriore censura di violazione dell’art. 3 Cost., si deve osservare che se pure è vero che – alla luce della più recente giurisprudenza di questa Corte – l’udienza preliminare si qualifica ormai come «momento di giudizio», di natura non meramente processuale (sentenze n. 335 del 2002 e n. 224 del 2001; ordinanze n. 20 e n. 90 del 2004; n. 269 e n. 271 del 2003; n. 367 e n. 490 del 2002), ciò non vale ancora, però, ad elidere le marcate differenze contenutistiche rispetto alla fase dibattimentale: rimanendone esclusa, di conseguenza, l’esigenza di una totale omologazione delle due fasi, in punto di modalità di esplicazione del diritto di difesa.
Se anche, infatti – in conseguenza segnatamente della novellazione operata dalla legge n. 479 del 1999 – i poteri istruttori del giudice dell’udienza preliminare risultano significativamente accresciuti rispetto al passato, la «piattaforma cognitiva» della sua decisione non attinge però certamente alla pienezza dell’istruttoria dibattimentale. Soprattutto, detta decisione resta calibrata – in chiave di «prognosi sulla … possibilità di successo» dell’accusa «nella fase dibattimentale» (sentenza n. 335 del 2002) – sull’alternativa fra il proscioglimento ed il rinvio a giudizio, con esclusione della possibilità di condanna. Senza considerare, poi, che la stessa sentenza di non luogo a procedere è dotata solo di una limitata efficacia preclusiva, stante la prevista possibilità di riapertura delle indagini a seguito di nuove acquisizioni (artt. 434 e seguenti cod. proc. pen.).
In tale ottica, resta dunque valido il rilievo, formulato da questa Corte in relazione ad analogo quesito di costituzionalità, per cui «il mutamento del quadro di accusa ben può ricevere …, quanto a modalità di contestazione» – e particolarmente in relazione al caso in cui l’imputato sia rimasto, per sua scelta, contumace – «una disciplina difforme e più snella rispetto a quella dettata per il dibattimento» (ordinanza n. 185 del 2001).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 423, comma 1, del codice di procedura penale sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il l'8 novembre 2006.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 novembre 2006.
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