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 Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 23 maggio 2006 (dep. 13 giugno 2006), n. 20228/2006 (603/2006)

Corrispondenza del detenuto: quando e come può essere legittimamente acquisita come prova

                            REPUBBLICA ITALIANA
                     IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
                       SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. COSENTINO Giuseppe Maria - Presidente
Dott. DI JORIO Giorgio - Consigliere
Dott. CASUCCI Giuliano - Consigliere
Dott. FUMU Giacomo - Consigliere
Dott. MACCHIA Alberto - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
                              SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) C.S., nato il ...;
2) C.M., nato il ...;
3) R.R.,nato il ...;
4) B.R., nato il ...;
5) CA.SA., nato il ...;
6) B.P., nato il ...;
7) E.V., nato il ...;
8) C.G., nato il ...;
9) R.G., nato il ...;
10) A.C., nato il ...;
11) E.S., nato il ...;
avverso la sentenza del 09/05/2005 della Corte d'Appello di Napoli;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Casucci Giuliano;
Sentite le conclusioni:
1) del Procuratore Generale, in persona del Dott. D'Angelo Giovanni, che ha chiesto il rigetto del ricorsi di B.R., B.P., R.G. ed E.S. e l'inammissibilità dei ricorsi di C.S., C. M., R.R., Ca.Sa., E.V., C.G. e A.C.;
2) dell'Avv. M., per B.R., che ha chiesto l'annullamento con o senza rinvio della sentenza impugnata;
3) dell'Avv. A.G. per B.R. e A.C., che ha chiesto l'annullamento della sentenza, previa dichiarazione di inutilizzabilità della relazione di servizio a carico di A.;
4) dell'Avv. D.A., per R., che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
5) dell'Avv. S.M., per Ca.Sa., che ha chiesto l'accoglimento dei motivi di ricorso;
6) dell'Avv. F.S. per C.S. e C.G., che ha chiesto l'accoglimento dei ricorsi.
                      SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza in data 9 maggio 2005, la Corte d'Appello di Napoli, Sezione Prima Penale, in parziale riforma della sentenza del GUP del Tribunale in sede, appellata dagli imputati A.C., B.C., B.R., B.P., B.C.G., C.E., C.M., C.G., Ca.Sa., C.S., Co.M., D.S.A., D.D., E.S., E.V., F.P., M.R., P.U., R.D., R.R., R.G. e T.V., nonchè dal P.M. nei confronti di tutti i detti imputati e nei confronti di D.C.M. e D.C.L. e dal P.G. nei confronti di tutti gli imputati condannati, dichiarata l'inammissibilita' dell'appello del P.M., assolveva B.C. dal reato di cui al capo 35 (detenzione e porto illegale di arma) perchè il fatto non sussiste, E.V. classe 1975 dal reato di cui al capo 38, limitatamente al porto della pistola, perche' il fatto non sussiste, R.D. dai reati di cui al capo 3 (partecipazione ad associazione mafiosa denominata clan V.) per non aver commesso il fatto e al capo 28 (concorso in tentata estorsione aggravata) perchè il fatto non sussiste;  determinava la pena per B.C.G. per il reato di cui all'art. 378 c.p., esclusa l'aggravante della L. n. 203 del 1991, art. 7, in un anno e otto mesi di reclusione ordinandone la sospensione condizionale; riduceva la pena inflitta a Co.Ma., Ma.Ro., P.U., T.V. a quattro anni di reclusione; a D.D., esclusa l'aggravante di cui all'art. 416 bis c.p., comma 6 a due  anni e otto mesi di reclusione; a E.V. ad un anno di reclusione, ordinandone la sospensione; a R.D. a quattro anni e otto mesi di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa; a R.G. a due anni, due mesi e venti giorni di reclusione.
Applicava la misura di sicurezza della libertà vigilata a B.R., Be., Ca., C.G., E.S., F. e R. per la durata di tre anni; ad   A., Ca.Sa., C.S., Co., M., P., R. e T. per la durata di due anni; a D. e Ri. per la durata di un anno.
Dichiarava R.D., Co.Ma., M.R., P.U. e T.V. interdetti dai pubblici uffici per cinque anni. 
Revocava l'interdizione dai pubblici uffici nei confronti di B.C.G., D.D. ed E.V. e l'interdizione legale durante la pena per
R., Co.Ma., Ma., P. eT..
Confermava nel resto l'impugnata sentenza con la quale gli imputati erano stati condannati: A.C. ad anni otto di reclusione (capo 40: associazione finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti), B.R. a tredici anni e quattro mesi di reclusione (per i capi 3 - associazione di stampo mafioso, 40, 43 e 44 - detenzione di sostanza stupefacente), B.P.  a undici anni e quattro mesi di reclusione (per capi 40 e 43), C.M. a dieci anni e otto mesi di reclusione (capo 40, esclusa l'aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 1), C.G. a dieci anni di reclusione (per i capi 5, 7, 8, 9, 12 A-B-C, 7 B, 22 A e 22 B), Ca.Sa. a sette anni e quattro mesi di reclusione (per i capi 5, 7, 8, 17 B, 22 A, 22 B, 49), C.S. a sei anni e otto mesi di reclusione (capi 22 A e 22 B), E.S. classe 1975 a tredici anni e quattro mesi di reclusione (capi 3, 31 A, 31 B, 40, 43), F.P. ad dieci anni di reclusione (capi 14 A-B-C-D, 16 e 17 B), R.R. a dieci anni e otto mesi di reclusione (capo 40).
In relazione alla posizione degli odierni ricorrenti, la Corte territoriale riteneva che: 
- per A.C. la sua identificazione nella persona apostrofata con il soprannome "B." in alcune conversazioni intercettate in casa di Mi.P. scaturiva dall'accertamento in tal senso effettuato dai Carabinieri di Volla e confortato dalla constatazione  che Mi. era stato ripetutamente contattato da utenza cellulare e da utenza fissa intestate alla madre del ricorrente (dati significativi in assenza di collegamenti tra la donna e Mi.); da corrispondenza epistolare significativa; da visita effettuata in casa il giorno successivo alla scarcerazione.
Il contenuto delle conversazioni oggetto di intercettazione (oggetto di specifica citazione) e riferibili all'A. davano conto del suo inserimento nell'organizzazione criminale. Sussisteva l'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, per la dimostrata consapevolezza della finalità agevolativa dell'organizzazione camorristica V./Mi..
Il gravame del P.G. doveva essere accolto solo per l'applicazione della pena accessoria della libertà vigilata, che, in  considerazione del livello di pericolosità dimostrata, si quantificava in due anni;
- per B.R., in ordine ai delitti di cui ai capi 43 e 44 (concorso nei delitti di detenzione illegale di 5 kg di hashish e 500 grammi di cocaina) la prova della responsabilità era individuata nel contenuto di conversazioni oggetto di intercettazione nel corso delle quali l'imputato ammetteva l'acquisto delle sostanze stupefacenti (parte della cocaina era stata sequestrata). Quanto al suo inserimento nel clan camorristico V. (capo 3) e nell'organizzazione criminale
finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (capo 40) la prova era ancora data dal contenuto delle conversazioni  intercettate e analiticamente esaminate. I precedenti penali erano di ostacolo al riconoscimento delle attenuanti generiche e la pena, quantificata in misura, prossima al minimo edittale con aumenti contenuti per la continuazione,  non era suscettibile di riduzione. Doveva  essere applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata, per effetto
della condanna per il delitto di cui all'art. 416 bis c.p., da quantificare in tre anni di durata; 
- per B.P., affermata come certa la sua identificazione nella persona soprannominata  "L." per effetto di quanto accertato dai Carabinieri di Volla, la sua partecipazione all'associazione criminale finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti di cui al capo 40 era affermata sulla scorta del contenuto delle conversazioni oggetto di intercettazione ambientale confortato da accertamenti e controlli personali effettuati dalla polizia giudiziaria in ordine all'acquisto e spaccio di sostanze stupefacenti. Per il concorso nel delitto di cui al capo 43 valevano le considerazioni espresse per B.R.. I precedenti anche specifici erano di ostacolo al riconoscimento delle attenuanti generiche e la pena, quantificata nel minimo per il delitto base con aumento contenuto per la continuazione, non poteva essere diminuita. Andava applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di tre anni; 
- per C.M. e R.R. la prova della loro partecipazione, con il ruolo di acquirenti e venditori di hashish, era individuata nel contenuto delle conversazioni oggetto di intercettazione nella casa di Mi., laddove gli stessi ricorrenti davano atto dell'attività svolta nella "piazza" di ... attraverso una loro sub-organizzazione di trenta persone (non essendovi contrasto tra i due su tale indicazione numerica), della puntualità nel versamento delle quote da quasi dieci anni. Non   sussisteva la denunciata illogicità nella individuazione del loro ruolo, perchè l'indicazione di R. come possibile acquirente di una partita di hashish rientrava nella discrezionalità di Mi. che ben poteva rifornirsi da altri specie dopo  le lamentele di Be. per la qualità della droga fornita da Ca.. Sussistevano le aggravanti del numero delle persone e  della natura armata dell'organizzazione mentre non ricorrevano i presupposti dell'attenuante della minima partecipazione al fatto, stante il ruolo accertato, e delle attenuanti generiche, in considerazione dei precedenti penali a loro carico, mentre, in accoglimento dell'appello del P.G. andava applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata  per la durata di tre anni;
- per C.G., Ca.Sa. e C.S., tutti collaboratori di giustizia, veniva confermato il diniego delle attenuanti generiche in
considerazione della gravità dei reati loro addebitati e dei precedenti penali.
Le doglianze di Ca.Sa. relative al mancato  riconoscimento dell'attenuante di cui al D.P.R. n.309 del 1990, art.74, comma 7, per il delitto di cui al capo 22 B, all'attribuzione del ruolo di capo dell'associazione e alla ritenuta sussistenza delle doppie aggravanti per il delitto di cui al capo 49 erano infondate, perchè l'attenuante in questione era stata ritenuta sussistente e calcolata per il delitto di cui al capo 22 A, (ritenuto più grave e sulla pena del quale era stato effettuato l'aumento per la ritenuta continuazione); perchè egli era il referente nell'area di ... del clan A. per il periodo in cui il capo A.A. si era trasferito a Roma; perchè, pur se non conciliabile l'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 con quella dell'art. 628 c.p., comma 3, n. 3, il dato era privo di rilevanza ai fini della pena in quanto entrambe le aggravanti erano state elise dal giudizio di prevalenza delle riconosciute attenuanti speciali.
La doglianza di C.G. in relazione al capo 12 B era infondata per la non applicabilità dell'art. 649 c.p.p., non essendovi prova che l'arma usata per attentare alla vita di R.A. fosse la stessa usata per il tentato omicidio di A.D., sfociato nell'uccisione  di Te.V. e comunque si sarebbe trattato di due condotte autonome in continuazione. La pena andava confermata, anche se ricalcolata per la rilevata fondatezza dell'appello del Procuratore  Generale mediante l'individuazione di una pena base più mite. 
Le doglianze di C.S., relative ad asserito errore di calcolo della diminuzione della pena per effetto dell'attenuante di cui alla Legge n.203 del 1991, art. 8 e al mancato riconoscimento della continuazione tra i fatti oggetto di giudizio e quelli già giudicati dalla Corte di Assise di Napoli del 3.10.2003, erano infondate perchè il GUP aveva fatto corretta applicazione dell'art. 63 c.p., u.c., ed aveva dato corretta giustificazione della insussistenza della continuazione tra il   fatto di aver partecipato ad associazione criminale finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti e gli omicidi tesi
all'eliminazione dei concorrenti trattandosi di risoluzioni sorte in momenti diversi e basate su esigenze e situazioni imprevedibili. In accoglimento dell'appello del P.G., andava applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata quantificata in tre anni per C.G. e in due anni per ciascuno degli altri due;
- per E.S., esclusa la fondatezza dell'eccezione di nullità della prima sentenza per mancanza di motivazione, la
responsabilità per i delitti di tentata estorsione e di incendio di cui ai capi 31 A e 31 B era provata dal contenuto
dell'intercettazione ambientale, riscontrata dalla successiva constatazione dell'incendio in danno dei capannoni della  ditta XX, a nulla rilevando la mancata denuncia del titolare V.P. in considerazione del dato notorio che raramente le vittime di tali reati li denunciano. Il contenuto di precedente intercettazione (avente ad oggetto altro episodio estorsivo) dava conto del suo ruolo di partecipe dell'associazione facente capo a Mi. e V. di cui al capo 3. In ordine alla partecipazione all'associazione criminale finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti di cui al capo 40 la prova era  data dal contenuto delle conversazioni intercettate (già in parte oggetto di esame per le posizioni di B.R. e A.C. e
specificamente analizzata per la specifica posizione di E.) e dal contenuto della lettera spedita il 30.04.2001 dal ricorrente a Mi. carcerato in cui lamentava le difficoltà che incontrava in assenza del Mi. per la gestione della "piazza", si qualificava come "giovane onorato" e si indicava come "T.23"  così identificandosi per la persona denominata "T.23" nelle conversazioni intercettate. Confermata la configurabilità del concorso formale tra i delitti di cui all'art. 416 bis c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e la sussistenza dell'aggravante della Legge n. 203 del 1991, art. 7, per tale ultimo delitto i cui proventi erano finalizzati ad agevolare il clan camorristico. 
Il riferimento all'acquisto di ingenti quantità di hashish risultante dalle intercettazioni e i precedenti penali escludevano le invocate attenuanti del D.P.R. citato, art. 74, comma 6 e dell'art. 62 bis c.p.. La pena non poteva essere ulteriormente diminuita perchè quantificata in misura prossima al minimo e con aumenti adeguati per la continuazione. In accoglimento dell'appello del P.G. doveva essere inflitta la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di tre anni; 
- per E.V., affermata l'utilizzabilità dei c.d. brogliacci essendosi proceduto con rito abbreviato, tenuto conto della  frequenza delle telefonate e della conseguente conoscenza del ruolo di Mi., confermava la valutazione del primo giudice sul significato della proposta di vendita di un "vestitino bello, un 9x21" come riferito ad un arma di quel calibro. Riteneva di dover assolvere l'imputato dall'addebito di porto della stessa e di escludere che si trattasse di arma da guerra, in mancanza della prova relativa, sicchè, concesse le attenuanti generiche per l'incensuratezza comportanti una
diminuzione di pena pari all'aumento quantificato per l'aggravante di cui alla Legge n. 203 del 1991, art. 7, quantificava la pena, previa riduzione per il rito, in un anno di reclusione con il beneficio della sospensione condizionale;
- per R.G., la prova della sua partecipazione all'associazione criminale di tipo mafioso di cui al capo 1 era individuata nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia C.G. e C.S. (che indicava il ruolo di "P." come guardaspalle di P.A., capo di uno dei clan esistenti in ..., riscontrate dal contenuto della conversazione oggetto di intercettazione svoltasi tra Ri.   e P.F. all'interno di autovettura, nella quale si commentava l'acquisto di due chilogrammi di droga e il pentimento dei fratelli C.. La pena veniva tuttavia ridotta per effetto dell'esclusione dell'aggravante dell'art. 416 bis c.p., comma 6, e delle riconosciute attenuanti generiche.
Contro tale decisione hanno proposto tempestivo ricorso i suddetti imputati, che ne ha chiesto l'annullamento per i seguenti motivi:
1) A.C.: 
- mancanza e manifesta illogicità della motivazione per la ritenuta identificazione con la persona soprannominata  "b.",  con giustificazioni pretestuose,specie per un incensurato, in assenza di ulteriori riscontri, anche perchè solo in una delle conversazioni intercettate uno degli interlocutori viene chiamato in tal modo sicchè non è spiegato per quale motivo anche nell'altra si affermi l'intervento del ricorrente;
- inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione all'aggravante di cui alla L. n.203 del 1991, art.7, per mancata indicazione degli elementi su cui fondare il convincimento che egli agisse nella consapevolezza di avvantaggiare il gruppo mafioso e che i proventi fossero destinati al mantenimento in vita di esso e non essendo ipotizzati atteggiamenti riconducibili al "metodo mafioso"; inosservanza di norme processuali;
2) B.R.:
- difetto assoluto di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), perchè la Corte di Appello si è limitata a riportare pedissequamente le intercettazioni telefoniche, che in quanto mezzi di ricerca della prova e non prove ex se, in assenza di riscontri che, in relazione al delitto di cui al D.P.R. n.309 del 1990, art.74, individuino la sua cointeressenza. Solo in via di ipotesi si afferma che il riferimento a duecento magliette di Versace sia riconducibile a sostanza stupefacente. Nè è spiegato quale fosse il suo ruolo all'interno del sodalizio. Quanto alla ritenuta partecipazione all'associazione di stampo mafioso i dialoghi registrati nell'abitazione in casa di Mi. danno solo conto del mancato  compimento di una rapina, senza alcuna valutazione critica delle intercettazioni. Sulla richiesta di riduzione della pena  e della concessione delle generiche erroneamente la Corte di appello ne aveva giustificato l'esclusione richiamando "i vari precedenti" laddove dal certificato penale risulta una sola condanna a pena sospesa per furto risalente al 1997;
3) B.P.:
- violazione dell'art.125 c.p.p., lett. b) ed e) in relazione all'art. 606 c.p.p., lett. b), per avere la sentenza impugnata dedotto la responsabilità per il reato di cui al capo 43 mediante rinvio "alle osservazioni già svolte sul punto per B.R." con motivazione per relationem non consentita in quanto le due posizioni non sono identiche, il ruolo attribuito al ricorrente nell'ambito dell'associazione essendo quella di partecipe mentre il B. risulta essere tra i promotori;
- violazione degli artt. 133 e 62 c.p. per non avere dato conto della valutazione di tutti gli elementi da considerare ai fini della quantificazione della pena e dell'eventuale concessione delle attenuanti generiche concedibili anche per il comportamento processuale;
- insufficiente motivazione sulle ragioni poste a giustificazione della sentenza di condanna per non avere esaminato tutti gli elementi disponibili per la conferma della sentenza di primo grado;
4) C.M. e R.R.:
- inosservanza o erronea applicazione della legge sostanziale penale per violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, ex art. 606 c.p.p., lett. b), per mancanza di individuazione degli elementi concreti idonei a collegare il delitto contestato con la condotta osservata, con analoga  eccezione in riferimento alla contentata aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art.7; 
- manifesta illogicità della motivazione in considerazione della rilevata frattura tra fatti esteriori riferiti ad attività di spaccio e le condotte poste in essere da entrambi gli imputati, perchè dai colloqui intercettati non possono trarsi
elementi univoci della loro partecipazione all'associazione criminale;
5) C.G.:
- inosservanza o erronea applicazione della legge penale e/o mancanza e manifesta illogicità della motivazione in  quanto in accoglimento dell'appello del Procuratore Generale era stata erroneamente negata la già concessa attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 7, per il reato di cui al capo 12 (tentato omicidio aggravato) perchè esso ha piena attinenza con i reati in materia di stupefacenti stante la riconosciuta continuazione. In ogni caso erroneamente è stato ritenuto più grave il delitto di cui al capo 12 (per il quale il legislatore stabilisce che, la pena non possa essere inferiore a dodici anni di reclusione) tale essendo invece quello di cui al capo 22 A (pena fissata dal
legislatore in misura inferiore a venti anni) per il quale però poteva essere concessa anche l'attenuante di cui al D.P.R.  citato, art.74, comma 7, che consente la diminuzione fino a due terzi e quindi una quantificazione in concreto inferiore a quella irrogata;
6) Ca.Sa., per inosservanza o erronea applicazione della legge penale e carenza di motivazione:
- in relazione alla mancata concessione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7, per il mancato riconoscimento della diminuente citata in relazione al delitto di cui al capo 22 B;
- in relazione all'applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 1, in quanto il ricorrente è entrato nell'associazione criminale quando era già costituita con il ruolo di partecipe;
- alla mancata concessione dell'attenuante di cui all'art.62 bis c.p. perchè sua finalità è quella di mitigare la pena e può concorrere con le diminuenti speciali già riconosciute;
- per incompatibilità tra l'aggravante di cui all'art. 628 c.p., comma 3, n.3 e quella di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7;
7) C.S., per inosservanza o erronea applicazione della legge penale e/o per mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione:
- per non avere la Corte di appello dato risposta alla specifica doglianza mossa con l'impugnazione sulla quantificazione della pena base e della conseguente quantificazione della diminuzione applicata a norma del D.P.R. n.309 del 1990,art. 74, comma 7;
- per avere erroneamente applicato l'attenuante speciale di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8, e la regola stabilita dall'art.63 c.p., sicchè dopo la diminuzione per il D.P.R. n.309 del 1990, art. 74, comma 7, doveva essere applicata l'ulteriore diminuzione da un terzo alla metà per la L. citata, art.  8; 
- per avere erroneamente escluso la continuazione tra i fatti per cui è processo e quelli di cui alla sentenza del 3.10.2003 della Corte di Assise di Napoli in contraddizione con la motivazione adottata per ritenere invece la continuazione tra i reati oggetto di contestazione nel presente procedimento;
8) E.S.: 
- motivazione apparente, manifestamente illogica e non pertinente rispetto alle doglianze mosse, per avere la Corte di appello utilizzato la corrispondenza epistolare di M.P., dichiarata inutilizzabile dal GUP a seguito dell'eccezione difensiva in data 17.1.2004 per l'illegittimità dell'acquisizione, con conseguente mancanza di prova in ordine all'identificazione con l'odierno ricorrente con la persona chiamata "...". In ogni caso la motivazione era solo apparente in ordine alla sussistenza di apporto apprezzabile e concreto sul piano causale all'esistenza o al rafforzamento della presunta associazione di stampo mafioso, in quanto gli indizi rilevabili dalle conversazioni intercettate erano privi dei  requisiti di gravità precisione e non equivocità;
- omessa motivazione sulla sussistenza della partecipazione del ricorrente ai due sodalizi criminali non avendo la sentenza impugnata dato risposta alle doglianze mosse con l'atto di appello, senza alcuna considerazione sulla problematica attinente al concorso di persone nel reato e sulla partecipazione all'associazione criminale D.P.R. n.309  del 1990, ex art. 74, mentre dagli atti risultava acclarata la sola ipotesi di concorso di persone nel reato di cui al D.P.R. cit., art. 73. Sulla esclusione dell'ipotesi attenuata per la commissione di fatti di lieve entità non poteva darsi decisivo
rilievo solo al fattore quantitativo. Quanto alla ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art.7, è stata omessa ogni motivazione in ordine alla sussistenza del dolo specifico;
- inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione al capo 31, quanto al reato di cui all'art. 423 c.p.
difettandone gli elementi sia sotto il profilo aggettivo che soggettivo (essendosi trattato solo di danneggiamento senza pericolo di incendio) e, quanto al reato di cui all'art. 629 c.p., perchè la conversazione intercettata non dava conto di alcuno scopo ritorsivo nè dell'esistenza di minacce per estorcere danaro, fatti del resto esclusi dalla presunta persona offesa;
- violazione di legge ed omessa motivazione con riferimento agli artt. 62 bis, 132, 133 c.p. non potendo negarsi le attenuanti generiche per il solo curriculum criminale, essendo esse la risultante di tutti gli elementi circostanziali nell'ambito della previsione di cui all'art. 133 c.p..
Anche il P.M. aveva chiesto l'irrogazione di una pena più mite;
9) E.V.:
inosservanza delle norme processuali per inutilizzabilità dei brogliacci, costituenti l'unico elemento di prova, circostanza segnalata tempestivamente sicchè ne sarebbe dovuta scaturire attività di integrazione probatoria;
- mancanza e manifesta illogicità della motivazione sulla interpretazione data alla conversazione telefonica in occasione della quale tale "Mil." chiese a M.P. se gli interessava un "vestitino bellino" 9x21, senza nessun accertamento sul contesto e sul tono scherzoso della conversazione. In ogni caso non poteva escludersi che la detenzione riguardasse una pistola giocattolo. Mancava inoltre la giustificazione sulla sussistenza dell'aggravante di cui al D.L. n. 309 del 1990, art. 7, sotto il profilo della consapevolezza di agire nell'interesse del gruppo;
10) R.G.:
- violazione dell'art. 192 c.p.p., per mancanza di riscontri alle dichiarazioni accusatorie del collaboratore di giustizia C.S., perchè la conversazione oggetto di intercettazione si riferisce, a fatti che nulla hanno a che fare con il reato associativo;
- violazione degli artt. 62 bis, 133 e 163 c.p., perchè la pena andava ridotta nel minimo edittale con concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
            
                             MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Ricorso di A.C.:
1.1. Il primo motivo di ricorso, che denuncia mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sua identificazione nella persona apostrofata nelle conversazioni intercettate con il soprannome di "b.", è infondato, perchè la sentenza impugnata, a sostegno di tale assunto, non si limita a richiamare l'accertamento effettuato sul punto dai Carabinieri di Volla e ad esprimere la considerazione che si tratta di nomignolo poco usuale, ma individua una serie di circostanze specifiche (telefonate, lettere) a dimostrazione dello stretto rapporto di frequentazione con M.P., in casa del quale sono state effettuate le intercettazioni in questione, circostanze in relazione alle quali il ricorrente non formula alcuna critica.
L'assunto, secondo il quale solo in una delle due conversazioni prese in considerazione uno degli interlocutori è appellato con tale nomignolo, è dedotto in maniera inammissibile con deduzione in fatto ed in ogni caso è manifestamente infondato, in quanto dalla sentenza di  primo grado, che riporta stralci delle conversazioni intercettate, risulta che in entrambe le conversazioni prese in considerazione uno degli interlocutori si rivolge all'altro chiamandolo  "b."; (pagg. 53 e 152 della sentenza del GUP);
1.2. Il secondo motivo di ricorso, che denuncia, inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all'aggravante di cui alla L. n.203 del 1991, art. 7, è dedotto in maniera inammissibile, mediante il generico riferimento  al "materiale probatorio in atti", senza muovere, alcuna specifica critica all'iter argomentativo sul punto della sentenza impugnata, che da conto di una serie di circostanze di fatto (assiduità di frequentazione con M.P. e di altri suoi sodali) dalle quali desume, in maniera non manifestamente illogica, la consapevolezza della caratura criminale di costoro e quindi della destinazione dei proventi delle attività attinenti al traffico di sostanze stupefacenti al mantenimento in vita dell'associazione di stampo mafioso;
1.3. Il terzo motivo di ricorso, che denuncia inosservanza di norme processuali, è solo enunciato e quindi è inammissibile per assoluta genericità.
Manifestamente infondata è l'eccezione di inutilizzabilità della relazione di servizio dei Carabinieri di Volla perchè il divieto di cui all'art. 195 c.p., comma 7, è previsto solo per la testimonianza e perchè comunque il riferimento non è de  relato, ma frutto della percezione diretta degli agenti operanti.
2. Ricorso di B.R.:
2.1. Il primo motivo di ricorso che denuncia difetto assoluto di motivazione, ex art. 606 c.p.p., lett. e), è infondato.
La sentenza impugnata non si è limitata a riportare pedissequamente il contenuto delle intercettazioni, ma ha provveduto al vaglio critico del loro contenuto, in tal modo ponendo a fondamento della decisione non l'intercettazione  in quanto mezzo di ricerca della prova ma il risultato di tale attività, costituito dal contenuto delle conversazioni e  delle esplicite ammissioni nel corso di esse effettuate dal ricorrente.
L'assunto, secondo il quale l'oggetto di tale conversazione (vale a dire il traffico di sostanze stupefacenti) sarebbe  stato preso in considerazione in "assenza assoluta" di riscontri, è destituito di fondamento, perchè la Corte distrettuale
ha dato atto del sequestro di una rilevante quantità di droga in stretta connessione, con una conversazione oggetto di
intercettazione.
La critica specifica mossa all'interpretazione data alla telefonata del 28 luglio 2001 in occasione della quale B. informa  Mi. di avere a disposizione duecento "magliette di Versace" è formulata in maniera inammissibile in quanto estrapola dal contesto della motivazione un unico passaggio argomentativo al fine di denunciarne la non congruità e di formulare
la valutazione del significato meramente ipotetico di quello attribuito alla frase, proponendone in conclusione una  alternativa, in tal modo sconfinando nel merito.
L'addebito di non aver individuato neanche il ruolo del ricorrente all'interno dell'associazione criminale finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, è infondato perchè il suo inserimento nel gruppo al vertice dell'articolata struttura è ampiamente illustrato nella motivazione della sentenza impugnata, in quanto partecipe di riunioni, in occasione delle quali si decideva l'acquisto o la vendita di cospicue partite di droga o ci si accordava per il reperimento del danaro necessario o si discuteva della qualità delle sostanze.
2.2. Il secondo motivo di ricorso che denuncia mancanza di motivazione, con riferimento alla partecipazione del B. all'associazione per delinquere di stampo camorristico, è svolto in maniera inammissibile mediante una generica critica  alla specifica motivazione che ha individuato il contenuto significativo di svariate conversazioni.
L'assunto secondo il quale le attività criminali di cui nelle conversazioni si è parlato sarebbero menzionate solo in astratto è infatti disancorato, dal contenuto specifico della motivazione sul punto della sentenza impugnata. Ugualmente in maniera generica si afferma che il GIP prima e la Corte di Appello poi hanno valorizzato alcune captazioni telefoniche senza svolgere alcuna indagine critica, vero essendo al contrario che dal loro contenuto si è desunta la partecipazione del ricorrente ad una serie di attività criminose (rapine, estorsioni) con espressa considerazione del suo ruolo apprezzato dai vertici del clan (come desunto dal dialogo intercorso tra Mi. e V.).
2.3. L'ultimo motivo di ricorso, che denuncia l'errore in cui la Corte territoriale sarebbe incorsa nell'indicare l'imputato come "gravato da vari precedenti" al fine di ritenerlo non meritevole delle attenuanti generiche in quanto dal certificato  penale risulterebbe a suo carico una sola precedente condanna per furto con pena sospesa risalente al 1997, è infondato in quanto dal certificato penale in atti risulta che il ricorrente è stato condannato oltre che nel 1997 (a norma dell'art.444 c.p.p. per tentata rapina, lesioni personali e resistenza a pubblico ufficiale) anche nel 1999 per contrabbando e nel 2000 per detenzione abusiva di materie esplodenti.
3. Ricorso di B.P.:
3.1. Il primo motivo di ricorso, che denuncia violazione  dell'art. 125 c.p.p., comma 3, in relazione all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) per avere la sentenza impugnata dedotto la responsabilità del ricorrente in ordine al reato di cui al capo 43 mediante rinvio "alle osservazioni già svolte sul punto per B.R.", è infondato in quanto la circostanza che quest'ultimo nell'ambito del sodalizio criminale fosse uno dei promotori mentre il ricorrente solo partecipe è irrilevante, perchè nel caso si tratta di attribuire la responsabilità per una serie di reati fine per detenzione a fine di spaccio di sostanza stupefacente del tipo hashish.
Il richiamo alle osservazioni svolte per B. comporta che esse debbono essere integralmente trasfuse per la parte che investe la posizione del Be.. In tal senso è quindi significativa la parte della motivazione che si occupa del contenuto dell'intercettazione del 5 ottobre 2001 in cui si discuteva dell'acquisto da lui fatto di una rilevante partita di droga risultata poi di qualità scadente e dell'intenzione, da lui manifestata, di vendicarsi, conversazione del resto presa  espressamente in considerazione per analizzare la sua responsabilità anche per il reato associativo;
3.2. Il secondo motivo di ricorso, che denuncia violazione di legge in relazione al trattamento sanzionatorio, è infondato, in quanto non tiene conto che la sentenza impugnata ha puntualmente giustificato il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche in considerazione dei numerosi precedenti penali di cui due specifici ed
ha rilevato che la pena per il più grave reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, è stata quantificata nel minimo, con aumento contenuto per la continuazione;
3.3. L'ultimo motivo di ricorso che denuncia insufficienza della motivazione sulle ragioni che giustificano la sentenza di  condanna, è inammissibile per genericità, perchè si limita ad addebitare alla sentenza impugnata di non aver esaminato tutti gli elementi disponibili ovvero di non averli concretamente interpretati disattendendo qualsiasi sforzo teso ad una completezza e logicità del discorso argomentativo, ma senza alcun specifico riferimento.
L'art. 581 c.p.p., lett. c), impone che ogni richiesta deve essere accompagnata in maniera specifica dalle ragioni in diritto e dagli elementi in fatto a suo sostegno. In difetto, la sanzione dell'inammissibilità è prevista dal successivo art. 591.
4. Ricorso di C.M. e R.R.:
4.1. Il primo motivo, che denuncia inosservanza o erronea applicazione della legge penale per violazione del D.P.R. n. 390 del 1990, art.74 ma che in realtà lamenta anche omessa motivazione nella valutazione delle ragioni della difesa, è inammissibile per genericità, in quanto l'accertamento della sussistenza del dolo di partecipazione all'associazione finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti è desunta da fatti concreti, individuati nei passaggi significativi delle conversazioni oggetto di intercettazione svoltesi in casa di Mi..
A fronte della analitica motivazione della sentenza, i ricorrenti si limitano a citare principi di diritto desunti dalla giurisprudenza di legittimità per poi affermare che "da una semplice lettura ... della sentenza ... Non è dato ravvisare  alcun aggancio concreto tra il delitto contestato e la condotta osservata nell'occorso...".
Per gli stessi motivi è inammissibile la doglianza mossa in ordine alla ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7;
4.2. Il secondo motivo di ricorso, che denuncia manifesta illogicità della motivazione, è ugualmente inammissibile per genericità, perchè si limita a richiamare le argomentazioni svolte nel primo motivo;
4.3. Il ricorso deve in conseguenza essere dichiarato inammissibile, con condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e di ciascuno di essi al versamento, in favore della Cassa delle Ammende, di somma che, in ragione dei motivi di inammissibilità, si stima equo quantificare in Euro 600,00.
5. Ricorso di C.G.:
5.1. Il primo motivo di ricorso, che denuncia erronea applicazione della legge penale e mancanza o manifesta illogicità della motivazione per avere la Corte di Appello in accoglimento dell'impugnazione del Procuratore Generale escluso l'applicabilità dell'attenuante speciale di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art.74, comma 7 è infondato.
Il dato letterale del citato comma 7 non si presta ad interpretazioni diverse da quelle risultanti dal testo della legge: solo le pene previste dai commi da 1 a 6 dell'art. 74, sono assoggettabili alla diminuzione prevista in favore di chi si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato (associativo) o per sottrarre all'associazione risorse decisive per la commissione dei delitti.
Al diverso delitto di tentato omicidio, ancorchè commesso in continuazione con i reati in materia di stupefacenti, non può quindi applicarsi la diminuente in esame;
5.2. Il secondo motivo di ricorso, che denuncia violazione di legge per avere i giudici di merito, erroneamente, individuato come delitto più grave quello di cui al capo 12 (tentato omicidio aggravato per il quale la legge stabilisce pena non inferiore a dodici anni per il disposto dell'art. 56 c.p., comma 2), anzichè, quello di cui al D.P.R. n.309 del 1990, art. 74, comma 1 (per il quale la legge stabilisce pena non inferiore a venti anni) è fondato.
Unico criterio di ancoraggio, che abbia un minimo di certezza, sia quello di riferirsi alle valutazioni astratte, compiute dal legislatore, sul presupposto spesso dimenticato, che la modifica del 1974, non ha inteso alterare i presupposti del reato continuato, ma solo renderli applicabili mediante procedimento estensivo ad ipotesi per le quali l'istituto non risultava operante.
Da ciò discende che il concetto di violazione più grave da cui prendere le mosse quanto al calcolo delle pene non è stato in alcun modo intaccato e che nella vigenza originaria dell'art. 81, nessuno aveva mai dubitato che la dizione
predetta dovesse riguardare e riferirsi ai consueti indici di gravità adoperati anche in altre occasioni, ad esempio in materia di competenza (art. 4 c.p.p.) o di connessione (art.  16  c.p.p.). 
In tali norme non vi è dubbio che il legislatore ebbe a prescegliere il criterio quantitativo con riferimento cioè alla pena prevista dalla legge quale unico criterio per riconoscere la gravità di un reato.
Del pari ovvio era stato sempre ritenuto che, per la determinazione del reato più grave ai fini della continuazione, si dovesse partire dalla violazione punita dalla legge più severamente e, sulla pena in concreto poi inflitta per tale illecito, applicare l'aumento di pena per la continuazione contenuta nel limite massimo del  triplo; con l'unico limite dell'impossibilità di inflazione di una pena superiore a quella che sarebbe risultata ove le violazioni fossero ritenute reati distinti (Cass. S.U. del 27 marzo 1992 n. 4901).
Nel caso si tratta di delitti per i quali, poichè il legislatore ha fissato la pena solo nel minimo, il massimo è identico (ventiquattro anni di reclusione, a norma dell'art. 23 c.p.).
Deve in conseguenza farsi ricorso al criterio sussidiario individuato dall'art. 16 c.p.p., comma 3, per il quale, in caso di parità dei massimi, è più grave il reato per il quale è fissata la pena più elevata nel minimo, senza che in tale calcolo possano avere influenza le attenuanti (l'art. 4 c.p.p. consente di tener conto solo delle aggravanti ad effetto speciale, o per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa).
In conseguenza la sentenza nei confronti di C.G. deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di  Appello di Napoli che, adeguandosi ai principi di diritto enunciati, proceda a nuovo giudizio sul punto.
6. Ricorso di Ca.Sa.:
6.1. I primi tre motivi di ricorso sono inammissibili, perchè ripropongono, senza alcuna modifica, i motivi di doglianza già formulati con l'atto di appello.
L'unico elemento di novità è costituito dall'aggiunta, alla fine della riformulazione di ciascuno dei motivi di impugnazione, della generica doglianza secondo la quale i giudici di secondo grado hanno confermato la sentenza di primo grado con una motivazione palesemente carente e quasi di stile, senza alcuna specificazione in ordine a tale apodittico assunto, laddove la sentenza di appello ha dato conto dettagliato dei motivi per i quali ha ritenuto di dover confermare la sentenza del GUP;
6.2. L'ultimo motivo di ricorso ripropone ancora in maniera identica l'ultima richiesta formulata, senza considerare la motivazione adottata dalla Corte di merito la quale ha ritenuto fondata ma irrilevante la doglianza relativa al capo 49, perchè sul piano sanzionatorio l'effetto di entrambe le aggravanti (quella di cui all'art. 628 c.p.p., comma 3, n. 3 e quella della L. n. 203 del 1991, art.7) è stato eliso dal giudizio di prevalenza delle riconosciute attenuanti speciali. 
Il ricorso è quindi inammissibile per genericità.  
Tuttavia la motivazione adottata dalla Corte territoriale è errata a va corretta, a norma dell'art.619 c.p.p., confermando la regola interpretativa secondo la quale: "l'art.628 c.p., comma 3, n.3 individua una circostanza di posizione, in relazione  alla quale rileva l'appartenenza all'associazione come fatto storico, e non l'agire, incriminato dall'art.416 bis c.p. (Cass. 16/3/90 n. 03792 rv 183722 e, per inciso, Cass. S.U. 3/9/99 n. 00016 RV. 214004): pertanto esula, per ciò che concerne i rapporti tra le due citate norme, la figura del reato complesso di cui all'art. 84 c.p..
Quest'ultima, infatti, presuppone la fusione in un'unica fattispecie criminosa di diversi fatti costituenti autonomi reati   (Cass. 19/12/99, n. 16616 rv. 186021; Cass. 1/12/84 n. 10711, rv. 166917; Cass. 21/1/83 n. 00441 rv. 156989); e di conseguenza essa non ricorra là ove un reato è preso in considerazione esclusivamente per il suo collegamento con un altro collegamento che può essere teleologico (art.61 c.p., n.2) oppure soggettivo, cioè determinato dalla peculiarità che l'autore di uno degli illeciti penali sia al contempo autore di quello ulteriore.
Quanto è stato puntualizzato incide indubbiamente sullo specifico problema per il quale si discute.
Infatti, escluso che la partecipazione contemplata dall'art. 628 c.p., comma 3, n. 3 si traduca in addebito di attività mafiosa, la compatibilità dell'aggravante di cui al D.L. n. 152 del  1991, art. 7, viene in definitiva, a porsi nuovamente in relazione all'art. 416 bis c.p., tant'è che la tesi più restrittiva si richiama, passando attraverso la qualifica di partecipante, all'assunto, che l'impiego del metodo mafioso ed il fine specifico dell'agevolazione siano ricompresi nella  condotta incriminata a titolo di associazione qualificata.
Poichè, in base agli argomenti in precedenza sviluppati, tale situazione va negata e siccome, non si individuano elementi che denotino una volontà, legislativa contraria all'operatività della aggravante introdotta dalla legge speciale  nella concorrenza di quella posta dall'art. 628 c.p., comma 3, n. 3, ne discende soluzione positiva anche per il secondo quesito.
In conclusione possono affermarsi i seguenti principi:
- L'aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, in entrambe le forme in cui può atteggiarsi, è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzino gli estremi, siano essi partecipi di un qualche sodalizio mafioso, siano essi estranei ed in particolare, per i soggetti qualificati, la stessa è operante anche per i reati fine.
- In tema di rapina ed estorsione la circostanza suddetta può concorrere con quella cui all'art. 628 c.p., comma 3, n.3" (Cass. S.U. 28.3 - 27.4.2001 n. 10).
Il ricorso di Ca.Sa., deve in conseguenza essere dichiarato inammissibile, con condanna alle spese e al versamento in
favore della Cassa delle Ammende di somma che, in ragione dei motivi di inammissibilità si stima equo liquidare in Euro 600,00.
7. Ricorso nell'interesse di C.S.:
7.1. Il primo motivo di ricorso, che denuncia omessa motivazione in ordine alla specifica doglianza mossa con l'appello  attinente al trattamento sanzionatolo e specificamente alla quantificazione della pena per il reato base (D.P.R. n. 309 del 1990, art.74, comma 1) e all'incidenza su di essa della diminuzione per l'attenuante speciale del comma 7, citato art. 74, è fondato in quanto la Corte di Appello omette di prendere in considerazione la censura.
Ed invero dall'atto di appello risulta che il ricorrente si era lamentato dell'immotivata quantificazione della pena base in 9 anni di reclusione, già per effetto del calcolo dell'attenuante speciale di cui al comma 7 citato pur avendo il GUP dato atto dell'eccellenza della collaborazione prestata; da ciò l'appellante arguiva che l'attenuante dovesse essere stata riconosciuta nella sua massima estensione (2/3) sicchè la pena base doveva ritenersi essere stata quantificata per implicito in anni 27, pena che si criticava per la sua eccessività.
In conseguenza la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli che, nella piena libertà di determinazione propria del giudice di merito, provveda a colmare la denunciata mancanza di motivazione sul punto relativo alla quantificazione della pena base e all'incidenza su di essa dell'attenuante speciale di cui al D.P.R. n.309 del 1990, art.74, comma 7;
7.2. Il secondo motivo di ricorso, che denuncia inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione al D.L. n. 152 del 1991, art. 8 conv. in L. n. 203 del 1991, è infondato.
Ed invero, a fronte delle doglianze mosse con l'atto di appello, che lamentava una diminuzione inferiore a quella minima di 1/3, dovuta per effetto del riconoscimento della sussistenza dei presupposti della detta attenuante speciale, la Corte territoriale ha affermato che il calcolo effettuato dal primo giudice era corretto, stante la disposizione dell'art. 6 c.p. che, dopo avere espressamente definito al comma 3 come circostanze ad effetto speciale quelle che importano
un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo, stabilisce all'ultimo comma che nel caso di concorso di più circostanze attenuanti tra quelle indicate ai comma 3 deve applicarsi "soltanto la pena meno grave stabilita per le dette circostanze; ma il giudice può diminuirla". 
In conseguenza è corretto quanto affermato nella sentenza impugnata in relazione allo specifico effetto di diminuzione  attribuibile alla diminuente ad effetto speciale di cui all'art. 8 D.L. cit.. Ovviamente questo a condizione che si faccia corretta e piena applicazione della disposizione in esame. 
La discrezionalità della successiva diminuzione consegue infatti alla applicazione della "pena meno grave" stabilita per le predette circostanze.
7.3. L'ultimo motivo di ricorso, che denuncia contraddittorietà della motivazione per il mancato riconoscimento della continuazione tra i reati sub iudice e quelli di cui alla sentenza della Corte di Assise di Napoli del 3.10.2003, è infondato.
In effetti la Corte di Appello motiva bene per escludere la continuazione.
Il ricorrente, nel presente procedimento, deve rispondere di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e di traffico di dette sostanze: la continuazione interna è ben giustificata. 
Nè sussiste la denunciata contraddittorietà prendendo a raffronto diverse posizioni processuali, in quanto la circostanza che la decisione del primo giudice, per le diverse posizioni di Ca.Sa. e C.G., non sia stata impugnata, non elimina la libertà di apprezzamento per la diversa posizione di C.S. che, in quanto congruamente motivata, non può essere oggetto di censura in questa sede (cfr. Cass. Sez.3, n. 01629 del 09/04/1997 - 20/06/1997).
8. Ricorso di E.S.:
8.1. Il primo motivo di ricorso, che denuncia motivazione apparente, manifestamente illogica e non pertinente, muove dalla eccezione di inutilizzabilità della corrispondenza epistolare di M.P. dichiarata con provvedimento del GUP su eccezione della difesa formulata il 17 gennaio 2004, prima della richiesta di definizione del procedimento a norma dell'art. 438 c.p.p..
La questione, già proposta con l'appello (dagli atti in possesso di questo ufficio non risulta esservi stato provvedimento del GUP all'udienza del 17/1/2004), è stata risolta dalla Corte territoriale nel senso della piena utilizzabilità della corrispondenza (in particolare della lettera spedita da E. a Mi. (all'epoca  detenuto) il 30 aprile 2001, "essendo stato il  processo trattato con il rito abbreviato".
Tale motivazione è errata, in omaggio alle regola interpretativa secondo, la quale "il giudizio abbreviato costituisce un  procedimento a prova contratta, alla cui base è identificabile un patteggiamento negoziale sul rito, a mezzo del quale le parti accettano che la regiudicanda sia definita all'udienza preliminare alla stregua degli atti di indagine già acquisiti e rinunciano a chiedere ulteriori mezzi di prova, così consentendo di attribuire agli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari quel valore probatorio di cui essi sono, normalmente, sprovvisti nel giudizio che si svolge invece  nelle forme ordinarie del dibattimento. Tuttavia tale negozio processuale di tipo abdicativo può avere ad oggetto esclusivamente i poteri che rientrano nella sfera di disponibilità degli interessati, ma resta privo di negativa incidenza sul potere-dovere del giudice di essere, anche in quel giudizio speciale, garante della legalità del procedimento probatorio. Ne consegue che in esso, mentre non rilevano nè l'inutilizzabilità cosiddetta fisiologica della prova, cioè quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù dei quali il giudice non può utilizzare prove,  pure assunte secundum legem, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l'art. 526 c.p.p., con i correlati divieti di lettura di cui all'art.514 c.p.p. (in quanto in tal caso il vizio-sanzione dell'atto probatorio è neutralizzato dalla scelta negoziale delle parti di tipo abdicativo), nè le ipotesi di inutilizzabilità relativa, stabilite dalla legge in via esclusiva con riferimento alla fase dibattimentale, va attribuita piena rilevanza alla categoria sanzionatoria dell'inutilizzabilità cosiddetta patologica, inerente, cioè agli atti probatori assunti contra legem, la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le altre fasi del procedimento, comprese quelle delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare, nonchè le procedure incidentali cautelari e quelle negoziali  di merito" (Cass. SS.UU., sent. n.16 del 21 - 30/06/2000, Tammaro).
Si tratta quindi di stabilire se l'acquisizione probatoria sia avvenuta contra legem, in particolare in violazione di un divieto tale da rendere la prova inutilizzabile secondo la previsione di cui all'art. 191 c.p.p..
L'art. 15 Cost. dispone che "la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono
inviolabili".  Limitazioni sono consentite, ma "soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge".
Il procedimento di acquisizione della prova è quindi garanzia della tutela dei diritti costituzionali (quale quello della libertà e della segretezza della corrispondenza), sicchè è condivisibile l'approdo dottrinario che è pervenuto alla individuazione della categoria autonoma della "prova incostituzionale", che ricorre tutte le volte in cui la sua antigiuridicità è riconducibile alla lesione dei diritti soggettivi fondamentali di rango costituzionale, come tali assoluti e irrinunciabili.
Ne consegue che l'utilizzabilità della prova è subordinata all'esecuzione di un legittimo procedimento acquisitivo, immune da vizi che incidano negativamente sull'esercizio di diritti soggettivi irrinunciabili di rango costituzionale e che quindi si riverberino sul risultato probatorio conseguito, determinandone l'inutilizzabilità (cfr. Cass., SS.UU. 27.3 - 16.5.1996 n. 5021).
Nel caso in esame l'acquisizione della corrispondenza è stata disposta dal Procuratore della Repubblica,  con provvedimento del 9.2.2001 indirizzato alla Direzione della Casa Circondariale di Napoli-Poggioreale ed avente ad oggetto la posizione di M.P., colà detenuto, con la quale si ordinava che "tutta la corrispondenza relativa al detenuto indicato in oggetto sia esibita agli ufficiali di P.G. del Gruppo CC di Castello di Cisterna, ai quali deve essere consentita la possibilità di estrarre copia della citata corrispondenza. Si precisa che all'esito detta corrispondenza potrà essere inviata ai relativi destinatari".
Si tratta di provvedimento che, pur contenendo ordine di esibizione, non è riconducibile alla categoria processuale disciplinata dall'art. 256 c.p.p. in quanto ha ad oggetto documenti che, anche se esistenti presso l'Amministrazione penitenziaria, sono assoggettati a specifica disciplina in quanto costituenti corrispondenza la cui segretezza è costituzionalmente tutelata, anche se diretta a persona detenuta.
Innanzi tutto il provvedimento limitativo del diritto di libertà e segretezza della corrispondenza deve essere motivato,  in ossequio alla espressa previsione dell'art. 15 Cost., in quanto la motivazione si pone come garanzia della correttezza del sacrificio imposto ad un diritto di rilevanza costituzionale.
Il provvedimento in  esame è quindi affetto da nullità, a norma dell'art.125 c.p.p., comma 3 (cfr. Cass. S.U. 28.1 - 13.2.2004 n. 5876 in tema di decreto di sequestro probatorio).
Ma quel che maggiormente rileva è che, nella sostanza, il provvedimento ha disposto una forma atipica di intercettazione del contenuto della corrispondenza epistolare, al di fuori di qualsiasi previsione normativa, eventualmente riconducibile nella categoria delle intercettazioni delle comunicazioni a norma degli artt.268 c.p. e s.s. (in realtà per la corrispondenza epistolare è previsto il sequestro, a norma dell'art.254 c.p.p.), ma in ogni caso inutilizzabile perchè privo dell'autorizzazione del giudice.
Nè la particolare condizione di detenuto della persona assoggettata a tale forma atipica di intercettazione della
corrispondenza epistolare legittima il provvedimento  del  P.M.. 
La normativa vigente all'epoca in cui si è proceduto all'acquisizione probatoria in esame regolava la materia secondo  quanto stabilito dalla L. n. 354 del 1975, art. 18 e D.P.R. n. 230 del 2000, art. 38, norma, quest'ultima, che aveva  recepito quanto già oggetto di circolare ministeriale (n. 3382/5032 del 14 marzo 1994 del Ministero della Giustizia) e le sollecitazioni provenienti dalla pronunce della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo in attuazione dell'art.8 CEDU
(principi ai quali si è ora data piena attuazione con L. 8 aprile 2004, n.95, attraverso l'introduzione dell'art. 18 ter).
Ed invero la possibilità per l'autorità giudiziaria di sottoporre a visto di controllo la corrispondenza dell'imputato detenuto è funzionale al provvedimento di non inoltro delle corrispondenza, provvedimento questo che deve però essere immediatamente comunicato al detenuto (e che secondo la novellata disciplina è impugnabile), ovvero al
sequestro della corrispondenza stessa a norma dell'art. 254 c.p.p..
A diversa conclusione dovrebbe pervenirsi nel caso in cui si accertasse che l'autorità giudiziaria aveva preventivamente disposto (con decreto motivato) di sottoporre a visto di controllo la corrispondenza in arrivo e in partenza, con le modalità e garanzie stabilite dalla L. n. 354 del 1975, art. 18, commi 8 e 9 all'epoca vigente, perchè in tal caso si tratterebbe di acquisizione di corrispondenza (svincolata dal segreto ove ne fosse stato disposto il non inoltro) già esistente per ragioni d'ufficio presso l'Amministrazione penitenziaria.
La corrispondenza così acquisita (ivi inclusa la lettera del 30.4.2001 spedita dal ricorrente al Mi.) è inutilizzabile.
Poichè dal testo delle sentenze, sia di primo che di secondo grado, risulta documento fondamentale ai fini della  identificazione di E.S. nella persona soprannominata "23" in occasione delle conversazioni oggetto di intercettazione, la sentenza deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo giudizio, restando le altre questioni assorbite, posto che il giudice di merito dovrà verificare innanzitutto se dagli atti risultano altri elementi di prova che consentono di identificare la persona che nelle intercettazioni è chiamata "23".
9. E.V.:
9.1. Il primo motivo di ricorso, che denuncia inosservanza dell'art.268 c.p.p., comma 7 e art.271 c.p.p. con conseguente
inutilizzabilità dei brogliacci, è manifestamente infondato.
Nell'ambito del giudizio abbreviato, essendo utilizzabili ai fini della decisione tutti gli atti che siano stati legittimamente acquisiti al fascicolo del Pubblico Ministero, il giudice può valutare le trascrizioni sommarie compiute dalla polizia giudiziaria circa il contenuto di conversazioni telefoniche intercettate (cd. brogliacci; Cass. Sez. 6 n. 05362 del 26/11/2002 - 04/02/2003).
La denunciata violazione dell'art. 267 c.p.p., comma 7, non sussiste.
La trascrizione integrale delle registrazioni, con l'osservanza della disciplina dettata per l'espletamento delle perizie, è  finalizzata al loro inserimento nel fascicolo per il dibattimento, sicchè il divieto di utilizzazione previsto dal successivo art.271 c.p.p. ha ad oggetto solo l'ipotesi in cui si proceda illegittimamente all'inserimento dei brogliacci nel fascicolo per il dibattimento.
Nel caso, trattandoci di giudizio abbreviato, vige la regola generale di utilizzabilità degli atti che fanno parte del fascicolo del Pubblico Ministero, fatte salve le ipotesi di inutilizzabilità cd. patologica (Cass. SU 21.6.2000, ric. Tammaro), inutilizzabilità che nel caso non ricorre.
La circostanza che all'udienza del 6 febbraio 2004 il ricorrente avesse evidenziato che l'unico elemento di prova a suo  carico era costituito dalle intercettazioni e che le stesse erano in atti sottoforma di brogliaccio non si è tramutata in richiesta di giudizio abbreviato condizionato e non sussisteva alcun dovere per il giudice di disporre la trascrizione.
9.2. Il secondo motivo di ricorso, che denuncia mancanza e manifesta illogicità della motivazione al rilievo che la conversazione non avrebbe alcuna forza probante, è dedotta in maniera inammissibile mediante la prospettazione di una lettura alternativa del medesimo materiale probatorio già preso in considerazione dalla Corte distrettuale (la possibilità che eventualmente si trattasse di pistola giocattolo), con la sottoposizione in forma, oltretutto, problematica (e quindi generica) di questioni di fatto (il tono eventualmente scherzoso della proposta) come tali non proponibili in sede di legittimità (cfr. Cass. SU n. 6402 del 1997, ric. Dessimone, già citata);
9.3. L'ultimo motivo di ricorso che denuncia inosservanza ed erronea applicazione del D.L. n.152 del 1991, art.7 nonchè manifesta illogicità della motivazione in relazione alla detta aggravante, è dedotta in maniera inammissibile, perchè in realtà la critica si concentra esclusivamente sulla motivazione adottata dai giudici di merito per giustificare il convincimento della sussistenza nel caso concreto della consapevolezza in capo al soggetto agente di agire con lo scopo di agevolare l'associazione mafiosa facente capo al Mi..
La circostanza che il Tribunale del riesame o il P.M. in sede di requisitoria di primo grado siano approdati a conclusioni
difformi è priva di rilevo in questa sede.
Nel giudizio di legittimità non è infatti consentito riproporre una diversa valutazione del materiale probatorio, dovendosi solo esaminare se il giudice di merito ha giustificato la propria decisione e se i criteri adottati nella  valutazione del materiale probatorio non siano manifestamente illogici. Il ricorrente afferma non esservi in atti alcuna  notizia a proposito di una consuetudine col Mi. e con gli altri affiliati al sodalizio criminale. Ma in tal modo si propone
una denuncia di riesame del complesso materiale probatorio, senza neppure contestare in maniera specifica il dato  evidenziato nella sentenza impugnata che riferisce di "frequenti contatti  telefonici" con Mi., dato dal quale desume  (con processo logico inferenziale che non è oggetto di critica) la buona conoscenza dell'interlocutore e quindi anche del suo "spessore criminale" e del genere di attività cui era dedito.
9.4. Il ricorso di E.V. deve in conseguenza essere dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento in
solido delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma che, in ragione dei   motivi di inammissibilità, si stima equo quantificare in Euro 600,00.
10. R.G.:
10.1. Il primo motivo di ricorso, che denuncia violazione dell'art.192 c.p.p., commi 2, 3 e 4 in relazione alla sussistenza di riscontri esterni all'unica chiamata in correità costituita dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia C.S., è
proposto in maniera inammissibile, perchè sinteticamente (al limite della genericità) propone una valutazione alternativa dei medesimi elementi di prova già presi in considerazione dalla Corte territoriale, al fine di sminuirne il valore indiziante. Ed invero i salienti passaggi argomentativi sviluppati dalla motivazione della sentenza impugnata (valorizzazione delle dichiarazioni di C.G., che avevano dato conto dei contrasti creatisi con scissione rispetto al clan A., culminato con il tentativo di uccidere Ar.; delle dichiarazioni di C.S. sul tentativo di eliminare Ar. e sulle informazioni avute su un sequestro di persona portato a segno da P.A. con la collaborazione fra gli altri del ricorrente  indicato come suo guardaspalle; del riscontro di tali ultime dichiarazioni costituito dalla conversazione, oggetto di  intercettazioneambientale tra P.F. e il ricoprente, nel corso della quale, dopo aver commentato l'acquisto di un ingente  quantitativo di droga, dimostravano di essere informati del "pentimento" dei fratelli C. ed accennavano ad una spedizione punitiva di controlli di polizia che avevano accertato la frequentazione del ricorrente con i fratelli P.) non sono in alcun modo  criticati, se non con valutazioni di merito (in particolare sulle ragioni della frequentazione con         P.A., che però non è negata). 
Vero è che a R.G. non è stato contestato alcun reato fine, ma il contenuto della conversazioni intercettata e la frequentazione con P.A. sono stati valutati nella sentenza impugnata come elementi di riscontro a quanto riferito dal collaboratore, ancorchè de relato, sul ruolo assunto in favore di P.A. (guardaspalle, con partecipazione ad un fatto specifico di  sequestro e pestaggio di avversari) e quindi idonei a comprovare l'appartenenza all'associazione criminale.
10.2 Il secondo motivo di ricorso, che denuncia violazione degli artt. 62 bis, 133 e 163 c.p. e difetto di motivazione in ordine alla determinazione della pena, è inammissibile per genericità, in quanto critica sul punto la sentenza impugnata limitandosi a richiamare il titolo del reato, l'ottima personalità del reo e le "pesanti ombre di dubbio che gravano in tema di responsabilità", senza considerare che la valutazione positiva della personalità ha determinato la concessione delle attenuanti generiche nella massima estensione.
10.3 In conseguenza il ricorrente deve essere condannato oltre che alle spese processuali anche al versamento in favore della Cassa delle Ammende di somma che, in ragione dei motivi di inammissibilità, si stima equo quantificare in Euro 600,00.
                
                                P.Q.M.
Rigetta il ricorso di A.C..
Dichiara inammissibili i ricorsi di B.R., B.P., C.M., R.R., Ca.Sa., R.G. ed E.V., che condanna in solido con l' A. al
pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 600,00 ciascuno alla Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 23 maggio 2006.
Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2006
 
 
 
 

 
 
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