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 Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 16 febbraio 2006 (dep. 22 marzo 2006), n. 09829/2006 (345/2006)

Sequestro preventivo a carico di società: non servono gravi indizi di colpevolezza, è sufficiente l'astratta configurabilità del fatto come illecito

                          REPUBBLICA ITALIANA
                     IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
                       SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Magistrati:
Dott. NARDI Domenico - Presidente
Dott. PODO Carla - Consigliere
Dott. MONASTERO Francesco - Consigliere
Dott. FIANDANESE Franco - Consigliere
Dott. MACCHIA Alberto - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
                              SENTENZA
sul ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Enna avverso il provvedimento con il quale, in data 11 maggio 2005, il Tribunale di Enna ha rigettato l'appello proposto dal Pubblico Ministero avverso l'ordinanza  emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari presso lo stesso Tribunale in data 20 aprile 2005;
visti gli atti, l'ordinanza impugnata ed il ricorso;
udita, all'udienza in camera di consiglio del 16 febbraio 2006, la relazione del Consigliere, Dott. Monastero Francesco;
udite le requisitorie del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Cetrangolo Oscar, che  ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio del ricorso.
   
                           OSSERVA
Il Tribunale di Enna, con ordinanza in data 11 maggio 2005, rigettava l'appello proposto dal Pubblico Ministero avverso l'ordinanza con la quale, in data 20 aprile 2005, il Giudice per le Indagini Preliminari presso lo stesso Tribunale, nell'ambito di un procedimento nei confronti di M.P. e della "M.G." s.p.a., sottoposto ad indagini per il reato di cui all'art.61 c.p., n.7, art.81 c.p. cpv. e art.640 bis cod. pen., aveva rigettato la richiesta di applicazione della misura cautelare reale del sequestro preventivo delle somme depositate sui conti correnti bancari intestati alla "M.G." s.p.a., sino alla concorrenza della somma di Euro 370.008,21 o, in caso di incapienza, il sequestro delle quote sociali sino alla concorrenza della medesima somma.
Il Tribunale rilevava preliminarmente che la richiesta di sequestro era stata formulata in base all'art.53 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, disposizione con la quale era stata introdotta una particolare forma di sequestro funzionale alla confisca,  gia' disciplinato, come istituto di generale applicazione, dall'art. 321 c.p.p., comma 2.
La misura ha, infatti, come oggetto il prezzo o il profitto del reato, in virtu' del richiamo operato all'art. 19 del medesimo decreto e, quindi, come la corrispondente figura prevista in via generale, non richiede la sussistenza degli indizi di colpevolezza, ne' la loro gravita, ne' il periculum, essendo, invece, sufficiente accertare il presupposto della confiscabilita' dei beni; sotto questo profilo, pertanto, il Tribunale riteneva non condivisibili le conclusioni del giudice preliminare che aveva rigettato la  richiesta proprio  a  seguito di una (inammissibile) delibazione di merito in ordine alla fondatezza dell'accusa.
Il Tribunale riteneva, infatti, che la cospicua serie di irregolarità ipotizzate dal Pubblico Ministero, commesse nell'interesse della società indagata al fine di ottenere il finanziamento e la successiva fruizione delle relative somme, fossero elementi oggettivamente sufficienti a ritenere integrati gli artifizi e raggiri costituenti il reato di truffa aggravata di cui all'art. 640 bis cod. pen..
Ciononostante, aggiungeva il Tribunale, la richiesta di applicabilità della misura non poteva comunque essere accolta,
riguardando beni che non apparivano immediatamente riconducibili alla nozione di profitto del reato di truffa: l'accertamento dell'esistenza di una relazione diretta tra le somme di denaro in questione e il reato del quale dovevano costituire prodotto o profitto, non emergeva, infatti, neppure a livello indiziario, dagli atti prodotti dal Pubblico Ministero.
Nè si sarebbe potuto fare applicazione, prosegue il Tribunale, del secondo comma dell'art. 19 del medesimo decreto,  che prevede la confisca per equivalente atteso che il presupposto per ricorrere a tale formula di sequestro riposerebbe  sulla impossibilità di eseguire il sequestro di cui al primo comma quando, invece, nella specie, esistevano nella disponibilità della società indagata beni riconducibili alla categoria del profitto sui quali ben avrebbe potuto trovare esecuzione un provvedimento di sequestro.
Infine, ad avviso del Tribunale, non poteva trovare accoglimento neppure la richiesta, presentata in via subordinata dal  Pubblico Ministero, di disporre il sequestro delle quote sociali trattandosi di beni di pertinenza di soggetti diversi dalla societa' sottoposta ad indagini.
Avverso tale provvedimento propone ricorso per cassazione il Pubblico Ministero deducendo la violazione dell'art. 606  c.p.c., comma 1, lettere b) ed e), in relazione al D.Lgs. n. 231 del 2001, artt.19 e 53, nonchè in relazione all'art. 240 cod. pen., e art.321 cod. proc. pen..
In particolare il Pubblico Ministero ricorrente rileva:
a) L'erroneità dell'ordinanza impugnata nella parte in cui ha ritenuto insussistente una relazione diretta tra le somme di denaro in questione e il reato di truffa del quale dovrebbero costituire prodotto o profitto: in realta', poiche' il reato di truffa è stato consumato nell'interesse della societa', e il contributo illegalmente riscosso è confluito nelle casse societarie, doveva automaticamente dedursi che le somme depositate nei conti correnti della societa' rappresentavano l'utilita' economica ricavata dal reato;
b) L'erroneità dell'ordinanza anche nella parte in cui ha affermato l'inapplicabilità, del medesimo decreto, art. 19, comma 2, - che consente la confisca di beni per equivalente solo quando non sia possibile eseguire la stessa su beni costituenti profitto del reato - per l'esistenza di beni riconducibili alla nozione di profitto del reato; il ricorrente afferma, infatti, che, come risulta dagli atti, i beni ai quali fa riferimento il Tribunale erano stati acquistati, in tutto o in parte, con somme di denaro diverse da quelle oggetto del contributo e quindi non potevano essere considerati profitto in
senso stretto.
In ogni caso, ad avviso del ricorrente, il Tribunale avrebbe dovuto accogliere la richiesta subordinata di sequestro delle quote sociali della societa', o, perlomeno di quelle dell'indagato, anche in considerazione del fatto che tutti i soci avevano tratto profitto dalla condotta illecita posta in essere dal M. a vantaggio della persona giuridica di cui era rappresentante.
Con memoria depositata in data 8 febbraio 2006, il difensore del M. ha chiesto il rigetto del ricorso, riportandosi alle
motivazioni del Tribunale.
All'udienza in camera di consiglio in data 16 febbraio 2006, il Procuratore Generale insisteva per l'accoglimento del ricorso.
Il ricorso e' fondato e va accolto.
Il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilita' amministrativa delle persone giuridiche, delle società e  delle associazioni anche prive di personalita' giuridica, a norma della  L. 29 settembre 2000, n. 300, art. 11), frutto degli impegni pattizi dello Stato italiano a livello europeo, ha disciplinato per la prima volta la responsabilita' amministrativa delle  persone giuridiche prevedendo, tra l'altro, una responsabilita' autonoma e non sussidiaria dell'ente rispetto a quella dell'autore del reato.
In particolare, trovano applicazione nel presente giudizio gli artt. 19 e 53 del citato decreto legislativo.
Il primo prevede che "nei confronti dell'ente e' sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato (...) quando non e' possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la  stessa puo' avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilita' di valore equivalente al prezzo al profitto del reato".
Il secondo stabilisce che, in via cautelare, "il Giudice puo' disporre il sequestro delle cose di cui e' consentita la confisca a norma dell'art. 19. Si osservano le disposizioni di cui all'art.321 c.p.p., commi 3, 3 bis e 3 ter, art. 322 c.p.p., art.322 bis c.p.p. e art.323 c.p.p. in quanto applicabili".
L'impiego dell'avverbio "sempre" nell'art.19, evidenzia l'obbligatorieta' della misura ablativa non solo in relazione al
prezzo del reato, ma anche in relazione al profitto per il quale, invece, secondo la disciplina generale dell'art.240 cod. pen., la misura rimane facoltativa. La forte efficacia dissuasiva della sanzione è sottolineata dalla possibilita' di confisca "per equivalente", che fa venir meno ogni rapporto diretto tra il reato e i beni che, in tale ipotesi, possono essere sequestrati.
Per quanto concerne l'art. 53, invece, va rilevato che l'istituto (inserito nel decreto legislativo in esame con iniziativa  autonoma del legislatore delegato, non essendovi traccia nella Legge Delega n. 300 del 2000) presenta aspetti simili e  spiccate analogie con l'omologo istituto previsto dall'art.321 cod. proc. pen. (come peraltro emerge dagli stessi richiami codicistici operati dal legislatore delegato) e, segnatamente con la fattispecie regolata dal comma 2, dello stesso articolo e cioe' con il sequestro "delle cose di cui e' consentita la confisca".
La particolare pericolosita' delle condotte prese in considerazione ha indotto il legislatore a configurare come obbligatoria la confisca anche con riferimento al profitto del reato e tale apprezzamento rifluisce, ovviamente, sui presupposti per adottare la misura di cui all'art.53: la presunzione di pericolosità affranca il Giudice da ogni indagine in ordine alla sussistenza del periculum in mora.
Quanto al fumus, deve escludersi che ai fini dell'adozione del sequestro preventivo nei confronti di una persona giuridica, debbano ricorrere i gravi indizi di colpevolezza richiesti  dall'art. 273, cod. proc. pen., per l'adozione delle misure cautelari personali apparendo invece sufficiente la astratta configurabilita' dell'illecito non solo perche' si tratta di confisca obbligatoria, ma anche perchè l'art.53 del decreto non riproduce il contenuto dell'art.45, che richiede espressamente l'accertamento di gravi indizi di sussistenza della responsabilita' dell'ente per un illecito amministrativo  dipendente da reato, esclusivamente per l'adozione delle sole misure interdittive, specificamente previste (art.9, comma 2).
Deve, pertanto, anche in riferimento a tale istituto, ritenersi applicabile la giurisprudenza formatasi con riferimento all'istituto del sequestro preventivo previsto dal codice di rito, giurisprudenza alla stregua della quale le condizioni generali per l'applicabilita' delle misure cautelari personali, indicate nell'art. 273 cod. proc. pen., non sono estensibili, per la loro peculiarita', alle misure cautelari reali (cfr., Cass., Sez. Unite, 25 marzo 1993, Gifuni).
Peraltro, nel sequestro previsto dall'art.321 c.p.p., comma 1, presupposto della misura cautelare è il pericolo che la libera disponibilita' di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati: si tratta, quindi, di uno strumento finalizzato ad interrompere quelle situazioni di pericolosità che possono crearsi con il possesso della "cosa", per scopi di prevenzione speciale nei confronti della  protrazione o della reiterazione della condotta illecita, ovvero della causazione di ulteriori pregiudizi.
Nel sequestro funzionale alla confisca, disciplinato dal comma 2 dell'art.321 cod. proc. pen., il periculum si ricollega,  invece, alla "confiscabilità" del bene, che non è correlata alla pericolosita' sociale dell'agente ma a quella della "res".
Nel caso di confisca obbligatoria (prevista dall'art.240 c.p., comma 2, ovvero da leggi speciali) il rapporto di pertinenzialita' tra bene e reato è, pertanto, interamente assorbito nella verifica della "confiscabilità" del bene e la illegittimità del sequestro puo' essere affermata solo nel caso in cui tale confiscabilità sia da escludere ictu oculi, alla  stregua delle risultanze processuali conseguite o in base alle norme giuridiche.
Questa Corte ha, infatti, affermato, con risalente e consolidato indirizzo, sia con riferimento al reato di usura, per  molti versi analogo a quello in esame, sia in via generale, che il sequestro preventivo di cose di cui e' consentita la confisca non presuppone alcuna prognosi di pericolosità connessa alla libera disponibilità delle cose medesime, le quali, proprio perche' confiscabili, sono di per sè oggettivamente pericolose; e che solo nel caso in cui ictu oculi sia da  escludersi, alla luce delle risultanze processuali conseguite o in base a norme giuridiche, la sussistenza di qualsiasi
fattispecie criminosa o la confiscabilità delle cose, il sequestro si rivelera' illegittimo (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 3, n.1810, 02 maggio 2000, Maccarone; Cass. Sez. 1, n.469, 19 gennaio 1999, Fedele; Cass., sez. 6, n.4114, 21 ottobre 1994, Giacalone; Cass., sez. 3, n.1298, 8 luglio 1992, Cocchi).
Recentemente tale giurisprudenza è stata ribadita (Cass., sez. unite, n. 920, 17 dicembre 2003, Montella) con una decisione in tema di art. 12 sexies della legge 7 agosto 1992, n.356, che ha riaffermato che le condizioni necessarie e sufficienti per disporre il sequestro preventivo di beni confiscabili, consistono, quanto al fumus commissi delicti, nell'astratta configurabilità, nel fatto attribuito all'indagato, di una delle ipotesi criminose individuate dal Pubblico Ministero, senza che rilevino, nè la sussistenza degli indizi di colpevolezza nè la loro gravita e, quanto al periculum,
coincidendo quest'ultimo con la confiscabilita' del bene, nella presenza di seri indizi di esistenza delle medesime condizioni che legittimano la confisca.
Indirizzo, quest'ultimo, che questo collegio condivide ampiamente.
Va infine, rilevato che il pubblico ministero ricorrente aveva chiesto il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca, delle somme di denaro che si trovavano depositate nei conti correnti bancari intestati alla società.
Sul punto va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte ha sempre ritenuto ammissibile tale sequestro sia allorquando la somma si identifichi proprio in quella che è stata acquisita attraverso l'attività criminosa sia ogni qual
volta sussistano indizi in base ai quali è possibile sostenere che il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di occultare (vedi Cass., Sez. 6^, 25 marzo 2003, n. 23773, Madaffari). E' evidente, a tal proposito, che la fungibilità del denaro e la sua  funzione di mezzo di pagamento non impone che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, bensì la somma corrispondente al loro valore nominale, ovunque sia stata  rinvenuta,
purchè sia attribuibile all'indagato (vedi Cass., Sez. 6^, 1 febbraio 1995, n. 4289, Carullo).
Alla luce di tali presupposti normativi e giurisprudenziali, va rilevato che la decisione del Tribunale appare da condividere nella parte in cui, contestando le argomentazioni del Giudice per le Indagini Preliminari, ha affermato che per il sequestro preventivo funzionale alla confisca, non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, nè la loro gravità, nè il periculum richiesto per il sequestro preventivo di cui all'art.321 c.p.p., comma 1, essendo, invece, sufficiente, accertare il presupposto della confiscabilità: e, quanto al fumus, che il controllo del Giudice non può investire la concreta fondatezza dell'accusa, ma deve limitarsi all'astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito a  un soggetto in una determinata ipotesi di reato.
Non può, invece, essere condivisa, perchè intrinsecamente contraddittoria, nella parte in cui ha affermato, da un lato, che le irregolarità ipotizzate dal pubblico ministero erano oggettivamente sufficienti per ritenere integrati gli artifizi e raggiri costituenti il reato di truffa aggravata ai sensi dell'art. 640 bis cod. pen., e che, quindi, dovevano ritenersi sussistenti i presupposti per adottare la richiesta misura cautelare reale; e, dall'altro, che i beni di cui si chiedeva il sequestro, e cioè i saldi attivi dei conti correnti bancari, non apparivano immediatamente riconducibili alla nozione di profitto conseguente al reato di truffa, non essendo stato operato il necessario accertamento "dell'esistenza di una
relazione diretta tra le somme di denaro in questione e il reato di truffa del quale dovrebbero costituire prodotto o profitto".
Tale motivazione, alla luce della richiamata giurisprudenza, non appare condivisibile, sol che si consideri, peraltro, che, in altra parte del provvedimento, e segnatamente nella parte relativa all'accertata sussistenza degli indizi del reato di truffa aggravata, lo stesso Tribunale ha, invece, valorizzato, tra le irregolarità ipotizzate dal pubblico ministero, proprio quelle "commesse nell'interesse della società indagata al fine di ottenere l'ammissione al finanziamento e la successiva fruizione delle relative somme nell'ammontare concretamente percepito".
E' vero che, perlomeno a livello indiziario, deve pur sempre sussistere il rapporto pertinenziale, quale relazione diretta,
attuale e strumentale, tra il danaro che si intende sequestrare ed il reato del quale costituisce il profitto illecito, ma è altresì incontestabile che, una volta accertata la concreta percezione da parte della società di un finanziamento illecito, per un dato importo, non può ritenersi illegittimo il sequestro sol perchè manca la prova di una diretta relazione tra le somme depositate  nei conti correnti della società e il "profitto" illecito della truffa, consistente proprio in un indebito finanziamento per una somma di pari importo a quello di cui si chiede il sequestro.
In altre parole, una volta accertata la disponibilità dei beni da parte della societa', e una volta accertata l'indebita percezione del finanziamento illecito, non si coglie dalla motivazione del provvedimento impugnato quale elemento indiziario ulteriore dovesse essere acquisito per dimostrare una "relazione diretta" tra le somme di denaro di cui si chiede il sequestro e il profitto del reato di truffa.
Apparendo la motivazione adottata dal Tribunale per un verso generica ("... non emergendo ... indizio alcuno di un collegamento diretto ...") e, nei limiti indicati, contraddittoria, va disposto l'annullamento con rinvio del provvedimento  impugnato per nuova delibazione sul punto specifico.
L'accoglimento del motivo prospettato in via principale, assorbe gli altri profili di censura.
                               P.Q.M.
Annulla  il provvedimento impugnato con rinvio allo stesso Tribunale per nuovo esame.
Cosi' deciso in Roma, il 16 febbraio 2006.
Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2006
 
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