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 Gennaro Iannarone, Il nuovo regime delle impugnazioni penali alla luce della legge 46/2006

Relazione tenuta dal dr. Gennaro Iannarone, magistrato distrettuale presso la Corte di Appello di Perugia, al convegno organizzato dalla Camera Penale di Perugia il 25 maggio 2006

Premessa

Desidero innanzitutto ringraziare la Camera Penale di Perugia, nella persona del suo Presidente, Avv. Francesco Falcinelli, per il gradito invito a partecipare a questo interessantissimo convegno che ha ad oggetto una delle riforme che, sia dal punto di vista strettamente tecnico, sia da quello scientifico – dogmatico, ha maggiormente inciso sull’assetto complessivo del nostro processo penale.
Ed infatti, la normativa introdotta dalla l. 46/2006, per i molteplici aspetti che tocca, è dotata di forte impatto e per le profonde modifiche della disciplina processuale, soprattutto nella materia delle impugnazioni, e per le implicazioni teorico – dogmatiche, se non addirittura ideologiche, posto che la sua genesi dimostra inequivocabilmente una precisa opzione di fondo, la scelta di una visione del processo accusatorio, in particolare quanto all’assetto del regime delle impugnazioni.
E ringrazio particolarmente gli organizzatori del convegno in quanto credo che esso cada in un momento quanto mai opportuno in cui, ai primi sforzi esegetici, tesi per certi versi ad immaginare le conseguenze della nuova normativa, soprattutto sui processi in corso, si è aggiunto il contributo della prassi, vale a dire dei primi tentativi e delle prime difficoltà di applicazione della nuova legge, che non poco stanno affaticando gli operatori del diritto, creando incertezze tra le quali quotidianamente si dibattono, dal 9 marzo 2006, la Magistratura e l’Avvocatura.
Ma, al di là delle singole questioni ermeneutiche, e prima ancora di indicare possibili soluzioni, laddove esistano, ai non pochi dubbi interpretativi che pone la nuova disciplina, è possibile mettere un primo punto fermo, certamente condiviso: si tratta di una legge assolutamente imperfetta, scritta malissimo e che consegna nelle mani degli operatori del diritto un meccanismo assolutamente ingestibile, intriso di dubbi di incostituzionalità, non superabili in via interpretativa, che, se da un lato relega e costringe i Magistrati ad interminabili camere di consiglio alla ricerca di soluzioni accettabili, determina dall’altro una oggettiva difficoltà per i Difensori di orientare le opzioni difensive, soprattutto, per quel che vedremo, in relazione alla parte civile, risultando in tal modo fortemente vulnerato il bene supremo della certezza del diritto, intesa come concreta prevedibilità delle decisioni giudiziarie quantomeno in relazione allo svolgimento del processo che li vede coinvolti.
Per queste ragioni ritengo – e plaudo alla iniziativa della Camera Penale – che sia fondamentale un momento di riflessione sugli aspetti più problematici della legge 46/2006 in quanto, al di à della opinione che ciascuno di noi possa avere sulle scelte di fondo della riforma – l’abolizione dell’appello del P.M., la necessità della doppia conforme, l’affermazione della penale responsabilità “al di là di ogni ragionevole dubbio”,il vincolo derivante all’esercizio dell’azione penale dalla decisione della Suprema Corte in punto di misure cautelari, la riforma del ricorso, e quindi del giudizio di cassazione – credo che tutti gli studiosi e gli operatori del diritto – l’Accademia, l’Avvocatura e la Magistratura – debbano fare fronte comune nel pretendere che le norme, soprattutto quelle a contenuto altamente tecnico e che incidono su aspetti fondamentali quali il processo penale, siano ben scritte ed a lungo meditate, piuttosto che partorite in poco tempo, talvolta sulla spinta di inconfessabili urgenze o esigenze personali.
Ed un esempio di questa trasversale necessità di una buona legislazione è dato cogliere nel recente deliberato della Unione delle Camere Penali Italiane di astensione dalle udienze in relazione alla l. 251/2005.
Purtroppo si deve constatare che, questo scorcio di legislatura, ci ha regalato due fulgidi esempi di leggi intrise di errori sistematici ed orrori grammaticali – le cc.dd. leggi ex Cirielli e Pecorella – la prima, come è noto ha subito un disconoscimento di paternità – i cui effetti nefasti, nella pratica sono destinati anche a combinarsi tra loro.
Riguardo alla seconda, che costituisce l’oggetto di questo incontro, a riprova della difficoltà di comunicazione del legislatore, è singolare che il padre della legge, il prof. Pecorella, intervenendo ad un convegno organizzato dalla Camera Penale di Milano, richiesto delle sorti e dei destini della parte civile, abbia affermato che, nonostante la lettera della legge deponga in contrario, debba ritenersi invece conservato tale potere perché tale era l’intenzione del legislatore. Questi avrebbe reciso il collegamento con l’impugnazione del P.M. proprio per consentirle di appellare anche nei casi in cui il P.M. sia stato privato di tale diritto.
Così argomentando ha introdotto una singolare divaricazione tra la voluntas legislatoris e la voluntas legis, dichiarando la prevalenza della prima sulla seconda sulla base di una sorta di atto di fede, di una non consentita ed irrituale interpretazione autentica, che molto ricorda l’ipse dixit richiamato dai filosofi medioevali a sostegno delle loro argomentazioni e a definitiva chiusura alle antitesi.
Al riguardo rimando alla lettura del resoconto del convegno ambrosiano apparso sulla rivista telematica www.penale.it a firma dell’Avv. Alessia Sorgato.
Quest’ultima notazione ci introduce nel vivo dell’argomento a me affidato e relativo alla permanenza o meno, in capo alla parte civile, del potere di proporre appello, avverso le sentenze di proscioglimento agli effetti della responsabilità civile.
Dobbiamo chiederci quindi: la parte civile, in virtù dello scioglimento del legame con il potere di impugnazione del P.M., conserva ancora il potere di ottenere un riesame del merito, ai soli fini della responsabilità civile, in caso di proscioglimento, ovvero, nonostante l’abbandono del P.M. al suo destino, e nonostante, come abbiamo visto, la contraria intenzione degli artefici della legge, subisce anch’essa l’amputazione del potere di proporre appello?
A mio avviso il discorso va affrontato sotto diversi punti di vista:
in primo luogo è utile ripercorrere la genesi della legge, valutando l’impatto della interlocuzione del Capo dello Stato mediante il rinvio alle Camere, che ha poi determinato l’elaborazione della nuova versione, quella definitiva, che, in preteso ossequio al messaggio presidenziale, ha inciso sulle norme relative appunto alla parte civile.
Quindi è necessario differenziare il discorso relativo alla normativa a regime, da quello relativo al regime transitorio riguardante i processi in corso, rispetto ai quali si pone in maniera drammatica il problema della sorte degli appelli già proposti dalla parte civile avverso sentenze di proscioglimento.
In proposito occorre valutare anche i rapporti tra normativa a regime e disciplina transitoria, al fine di accertare se la soluzione prescelta per la prima incida o meno sulla seconda.
Infine vanno scrutinati i possibili dubbi di illegittimità costituzionale che l’una o l’altra delle soluzioni ineluttabilmente pongono.
Così impostato il ragionamento, il dipanarsi dello stesso passa necessariamente attraverso un esame, a contenuto prevalentemente ricognitivo, delle varie soluzioni ai suesposti problemi che sono state affacciate dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Ma, proprio per non limitare questa riflessione, ad una mera ricognizione delle tesi in campo, ritengo opportuno far precedere la esposizione delle stesse da una considerazione di carattere generale, che costituisce il filo conduttore di questo mio intervento:
al di là e contro le intenzioni del legislatore la parte civile, da cenerentola della procedura penale – della quale in sede di riforma del codice si era proposta anche la esclusione dal novero dei soggetti del processo, inibendo l’esercizio dell’azione civile nel processo penale – da ancella del P.M. al servizio di interessi privatistici, ha assunto, suo malgrado, la veste di vero e proprio grimaldello destinato a scardinare la coerenza del sistema introdotto dalla legge Pecorella, costituendo una sorta di cartina di tornasole alla luce della quale valutare la razionalità complessiva, e per ciò stesso la costituzionalità, delle scelte legislative.
Ed infatti, se l’adesione alla tesi della eliminazione del suo potere di proporre appello, va ineluttabilmente incontro a gravi e fondate censure di incostituzionalità, soprattutto riguardo alla disciplina transitoria; se, a contrario, la tesi della permanenza del suo potere di proporre appello, oltre alle ricadute propriamente processuali delle quali si dirà, rende irrazionale un sistema nel quale all’ospite del processo è consentito più di quanto sia permesso ai padroni di casa (P.M. ed imputato), allora veramente possiamo dire di trovarci in una situazione nella quale, qualunque strada si scelga, si finirà ineluttabilmente costretti in un vicolo cieco e destinati a cozzare contro il muro della incostituzionalità per irragionevolezza che questo vicolo chiude.
Queste considerazioni risulteranno più chiare all’esito della compiuta ricognizione della materia e degli orientamenti affermatisi al riguardo, secondo l’iter argomentativo delineato, che distingue la normativa a regime da quella transitoria.
La normativa a regime

La analisi compiuta della nuova disciplina introdotta dalla l. 46/2006 in relazione al potere di impugnazione della parte civile, deve essere affrontata in una prospettiva diacronica.
Nella prima stesura della legge nulla si diceva in relazione al potere di impugnazione in capo al danneggiato dal reato costituitosi parte civile nel processo penale.
Ciò in quanto, rimanendo immutato l’art. 576 c.p.p., in forza del collegamento esistente tra la parte civile ed il P.M., potendo la prima proporre impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento “con il mezzo previsto per il pubblico ministero”, era chiaro che la stessa venisse automaticamente a subire i limiti al potere di proporre appello previsti per il P.M., con la conseguente negazione in termini assoluti del relativo potere, posto che la versione originaria dell’art. 1 l. 46/2006, di modifica dell’art. 593 c.p.p. escludeva, senza eccezioni di sorta, il potere della parte pubblica di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento.
La posizione della parte civile era in ogni caso tutelata dalla contemporanea modifica dell’art. 652 c.p.p. che prevedeva l’efficacia della sentenza di proscioglimento nei confronti della stessa solo ove avesse presentato le conclusioni. In questo modo si prevedeva una sorta di ius poenitendi, nel senso che, il danneggiato costituitosi parte civile, qualora avesse ragione di temere un esito pregiudizievole del processo penale di primo grado, poteva trasferire l’azione civile nella sede sua propria, senza subire l’efficacia extrapenale della sentenza di proscioglimento.
Rimaneva però fermo l’effetto sospensivo del giudizio civile ex art. 75, comma 3, c.p.p., essendo il trasferimento dell’azione in sede civile avvenuto dopo la costituzione di parte civile. In tal modo il danneggiato rimaneva sì attore inerte del processo civile fino alla definizione della vicenda penale, ma senza tuttavia subirne gli eventuali effetti pregiudizievoli.
La versione originaria delle legge Pecorella presentava però delle singolarità di assoluta incoerenza sistematica, alcune delle quali prontamente rilevate dal Presidente della Repubblica nel messaggio del 20 gennaio 2006, che, non a caso, ha stigmatizzato “il carattere disorganico e asistematico della riforma approvata”.
In primo luogo, ad onta della totale soppressione del potere del P.M. di proporre appello, rimaneva invariato l’art. 597 c.p.p. che, al comma 2 lett. b) continuava a disciplinare la cognizione del Giudice di secondo grado nel caso di appello proposto dal P.M. avverso una sentenza di proscioglimento.
In secondo luogo, l’art. 4 l. 46/2006, nella parte in cui modifica il comma 3 dell’art. 428 c.p.p., ribadiva expressis verbis, la regola, assolutamente pacifica, della inappellabilità della sentenza di non luogo a procedere, che non ha efficacia extrapenale, ad opera della parte civile, con ciò confermando che i limiti al potere di appello sono strettamente connessi alla efficacia della sentenza penale nel giudizio risarcitorio; nel senso che, laddove tale efficacia sussista, non è possibile limitare il potere di appello; a contrario può essere esclusa l’appellabilità della sentenza di proscioglimento dove questa non pregiudichi, con la sua efficacia extrapenale, la parte nel giudizio civile.
Ancora, a fronte della soppressione del potere di appello, a fini penali della parte pubblica, ed ai fini civili di propria naturale pertinenza della parte civile, la persona offesa conservava invece il potere di proporre appello a fini penali, ai sensi dell’art. 577 c.p.p., in relazione ai reati di ingiuria e diffamazione.
Infine, rilevava il Capo dello Stato: “è parte del processo anche la vittima del reato costituitasi parte civile, che vede compromessa dalla legge approvata la possibilità di far valere la sua pretesa risarcitoria all’interno del processo penale”.
E ciò soprattutto con riferimento ai processi già in grado di appello, dove, non potendo la parte civile esercitare quello ius poenitendi che il nuovo testo dell’art. 652 c.p.p. le riconosceva, veniva a subire l’efficacia extrapenale della sentenza di assoluzione e la necessaria sospensione del processo civile in caso di trasferimento in quella sede dell’azione risarcitoria ai sensi dell’art. 75, comma 3, c.p.p.
Dopo il rinvio alle Camere può dirsi storicamente accertata la volontà dei legislatori di conservare, in capo alla parte civile, la facoltà di proporre appello, ai fini civili, avverso le sentenze di proscioglimento (cfr. relazione dell’On. Isabella Bertolini, atto Camera 4604-C, seduta del 30 gennaio 2006, Resoconto stenografico, pag. 7).
Si tratta allora di vedere se il mezzo utilizzato a tal fine si sia rivelato idoneo, se cioè la nuova formulazione della legge autorizzi a ritenere conservato il potere di appello della parte civile, o se piuttosto il legislatore non sia incorso in un vero e proprio errore ostativo che ha determinato una frattura tra volontà legislativa e manifestazione della stessa.
L’intento è stato dunque perseguito attraverso una operazione di “taglia e cuci” all’interno dell’art. 576 c.p.p. che ha visto la soppressione degli incisi “con il mezzo previsto per il pubblico ministero” nel primo periodo del primo comma, e “con lo stesso mezzo e negli stessi casi” contenuto nel secondo periodo.
Dimodochè il nuovo testo dell’art. 576 c.p.p. oggi recita: “la parte civile può proporre impugnazione contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio. La parte civile può altresì proporre impugnazione contro la sentenza pronunciata a norma dell’articolo 442, quando ha consentito alla abbreviazione del rito”.
Secondo la previsione degli artefici della legge la soppressione del collegamento tra il potere di impugnazione del P.M. e quello della parte civile, doveva consentire a quest’ultima di non subire i nuovi limiti previsti al potere di appello del primo e quindi riconoscerle un generale potere di proporre appello, ai fini della responsabilità civile, avverso le sentenze di proscioglimento.
Sulla idoneità del mezzo allo scopo, mentre la dottrina di è pronunciata in maniera quasi unanime in senso negativo, in giurisprudenza, si sono subito registrate due tesi:
in base alla prima, conformemente a quanto sostenuto dalla dottrina prevalente citata, nonostante la contraria volontà, il legislatore non sarebbe riuscito nell’intento di mantenere il potere di appello avverso le sentenze di proscioglimento in capo alla parte civile, posto che l’art. 576 c.p.p. si limita a riconoscere alla stessa un generico potere di impugnazione, senza tuttavia indicare il mezzo esperibile. Ma vigendo in materia, ai sensi dell’art. 568 c.p.p., un principio di rigorosa tassatività, questo richiede non solo la previsione legislativa dell’impugnazione – requisito soddisfatto dall’art. 576 c.p.p. – ma anche la determinazione, quando questa sia consentita, del mezzo di volta in volta indicato, e del soggetto processuale cui il ricorso a quello specifico mezzo sia consentito. E poiché nessuna norma prevede espressamente che la parte civile possa proporre appello, ne consegue che la stessa abbia perduto siffatto potere a seguito della riforma.
In questa direzione si sono pronunciate la Corte d’Appello di Milano, Sezione II Penale, con ordinanza in data 9 marzo 2006, e la Corte d’Assise d’Appello di Venezia, Sezione II penale, con ordinanza in data 8 maggio 2006.
In particolare la prima, rigettando l’eccezione di incostituzionalità proposta dal P.G. in relazione alla soppressione del potere di appello del P.M., ha affermato che: “la parte civile non è titolare, dopo la novella legislativa, di poteri diversi e più incisivi del pubblico ministero in tema di impugnazione della sentenza di primo grado, essendo piuttosto vero il contrario”.
La seconda invece, sul presupposto largamente argomentato, della soppressione del potere di proporre appello in capo alla parte civile, con conseguente automatica inammissibilità degli appelli già proposti, ha sollevato al riguardo eccezione di illegittimità costituzionale.
In particolare, secondo la Corte serenissima, come si autodefinisce, poiché l’art. 593 c.p.p. prevede la possibilità di appellare per i soli imputato e pubblico ministero; poiché nessuna modifica è stata altresì introdotta al primo comma dell’art. 568 c.p.p., che tuttora afferma il cosiddetto principio della tassatività dei mezzi di impugnazione; ne consegue che “allo stato non vi è una norma di legge che attribuisca positivamente alla parte civile il mezzo di impugnazione costituito dall’appello, in particolare (solo caso che qui rileva) avverso le sentenze di
proscioglimento emesse a seguito di giudizio dibattimentale e pertanto si deve
concludere che oggi la parte civile ha come unico strumento di impugnazione, avverso le sentenze dibattimentali di primo grado, tanto di condanna che di assoluzione, il ricorso per cassazione
”.
In senso contrario invece, ed a favore quindi del mantenimento del potere di proporre appello in capo alla parte civile, si sono pronunciate la Corte d’Appello di Torino, Sezione III Penale, con ordinanza in data 17 marzo 2006, e, per incidens, la Corte d’Assise di Appello di Caltanissetta, con ordinanza in data 30 marzo 2006.
Gli argomenti a sostegno di questa tesi sono in larga parte comuni e ricorrenti:
1)  si parte al riguardo dalla abolizione dell’inciso dell’art. 576 c.p.p. che richiamava per le impugnazioni della parte civile “il mezzo previsto per il pubblico ministero”, per dimostrare che la stessa non subisce le limitazioni al potere di appello previste per la parte pubblica;
2)  in secondo luogo si argomenta dalla mancata modifica dell’art. 600 c.p.p., che tuttora prevede la possibilità per la parte civile di chiedere al Giudice dell’appello la decisione sulla provvisoria esecuzione della condanna civile, eventualmente omessa in primo grado, cosicché, a meno di proporre un’abrogazione implicita dell’art. 600, comma 1, c.p.p., sarebbe davvero singolare che la legge negasse alla parte civile il potere di appellare le sentenze in ordine ai capi civili e lo consentisse poi con esclusivo riferimento all’esecuzione provvisoria negata;
3)  inoltre l’art. 605 c.p.p. conserva integri i poteri del giudice di appello di decisione sull’azione civile, per cui la norma presupporrebbe la permanenza del potere di appello ai soli fini civili anche avverso le sentenze di proscioglimento;
4)  infine l’art. 10 l. 46/2006, nel dettare la normativa transitoria, prevede esclusivamente la declaratoria di inammissibilità degli appelli già proposti dal P.M. o dall’imputato e non già di quello proposto dalla parte civile.
Tuttavia la efficacia dimostrativa di questi argomenti è sottoposta a serrata critica dai fautori della prima tesi i quali osservano:
1)  il richiamo alla soppressione degli incisi citati nel corpo dell’art. 576 c.p.p., se pure evidenzia la voluntas legislatoris, rimane del tutto irrilevante a fini interpretativi in quanto, nella interpretazione, rileva esclusivamente il significato oggettivo delle norme, a prescindere dalla intenzione dei loro compilatori;
2)  l’art. 600 c.p.p. presuppone comunque che sia intervenuta una sentenza di condanna, in relazione alla quale soltanto può porsi il problema della provvisoria esecuzione delle statuizioni civili;
3)  stante il principio di tassatività vigente in materia di impugnazione, l’attribuzione del potere di proporre appello non può derivare in via deduttivo – argomentativa da norma ad altro fine dettate, dovendo costituire oggetto di specifica previsione normativa;
4)  la mancata previsione della declaratoria della inammissibilità dell’appello della parte civile nella disciplina transitoria, imputabile ad una svista del legislatore, non esclude la applicazione della relativa sanzione processuale la quale discende direttamente dal comma 1 dell’art. 10, che sancisce l’immediata applicazione della nuova normativa ai procedimenti in corso. Le disposizioni successive dei commi 2 e 3 servono esclusivamente a consentire la proposizione del ricorso per cassazione, ed attribuendo la relativa facoltà solo al P.M. ed all’imputato sono da ritenersi costituzionalmente illegittime, in quanto non attribuiscono analoga facoltà alla parte civile.
Esaurita la panoramica delle due tesi che si contendono il campo e degli argomenti a sostegno, prima di passare ad esporre la tesi di chi vi parla, è opportuno sottolineare che, nelle varie pronunce, a volte la negazione del potere di appello in capo alla parte civile è funzionale ad escludere la irrazionalità del sistema, negandosi che questo riconosca alla parte privata poteri maggiori rispetto a quelli riconosciuti al P.M.; altre volte invece, proprio tale negazione, conduce direttamente ad una censura di incostituzionalità per la illegittima compressione dei diritti della parte civile, soprattutto nel regime transitorio.
A contrario, il riconoscimento della permanenza del potere di appellare in capo alla parte civile talvolta è funzionale proprio alla affermazione della irrazionalità della soppressione dell’analogo potere del P.M.; altre volte è diretta a pervenire ad una interpretazione costituzionalmente compatibile che eviti di sollevare l’eccezione di incostituzionalità in applicazione del canone ermeneutico in base al quale, tra due interpretazioni, entrambe possibili, occorre privilegiare quella conforme a Costituzione.
Ciò posto, a mio avviso, per dipanare la matassa, è opportuno partire da una basilare constatazione: l’eliminazione del potere di proporre appello in capo alla parte civile avverso le sentenze di proscioglimento, in sé e per sé considerata, non lede alcun canone costituzionale, in quanto il danneggiato dal reato, a conoscenza dei limiti ai propri poteri di azione all’interno del processo penale, potrà liberamente scegliere di far valere le sue pretese risarcitorie nel giudizio civile.
Tuttavia la soppressione di tale potere deve essere operata, sul piano normativo, in maniera logica e coerente, tenendo presente l’intero sistema nel quale va ad inserirsi, proprio al fine di evitare acuti contrasti di norme e di interpretazioni.
Ciò è appunto accaduto nel caso di specie, dove non solo i legislatori non volevano sopprimere il potere di proporre appello della parte civile, ma, hanno operato in maniera talmente maldestra che, interpretando la nuova normativa si dovrebbe concludere nel senso che abbiano addirittura realizzato un risultato esattamente opposto.
Ed infatti, se si dovesse accogliere, anche per la qualità degli argomenti a sostegno, la tesi della (per quanto involontaria) soppressione del potere di appello della parte civile, si finirebbe ineluttabilmente per affermare una regola che non solo mal si inserisce nel sistema di norme preesistenti, ma che, soprattutto per i suoi riflessi sul regime transitorio, si espone a fondatissime censure di incostituzionalità.
Ed infatti:
1)  se il combinato disposto degli artt. 568 e 576 c.p.p. non autorizza a ritenere che sia attribuito alla parte civile il potere di proporre appello, ai fini della responsabilità civile, avverso le sentenze di proscioglimento, ne deriva, come prima conseguenza, che la parte civile non può proporre appello neppure avverso i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile, in mancanza di una norma che le consenta il mezzo dell’appello. Ed infatti, venuto meno il collegamento con il P.M., nessuna norma prevede la possibilità di proporre appello avverso tali capi della sentenza di condanna. Con la conseguenza che l’ambito del potere di impugnazione della parte civile risulta non solo assai limitato rispetto al passato - tanto da non poter avanzare censure di merito, eventualmente relative al quantum di risarcimento liquidato ovvero a singole voci di danno che fossero state negate - ma assai inferiore a quello consentito al P.M., all’imputato ed al responsabile civile;
2)  riguardo a quest’ultimo aspetto, negando il potere di proporre appello in capo alla parte civile, ne deriva una profonda asimmetria del sistema posto che, ai sensi dell’art. 575 c.p.p. il responsabile civile può invece proporre impugnazione con il mezzo che la legge attribuisce all’imputato, cioè con l’appello, avverso le disposizioni della sentenza di condanna riguardanti la responsabilità dell’imputato e contro quelle relative alla condanna di questi e del responsabile civile alle restituzioni, al risarcimento del danno e alla rifusione delle spese processuali;
3)  ancora, in mancanza di espressa previsione normativa, la parte civile non potrebbe proporre appello, ai fini della responsabilità civile, avverso le sentenze di proscioglimento, neppure nel caso in cui disponga di una prova sopravvenuta e decisiva, come invece possono fare tanto l’imputato che il P.M.;
4)  a causa della mancata riproposizione della modifica dell’art. 652 c.p.p. la parte civile perderebbe il potere di appello senza neppure la possibilità di evitare l’efficacia extrapenale della sentenza di proscioglimento e ciò in contrasto con il principio che lega l’inappellabilità alla inesistenza di pregiudizio all’azione risarcitoria;
5)  qualora poi si ritenga che, dalla soppressione del potere di appello derivi altresì l’inammissibilità degli appelli già proposti, ne consegue la sicura incostituzionalità della normativa transitoria in quanto priva ex abrupto una parte del potere di proporre impugnazione, senza prevedere alcun meccanismo – a differenza di quanto previsto per P.M. ed imputato per la remissione in termini al fine di proporre ricorso per cassazione – subendo per di più l’efficacia extrapenale della sentenza di assoluzione e la impossibilità di tutelare i suoi diritti in sede civile stante la necessaria sospensione cui il relativo giudizio andrebbe incontro in caso di proposizione dell’azione civile in quella sede ai sensi dell’art. 75, comma 3, c.p.p.
Da quanto detto deriva che la tesi della permanenza del potere di appello in capo alla parte civile genera minori frizioni all’interno del sistema, anche se, come vedremo, apre le porte ad una generale censura di irragionevolezza dell’intero impianto della legge Pecorella.
Tale tesi, dal punto di vista normativo, risulta fondatamente sostenibile in quanto gli argomenti sostenuti in contrario appaiono superabili.
In primo luogo ritengo che il principio di tassatività delle impugnazioni non implichi necessariamente che il potere di proporre appello debba essere attribuito in modo espresso, potendo la sussistenza di tale potere trovare anche conferme indirette in norme dettate ad altri fini ma che comunque presuppongano implicitamente l’esistenza di quel potere.
Ora, a prescindere dalla voluntas legislatoris, non può rimanere senza significato il dato della soppressione del collegamento della parte civile con il P.M. La logica induce a ritenere che, siccome i poteri del P.M. sono stati limitati, con la soppressione dell’inciso “con il mezzo previsto per il pubblico ministero” la nuova versione dell’art. 576 c.p.p. intenda conservare alla parte civile quelle facoltà che al P.M. vengono tolte e non certo prevedere per la stessa limitazioni addirittura maggiori di quelle previste per P.M. ed imputato.
Ed infatti, la logica ci dice che la soppressione dell’inciso ha necessariamente la funzione di accrescere i poteri della parte civile perché altrimenti tale soppressione non avrebbe alcun senso. Cioè se sistema normativo intendeva attribuire alla parte civile solo il potere di proporre ricorso per cassazione, allora non vi era alcun bisogno della soppressione dell’inciso in quanto tale potere discende direttamente dalla Costituzione e il mantenimento dell’inciso non avrebbe fatto altro che confermarlo a livello di legislazione ordinaria.
In secondo luogo l’art. 600 c.p.p., per quanto dettato con riferimento alle sentenze di condanna, comunque presuppone il permanere del potere di appello in capo alla parte civile perché, ragionando diversamente, questa non potrebbe appellare, ai fini civili, neppure le sentenze di condanna per cui la relativa disposizione non avrebbe senso, salvo a voler ritenere che la parte civile, a fronte di una decisione di condanna che tuttavia non la soddisfi in punto di statuizioni civili, alle quali sia stata negata la provvisoria esecutività, possa lamentarsi davanti al Giudice di appello, solo di quest’ultimo aspetto, e non anche del quantum liquidato, eventualmente irrisorio, ovvero della negazione di talune voci di danno (ad es. il danno esistenziale).
Senza considerare poi che la richiesta di riconoscimento della provvisoria esecutività delle statuizioni civili, ritenute comunque insoddisfacenti, potrebbe far correre alla parte civile il rischio che il suo comportamento possa essere interpretato come acquiescenza alle decisioni del primo Giudice.
Ancora l’art. 605, comma 2, c.p.p. prevede che “le pronunce del giudice di appello sull’azione civile sono immediatamente esecutive”. Orbene nulla autorizza a ritenere che la norma si riferisca solo alle pronunce di conferma di sentenze di condanna emesse in primo grado, ovvero emesse a seguito dell’appello del P.M. avverso una sentenza di proscioglimento nei casi in cui ciò sia consentito (scoperta di prova nuova e decisiva), in quanto la previsione di carattere generale della norma consente di farvi rientrare anche i casi di accoglimento dell’appello ai fini civili proposto dalla parte civile avverso una sentenza di proscioglimento.
Se dunque la tesi della permanenza del potere di appellare in capo alla parte civile è sostenibile in via interpretativa, si inquadra meglio nel sistema normativo previgente, ed evita di incappare nei dubbi (per non dire certezze) di incostituzionalità che accompagnano l’opposta tesi, deve allora concludersi che, nell’assetto voluto dalla legge Pecorella, come già detto, all’ospite sono riconosciute maggiori facoltà rispetto al padrone di casa.
E questo dato, di dubbia razionalità, determina poi incredibili incongruenze sul piano processuale potendo dar luogo a situazioni paradossali nelle quali, avverso la stessa sentenza, vengano contemporaneamente proposti il ricorso per cassazione da parte del P.M. e l’appello della parte civile, con il conseguente rischio di esiti processuali assolutamente incoerenti e contrastanti tra loro, come nel caso in cui la Corte d’Appello rigetti il gravame della parte civile e la Corte di Cassazione invece annulli la sentenza di proscioglimento con rinvio al primo Giudice che emetta una sentenza di condanna confermata nei successivi gradi di giudizio. Ovvero, a contrario, come nel caso in cui la Corte d’Appello accolga la domanda risarcitoria proposta con l’atto d’appello dalla parte civile e la Corte di Cassazione invece rigetti il ricorso del P.M.
Il tutto con la contemporanea pendenza avverso la stessa sentenza di mezzi di impugnazione diversi senza che possa operare l’art. 580 c.p.p. limitato ai soli casi di connessione di cui all’art. 12 c.p.p.
Da qui la irrazionalità assoluta del sistema derivante dalla legge Pecorella ed il paradosso per il quale la sorte della parte civile finisce per travolgere, fungendo da grimaldello, la legittimità costituzionale delle nuove disposizioni nella parte in cui limitano, ma in realtà escludono, il potere di appello del P.M., determinando una situazione nella quale all’interprete si profila una sorta di scelta tragica, in base alla quale, qualunque corno del dilemma si scelga, si finisce sempre e comunque sotto un diverso aspetto di illegittimità costituzionale.
La normativa transitoria

Venendo ad esaminare la normativa transitoria, si pone in primo luogo il problema di circoscrivere l’ambito di applicazione di tale normativa: essa riguarda solo la sorte degli appello già proposti oppure comprende anche il caso in cui il processo di primo grado sia ancora pendente?
La questione assume rilievo nell’ottica della tesi che nega il potere di proporre appello alla parte civile che, in questa prospettiva, subisce una illegittima compressione dei suoi diritti posto che alla inappellabilità dell’eventuale proscioglimento si accompagna l’efficacia extrapenale della sentenza e l’effetto sospensivo del processo civile nel quale abbia eventualmente trasferito l’azione risarcitoria.
Venendo alla sorte degli appelli già proposti dalla parte civile, riscontriamo la presenza di tesi in larga parte sovrapponibili a quelle viste in relazione alla normativa a regime, considerata anche la stretta interdipendenza tra le due.
Secondo la prima tesi, dalla soppressione del potere di proporre appello in capo alla parte civile, deriva la inammissibilità degli appelli pendenti ai sensi dell’art. 10, comma 1, l. 46/2006 che prevede l’immediata applicabilità della nuova normativa ai processi in corso.
In questa prospettiva l’inammissibilità dell’appello pendente deriverebbe direttamente dall’art. 10, comma 1, l. 46/2006, mentre i commi successivi avrebbero la esclusiva funzione di prevedere un meccanismo di rimessione in termini per consentire agli appellanti di proporre ricorso per cassazione.
Tuttavia, non essendo applicabile alla parte civile il meccanismo di rimessione in termini per proporre ricorso per cassazione, entro 45 giorni dalla notifica dell’ordinanza di inammissibilità, riconosciuto a P.M. ed imputato, ne deriva la incostituzionalità, in parte qua, della normativa transitoria.
Secondo l’opposta tesi invece, conservando la parte civile il potere di proporre appello, ovviamente anche l’appello già proposto conserva efficacia, e ciò sarebbe dimostrato proprio dalla mancata previsione della declaratoria di inammissibilità dell’appello dalla stessa proposto, essendo invece tale previsione dettata solo per P.M. ed imputato.
Secondo una tesi originale, che consentiva di salvare capra e cavoli, elaborata in primis dalla Corte d’Appello di Perugia, ed adottata anche dalla Corte d’Appello di Milano in un famoso processo, la sorte dell’appello già proposto dalla parte civile sarebbe del tutto autonoma rispetto alla normativa a regime, per cui, se anche si dovesse ritenere che la parte civile abbia perso il potere di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, gli appelli già proposti comunque conserverebbero efficacia.
Ciò per varie ragioni:
1)  in primo luogo perché, in applicazione del principio tempus regit actum, la validità ed efficacia dell’appello andrebbe valutata con riferimento al momento della sua proposizione. Tale principio non sarebbe derogato dalla normativa transitoria contenuta nel comma 1 dell’art. 10 l. 46/2006 in quanto questo starebbe semplicemente a significare che, se al momento dell’entrata in vigore della legge, non sono ancora scaduti i termini per proporre appello e questo non sia ancora stato proposto, non sarà più possibile proporlo successivamente;
2)  la mancata previsione della declaratoria di inammissibilità dell’appello della parte civile conferma che lo stesso conserva efficacia;
3)  diversamente si dovrebbe concludere per la illegittimità costituzionale della norma che, in presenza di una interpretazione alternativa, non costituisce una strada obbligata.
Come risulta evidente si tratta di un tentativo di evitare di incappare in una delle possibili censure di incostituzionalità in quanto, affermando l’autonomia della normativa transitoria da quella a regime si evita di prendere posizione circa la razionalità di un sistema che eventualmente sopprime l’appello del P.M. conservando quello della parte civile; ed al contempo si evita di comprimere illegittimamente i diritti del danneggiato dal reato.
Tuttavia anche questa soluzione non appare del tutto appagante in quanto dà luogo ad una situazione ingestibile caratterizzata dalla contemporanea pendenza dell’appello della parte civile e del ricorso per cassazione del P.M., con il rischio che un’unica ed unitaria vicenda processuale, dia luogo ad esiti assolutamente contrastanti tra di loro.
Senza considerare che, in tal modo argomentando, la Corte d’Appello Penale rimarrà investita, in tutti i casi in cui il danneggiato si sia costituito parte civile, della cognizione di questioni prettamente civilistiche, in violazione del principio ricavabile dall’art. 578 c.p.p. che relega una siffatta evenienza in casi del tutto eccezionali (quando cioè, dopo la condanna di primo grado, sia intervenuta estinzione del reato per amnistia o prescrizione), norma più volte ritenuta inapplicabile ad altre ipotesi (come quella della estinzione del reato per morte del reo).
Ne deriva che anche questo lodevole tentativo di salvare il salvabile non appare destinato al successo né idoneo ad esimere l’interprete da una presa di posizione in merito al dilemma che la nuova normativa pone:
1)  se la parte civile conserva il potere di appello avverso le sentenze di proscioglimento appare anche per questo verso manifesta l’irragionevolezza della soppressione del relativo potere in capo al P.M., oltrechè ingestibili le situazioni processuali che tale opzione genera;
2)  se la parte civile non ha più il potere di proporre appello risulta illegittima, in quanto violativa dell’art. 24 Cost., la compressione dei diritti del danneggiato dal reato.
In conclusione, ribadendo quanto già detto, la legge Pecorella si manifesta talmente disorganica e asistematica da rimanere, ad imperitura memoria, come esempio di cattiva legislazione e di cattivo adempimento delle funzioni da parte dei parlamentari, alcuni dei quali particolarmente qualificati come professori di diritto ovvero avvocati.
Per questo, se pure non la si vuol definire una legge vergogna, per le implicazioni latu sensu politiche che tale espressione comporta, di certo, dal punto di vista strettamente tecnico, si può definire una vergogna di legge.
 
Dott. Gennaro Iannarone - maggio 2006
 
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