Nel pieghevole che presenta questo Seminario troviamo scritto che la protezione dei diritti fondamentali è obiettivo delle costituzioni nazionali, della Convenzione europea per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, della Costituzione europea, di numerosi atti normativi internazionali; che contro i diritti fondamentali si erge una varietà di motivi di discriminazione di origini diverse, tra i quali la razza, l’origine etnica, la religione; che le discriminazioni sono inoltre un ostacolo alla coesione economica e sociale. Vi si afferma che perciò è necessaria un’adeguata tutela, ma si aggiungono due importanti precisazioni: a) questa tutela può e deve essere anche giuridica, quindi non soltanto giuridica; b) essa deve essere sempre rispettosa dei canoni di civiltà che fondano gli stessi diritti fondamentali, vale a dire che vi sono limiti invalicabili nell’impiego degli strumenti giuridici.
Se riflettiamo queste due precisazioni sul diritto penale possiamo giungere ad affermare:
a) che il diritto penale, ancor più che il diritto in genere, non è in grado di costituire uno strumento affidabile di tutela preventiva. La pena, la misura di sicurezza, la misura di prevenzione, soprattutto quando attingono beni fondamentali come la libertà personale, si comportano sempre come armi a doppio taglio che rischiano di ferire la mano stessa che le impugna, causando lacerazioni individuali e sociali più gravi di quelle che in ipotesi si vorrebbero prevenire, e comunque intervengono, almeno nella pratica, quando già le offese si sono realizzate. Vale quindi ribadire il principio di extrema ratio per cui il diritto penale non solo dovrebbe essere ammesso ad intervenire esclusivamente quando si sono già esaurite tutte le opportunità di utilizzare altre misure sanzionatorie, ma anche deve essere impiegato con parsimonia perché non è in grado di colmare la lacuna dell’assenza di una valida politica sociale, né può sostituire un’intelligente e prudente politica di polizia di vigilanza generalpreventiva, e soprattutto non è in grado di creare un’etica conforme a certi valori là dove questa etica non esiste - non è in grado di creare un senso sociale rispetto a valori condivisi laddove gli uomini e le donne che in concreto formano la società non vogliano non sappiano o comunque non pratichino un senso del genere.
b) Riguardo al rispetto nell’impiego della pena etc. dei canoni che fondano gli stessi diritti fondamentali che tramite la pena si vorrebbero tutelare, occorre ribadire soprattutto: I) che la civiltà giuridica penalistica tende a rifuggire l’idea che si possa colpire un’individuo ancor prima che abbia commesso un fatto significativo in termini di offesa ad un’importante bene giuridico, cioè solo sulla base di una sua pericolosità personale il cui accertamento sconta però una inaccettabile componente arbitraria; II) che comunque la pena deve essere riservata, anzitutto per elementari esigenze di proporzionalità e ragionevolezza, esclusivamente a fatti davvero concretamente offensivi; III) che il principio di personalità della responsabilità penale esige la colpevolezza – non basta la materialità di un fatto commesso e l’antigiuridicità di questo fatto - e quindi postula che la persona interessata sia in grado di comprendere il disvalore del proprio operato e di determinarsi liberamente. Last but not least necessita di considerare (IV) che in un ordinamento ispirato alla concezione personalistica fondata sulla primazia della dignità di ciascun uomo, gli scopi e i contenuti della pena, quali essi siano, comunque devono essere conformi al senso di umanità e quindi escludere ogni strumentalizzazione dell’individuo a fini collettivi, e rispettare quindi tra l’altro la sua libertà morale evitando l’imposizione di trattamenti rieducativi o risocializzanti o forme di subdola coercizione indiretta.
Questi principi, oltre ad altri che qui devo trascurare per economia espositiva, denotano in sintesi la peculiare attenzione che il diritto penale dovrebbe rivolgere alle condizioni del singolo uomo concreto, circondando di estreme cautele l’eventualità che quest’uomo debba subire una limitazione di libertà personale o una afflizione comunque. In questa prospettiva potremmo dire tra l’altro che il diritto penale, poichè si preoccupa dell’uomo concreto nella sua irripetibile individualità che lo rende diverso da tutti gli altri, reca con sé, oltre l’inevitabile esigenza anche di uguaglianza formale, un’importante pretesa di spingersi a una discriminazione al grado massimo, vale a dire una imprescindibile esigenza di uguaglianza sostanziale, per cui situazioni diverse non possono essere trattate allo stesso modo. Spesso il pubblico che apprende di certe decisioni giudiziali penali e non sa darsene ragione non si rende conto che esse discendono proprio da questo insopprimibile collegamento alle esigenze del caso concreto, il che comporta anche un’inevitabile componente di arbitrarietà nella decisione, che però in molti casi è preferibile al certo arbitrio di una legge rigidamente concepita.
Tutto ciò peraltro pone problemi di estrema complessità e delicatezza in un’epoca come la nostra che è caratterizzata dal c.d. scontro di culture, per il quale ci si dibatte in diritto, e nondimeno in diritto penale, tra un’esigenza di uniformazione-globalizzazione, cui è sottesa la pressione esercitata dai valori della parte dominante, che cerca ancoraggio anche nel principio di uguaglianza formale, e una esigenza di differenziazione-multiculturalismo, che cerca ancoraggio anche nel principio di uguaglianza sostanziale.
Ovviamente le attribuzioni di peso sulla bilancia della giustizia dipendono da giudizi che il diritto fatica ad esprimere, così come fatica già la politica che al diritto dovrebbe imprimere una direzione chiara. Le concezioni della dignità umana sono plurali. Che siano plurali lo abbiamo storicamente sperimentato già nella limitata esperienza nazionale ed europea ancor prima che si affacciassero vuoi un’immigrazione che ha portato con sé l’ingresso di componenti culturali radicalmente diverse, vuoi l’instaurazione di scontri politici, economici e anche bellici con realtà sociali appartenenti a culture di tradizioni diverse da quelle c.d. occidentali. Ciò inoltre determina o comunque fa emergere fratture all’interno di realtà culturali prima (forse solo apparentemente) omogenee, proprio con riguardo alle valutazioni e quindi agli interventi da adottare in ordine al portato del c.d. scontro di culture.
La dottrina penale (penso ora soprattutto al bel lavoro di Alessandro Bernardi destinato agli Scritti in onore di Marinucci, di cui faccio tesoro) si è di recente soffermata in modo particolare sul reato c.d. culturale o culturalmente orientato, il quale sarebbe indotto e favorito dal fattore culturale proprio della minoranza di appartenenza. Per esempio: reati in materia di lavoro, o contro la libertà sessuale, di cui sono vittime minori non considerati tali dal gruppo di appartenenza; reati contro un familiare realizzati in contesti culturali caratterizzata da un’idea dei poteri spettanti al pater familias o ai genitori o al datore di lavoro diversa da quella cui la nostra tradizione è ancorata; reati commessi a tutela del proprio onore o dell’onore familiare o di gruppo, secondo una concezione di onore che addirittura li imporrebbe; reati contro la persona, come la mutilazione o deformazione “rituali” di vario tipo secondo tradizioni a noi estranee.
A questa categoria, che suggerisce una complessiva riconduzione a minoranze di etnìa o comunque tradizione culturale affatto diversa da quella, per dirla in breve, occidentale, si ricollega una distinzione secondo che la minoranza sia “indigena” o no. Questa distinzione è implicata dalla costatazione che laddove esistono minoranze etniche indigene, che in molti casi costituiscono quanto rimane dopo la colonizzazione operata dagli occidentali, talvolta si riscontra la scelta della differenziazione rivolta al rispetto della diversità culturale e quindi alla mitigazione, al mutamento, all’adattamento dello strumento penale alla diversa realtà culturale locale di minoranza. Insomma, vi è l’introduzione delle c.d. difese culturali, cioè tra l’altro cause di non punibilità o di attenuanti di tipo culturale, la considerazione dell’errore culturalmente condizionato che esclude la colpevolezza, e anche la creazione di circuiti giudiziari appositi, a volte molto originali in quanto strutturati sulle tradizioni proprie della minoranza interessata.
Ciò è avvenuto, per esempio, in Canada e Stati Uniti riguardo agli Inuit (eschimesi) e ai “Pellerossa”, e da tempo in molti paesi dell’America Latina per le popolazioni andine o comunque indigene, gli aborigeni, quindi popoli precolombiani, indios.
Oltre a queste forme che qualcuno potrebbe etichettare come rivolte al risarcimento o alla “pulizia della coscienza”, ve ne sono altre di diversa origine. Pure in Africa si riscontra spesso la coesistenza di ordinamenti giuridici paralleli, soprattutto nelle campagne laddove permane e talora si rafforza la tendenza all’uso di un diritto consuetudinario ricalcato sulla base dei diritti propri delle etnie locali. Analoghi fenomeni si verificano in Asia, come in Cina e India laddove grande è il numero e l’ampiezza delle minoranze etniche.
Qualora invece non si tratti di minoranze stabilmente inserite ab origine, ma del frutto di immigrazione, questo atteggiamento differenziante tende ad essere evitato, al suo posto affermandosi invece un modello che rifiuta di assegnare rilevanza penale al fattore culturale e veicola invece la globalizzazione, l’integrazione, l’assimilazione, imponendo regole uguali per tutti e ovviamente ispirate dalla cultura dominante. Talvolta così si nasconde la volontà politica di mantenere di fatto la separazione, rinunciando anche alla pur tenue accomunazione che deriva dal riconoscimento legale della diversità.
Ciò accade nei paesi c.d. ricchi, a parte pur significativi esempi di una tolleranza che sporadicamente emerge soprattutto nella giurisprudenza. La Francia per esempio propugna il principio dell’eguaglianza assimilatrice, sotto la difesa della concezione c.d. neutrale e laica dello Stato che però, come ormai tutti sanno, è una concezione ispirata da una precisa ideologia-cultura – per quanto, volendo, condivisibile o almeno irrinunciabile per certi versi - e perciò non è affatto neutrale mentre la sua laicità è tutta relativa ad un certo modo di concepire una tradizione di problemi emersi nel nostro mondo c.d. occidentale. Analoghe considerazioni valgono per la Spagna, mentre per la Germania merita aggiungere, specie con riguardo all’ enorme comunità turca ivi stabilita, che il disegno complessivo mira a una istituzionalizzazione della precarietà, della provvisorietà, rivolta a favorire l’integrazione lavorativa ma non l’integrazione socio-culturale, nella prospettiva di favorire un ritorno al paese di origine. In Francia peraltro parrebbe in via di sviluppo una prospettiva critica, anche in dipendenza di un grande incremento dei fenomeni di devianza e di delinquenza da parte delle minoranze immigrate.
Nell’ancor più radicale verso della degradazione di valore in ragione della diversità, e adottando quindi il paradigma della discriminazione in senso sfavorevole, vanno gli sviluppi della legislazione penale inaugurata dal Presidente U.S.A. G.W. Bush dopo l’11 settembre e in nome della guerra al terrorismo (caso c.d. Guantanamo). Contro i nemici, c.d. terroristi islamici, è stato creato tutto un sistema penale ad hoc, di guerra (diritto penale per il nemico), all’insegna dell’ espressa revoca dei principi dello Stato costituzionale di diritto, sistema che ha comportato quindi tra l’altro la costituzione di apposite commissioni militari molto arbitrarie e alla carcerazione preventiva anche di chi terrorista non era, senza garanzie e con possibilità di torturare i detenuti – l’introduzione della tortura è stata ormai ufficialmente ammessa dalla stessa amministrazione americana. E’ significativo che questo sistema almeno inizialmente sia stato concepito come rivolto soltanto al trattamento di persone non aventi cittadinanza statunitense, e in pratica appartenenti a certi Stati medio-orientali, mentre però sùbito invece si siano affacciati casi di presunti terroristi di fede islamica aventi cittadinanza americana o di stati c.d. occidentali, il che ha contribuito molto a far emergere le aporie nonché l’ingiustizia di quel terrificante e per certi aspetti terroristico diritto penale di guerra, ispirato essenzialmente da una rozza idea di vendetta che la civiltà giuridica almeno europea ha sempre recisamente respinto. Il tema può qui solo essere così accennato, aggiungendo soltanto che dovremmo indagare sui nessi e le differenze tra il reato “culturale” e quello “politico”, ciò che avrò modo di rilevare anche in seguito.
Venendo ora all’Italia, riscontriamo ancora una volta, nel complesso, e con riguardo all’ambito penalistico, una netta indifferenza rispetto al “fattore culturale” con riguardo alle minoranze immigrate. Non esistono istituti di parte generale specificamente pensati per attenuare o elidere le conseguenze penali applicabili all’autore dei c.d. reati culturali. Fino a poco tempo fa si poteva, inoltre, rilevare che non solo non esistevano nel codice penale e nelle principali leggi penali nemmeno norme di parte speciale ispirate in senso favorevole da tale fattore (cadute da tempo quelle originarie come la causa d’onore), ma in complesso emergeva un quadro di rispetto del principio di eguaglianza formale che più che il frutto di una scelta di politica criminale e penale costituiva il frutto di un negligente perpetuarsi di modelli concepiti prima dell’ondata immigrativa. Un discorso a parte, che qui non inizio e lascio ad altri interventori e alle comunicazioni che saranno pubblicate negli Atti, riguarda la normativa concernente l’ingresso e il soggiorno degli stranieri extracomunitari, laddove abbiamo sperimentato, e solo a volte in situazione di davvero estrema emergenza e assenza di alternative praticabili, una serie notevole di obbrobri giuridici, compresi i famigerati campi di detenzione e il rimpatrio di massa. Lascio a parte anche la considerazione peraltro imprescindibile che le nostre carceri sono strapiene di stranieri in costante aumento, e che ciò dovrebbe indurre ad interrogarsi a fondo su quali compiti assolva di fatto il nostro diritto penale - di certo si arriverebbe alla conclusione che troppo spesso il carcere è la nostra unica risposta alla diversità, soprattutto quando quest’ultima si sposi con l’indigenza e quanto ne consegue.
Oggi comunque, anche con riguardo al codice penale e alle leggi penali principali che con esso ancora si ritiene esprimano il sacello degli orientamenti penalistici di fondo quanto al “fattore culturale”, la conclusione sulle ispirazioni politico-giuridiche di principio pare dover mutare. Infatti, alla luce dei cambiamenti introdotti al crepuscolo della ancora per poco corrente legislatura, si staglia anzitutto una precisa scelta nel senso di non tener conto in senso favorevole del fattore culturale con riguardo alla pratica di mutilazione genitale femminile. Questa pratica, che per la nostra tradizione italiana concerne l’esotico, con legge n. 7 del 9 gennaio 2006 è stata assoggettata a pene gravissime, tanto gravi che forse è possibile intravvedere addirittura un surplus di pena rispetto al tradizionale trattamento delle lesioni personali, e quindi un disfavore in qualche modo collegato all’origine “culturale” del fatto. Eppure la stessa legge esordisce con tutto un piano di programmi informativi e di sensibilizzazione degli stranieri la cui ignoranza rispetto al così ribadito disvalore penalistico è espressamente riconosciuta dalla legge stessa. Ma che senso avrebbe il punire chi non sa e non può sapere e anzi non crederà mai che il suo comportamento sia illecito, perchè anzi lo ritiene perfino doveroso? L’unico rimedio pratico è attualmente quello di impiegare la scusante dell’inevitabilità dell’errore sulla legge penale, sempre che si estenda per più versi la relativa disciplina, e in particolare tra l’altro la si estenda ai reati che per noi sono “naturali”, cioè sono crimini già in forza di una considerazione culturale e di una conoscenza comune che preesistono e prescindono dalla legge, crimini quindi per i quali non sarebbe ammessa la scusa dell’ignoranza inevitabile. La scusa per noi è riservata solo ai reati c.d. artificiali, cioè i fatti della cui illiceità si apprende solo se ci si informa bene sul contenuto delle leggi. Occorre però accettare finalmente, e almeno in questo ristretto ambito della scusa penalistica, l’idea che ciò che è naturalmente reato per una certa cultura non lo è per un’altra.
Una ulteriore novità che segnala un mutamento di orientamento concerne fatti che pure sono per certi versi riconducibili ad una matrice culturale di minoranza, epperò minoranza formata da persone “indigene”, appartenenti al popolo italiano, di tradizione culturale c.d. occidentale, europea. Mi riferisco alle recenti modifiche in tema di reati di opinione (legge 24 febbraio 2006, n. 85). A prima lettura, e con riserva di miglior approfondimento, parrebbe che si sia usato un paradigma di riforma che non soltanto è, condivisibilmente, favorevole alla sacrosanta tutela del diritto di manifestazione del pensiero secondo una concezione non limitante (quale che sia il pensiero, fosse pure un pensiero razzista), ed elimina quindi interventi penalistici contro fatti meramente significativi di opinione, cioè interventi troppo anticipati, forieri di arbitrio e comunque inutili o addirittura controproducenti.
Inoltre, tuttavia, pare che si sia inteso affievolire di molto (se non eliminare in relazione a certi fatti) la tutela penale concernente l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato, la Costituzione italiana, gli organi costituzionali, quindi moderare anche la tutela contro la formazione di associazioni sovversive. In complesso, la specificità di certi reati politici, che anche qui emergono nel loro aspetto “culturale”, reati i quali hanno contenuto rivoluzionario o comunque sovversivo, è stata riservata alla modalità violenta con esclusione della rilevanza di altre modalità illecite pur altrettanto pericolose in concreto, mentre le pene sono state mitigate. Sembrerebbe che si sia tenuto conto favorevolmente che in Italia vi è una minoranza culturale, rappresentata anche in Parlamento, la quale propugna valori antitetici a quelli che ho appena sommariamente elencato. Si confermerebbe quindi in questo molto peculiare ambito che le ragioni delle minoranze culturali indigene sono dotate di miglior fortuna nell’apprezzamento del legislatore penale. E per la verità sorge il dubbio che le ragioni di questa minoranza siano state considerate perfino in relazione alle modifiche in tema di reati di opinione, compreso il punto relativo alla discriminazione razziale, etnica etc., poiché si tratta di una minoranza particolarmente avversa rispetto alla presenza in Italia di stranieri extracomunitari e a quanto ne consegue, nonché rispetto a chi comunque sostenga le ragioni di tali stranieri. Si è già detto che proprio lo scontro di culture determina o comunque fa emergere fratture all’interno di realtà culturali prima (forse solo apparentemente) omogenee, com’era per il profilo che qui interessa quella italiana quando non conosceva l’immigrazione di massa.
Una terza novità che tra le altre merita segnalare, sempre nella stessa legge dello scorso febbraio, è la riforma del trattamento punitivo delle offese che ora vengono qualificate come “delitti contro le confessioni religiose”, mentre prima si trattava di delitti contro il sentimento religioso. E’ arduo capìre cosa davvero rappresenti questo passaggio dal sentimento religioso alla religione tout court. E’ però chiaro che a fronte di una sorprendentemente indiscriminata estensione della tutela a qualsiasi religione – senza neppure specifici criteri di riconoscimento di cosa sia una religione, se non proprio in ordine alla meritevolezza del nome agli effetti penali -, il che potrebbe anche essere inteso come una valorizzazione della religione, sta il radicale abbattimento di valore della religione quale che sia: infatti, si è in tendenza rinunciato alla pena detentiva a favore della pena pecuniaria. Chi è in grado di pagare può offendere la religione altrui – è questo il “messaggio penale”?
E’ comunque da chiedersi, ma non sarei in grado ora di rispondere a ragion veduta, se si sia prefigurato per il futuro uno scenario di scontri tra gruppi religiosi, e la scelta di politica penale abbia privilegiato l’intento di contenere l’intervento penale contro fatti originati da concezioni cultural-religiose. Perfino le minoranze che danno vita a gruppi religiosi congenitamente delinquenziali se ne potranno avvalere, gruppi come per esempio taluni di quelli che osservano religioni sataniche.
In conclusione vorrei osservare che il diritto penale di nuova introduzione si carica di una funzione soprattutto simbolico-promozionale, spesso però equivoca riguardo al significato del simbolo, in un quadro che tra l’istanza di globalizzazione e quella di multiculturalismo opta senz’altro per la prima, salve le ragioni “indigene”. L’attuale tendenza, se pur è spiegabile in relazione al grave disagio e alla comune impreparazione che si riscontrano dinanzi ai recenti, massicci afflussi di popolazione straniera, tuttavia pone gravi problemi di compatibilità con i cardini essenziali, irrinunciabili del diritto penale cui ho accennato in apertura, i quali esprimono elementari esigenze di garanzia di diritti fondamentali. La ragionevolezza del sistema è ancora una volta minata da riforme ispirate piuttosto ad interferenti interessi contingenti e velleità demagogiche che non a misurate riflessioni sugli scopi, gli effetti e i limiti dello strumento penalistico.
- prof. Avv. Silvio Riondato - professore associato di diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Padova – www.riondato.com – marzo 2006
(riproduzione riservata)
Testo della Relazione al Seminario “Discriminazione razziale, xenofobia, odio religioso. Diritti fondamentali e tutela penale” (Università degli Studi di Padova, 24 marzo 2006)
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