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 Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Brescia, Questione di legittimità costituzionale 8 marzo 2006

Legge Pecorella: illegittima secondo la Procura Generale di Brescia

                            PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI BRESCIA
ALLA CORTE DI APPELLO
Seconda sezione penale
Sede
 
Istanza relativa a questione di legittimità costituzionale formulata nel processo di appello a carico di XXX
 
A norma dell’art.23 lett.a) legge costituzionale 11.3.1953 n.87 si eccepisce il vizio di illegittimità costituzionale delle seguenti norme di legge: art.593 comma 2 c.p.p. come sostituito dall’art.1 legge 20.2.2006 n.46 e art.10 della medesima legge, nella parte in cui introducono limiti e cause di inammissibilità dell’atto di appello avverso le sentenze di proscioglimento anche in riferimento ai procedimenti in corso.
Interesse concreto alla proposizione della istanza.
Sussiste il requisito della indispensabilità della previa risoluzione della questione sollevata in riferimento alla posizione delle imputate XXX, nei cui confronti é stato proposto appello del pubblico ministero a seguito della sentenza di assoluzione di primo grado; facendo applicazione delle norme di cui si eccepisce l’incostituzionalità, la loro posizione, già oggetto di discussione dibattimentale, dovrebbe essere definite con ordinanza non impugnabile di inammissibilità dell’appello. Si chiede la separazione della posizione delle suddette imputate a norma dell’art.18 lett.b) c.p.p.
 
Premessa: insussistenza del principio costituzionale di doppio grado di giurisdizione di merito.
La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato che il “doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale” ( tra le altre ordinanza n.421/2001); neppure esso può essere derivato da convenzioni internazionali con riferimento all’art.2 del protocollo addizionale n.7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22.11.1984 “poiché tale disposizione non legittima una interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di merito, ma consente di ritenere che il principio si sostanzia nella previsione del ricorso in Cassazione già presente nella Costituzione italiana” ( sentenza Corte Cost. n.288/1997). Peraltro osserva la Corte Cost. che la pretesa “costituzionalizzazione” di detto principio che si vuole derivare dall’art.2 prot. citato, dimostra solo l’ignoranza dei fondamenti del diritto internazionale, atteso che il richiamo operato dall’art.10 comma 1 Cost. alle norme di diritto internazionale “generalmente riconosciute” si riferisce all’evidenza alle norme internazionali di origine consuetudinaria e non a quelle di origine pattizia.
Ma a prescindere da ciò, la tesi del fondamento “internazionale” del principio del doppio grado di giurisdizione di merito costituisce una autentica “leggenda metropolitana” che si basa sulla lettura del primo soltanto dei due commi dai quali é composta la citata norma. L’art.2 protocollo addizionale Convenzione Strasburgo, dopo avere stabilito al primo comma che “ogni persona dichiarata rea da un tribunale ha diritto di far esaminare la colpevolezza o la condanna da un tribunale superiore” ( prescrizione che secondo la Corte Cost. é adempiuta dalla ricorribilità in cassazione di tutte le sentenze di condanna), al secondo comma prevede espressamente delle eccezioni, quali l’ipotesi in cui “l’interessato é stato dichiarato colpevole e condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento”.
Quindi la fattispecie della condanna in grado di appello che segue ad una assoluzione di primo grado é perfettamente conforme al diritto costituzionale ed alla Convenzioni internazionali alle quali l’Italia ha aderito.
 
1) Con riguardo all’art.593 c.p.p.
-Violazione del principio della parità delle parti nel processo stabilito dall’art.111 Cost.
La nuova formulazione dell’art.593 c.p.p. che limita la facoltà di appello delle sentenze di assoluzione, ridotta ad ipotesi talmente teoriche da escluderne di fatto l’applicabilità, viola il principio dello svolgimento del processo in condizioni di parità tra accusa e difesa.
La formula secondo cui i limiti riguardano, in maniera apparentemente equanime ed equidistante, il pubblico ministero e l’imputato, entrambi legittimati ad appellare le sentenze di condanna ed entrambi esclusi dall’appello delle sentenze di assoluzione, costituisce un espediente formalistico che, come una “foglia di fico”, non può nascondere la macroscopica diversità di trattamento consistente nell’applicazione della identica regola a parti del processo aventi interessi contrapposti.
E’ lapalissiano che il pubblico ministero non ha interesse o ha un interesse assai limitato a proporre appello avverso le sentenze di condanna, attività processuale che invece costituisce interesse primario dell’imputato. All’opposto l’interesse ad appellare le sentenze di assoluzione fa capo al pubblico ministero e non certo all’imputato che dal divieto non subisce danni tanto che anche secondo il previgente art.593 c.p.p. egli non era legittimato ad appellare le sentenze di assoluzione “perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso” per mancanza di interesse .
La Corte Cost. con più decisioni ( sentenza n.363/1991 e ordinanze successive tra cui n.421/2001) ha affermato che il limite all’appello del pubblico ministero nel giudizio abbreviato stabilito dall’art.443 c.p.p.( inappellabilità delle sentenze di condanna che non modificano il titolo del reato), non contrasta con i canoni di ragionevolezza e non viola il principio della parità delle parti perché: a)costituisce il “corrispettivo” in funzione premiale (unitamente alla riduzione della pena) della rinunzia al dibattimento da parte dell’imputato attraverso una opzione processuale che favorisce una più rapida definizione dei processi; b) perché in presenza di una sentenza di condanna comunque il pubblico ministero ha realizzato la pretesa punitiva fatta valere nel processo, rimanendo intatta la facoltà di impugnazione delle sentenze di assoluzione e delle sentenze di condanna che modificano il titolo del reato pronunziate nel giudizio abbreviato.
Le ragioni giustificative dei limiti, peraltro contenuti, alla facoltà di appello del pubblico ministero nel giudizio abbreviato, ritenute valide dalla Corte Costituzionale, sono totalmente inesistenti nella nuova formulazione dell’art.593 c.p.p. che disciplina l’appello in generale. La drastica limitazione della facoltà di appellare le sentenze di assoluzione per il pubblico ministero, comparabile nella sostanza ad un divieto totale di appello, costituisce una radicale mutilazione delle facoltà processuali della parte pubblica, facoltà che invece permangono sostanzialmente integre per l’imputato, che non ha interesse ad appellare le sentenze di assoluzione e conserva piena facoltà di appellare le sentenze di condanna.
A tale pesante disparità di trattamento tra la parte pubblica e l’imputato non corrisponde alcuna “contropartita “ sul piano processuale che giustifichi il diverso trattamento ed escluda il carattere discriminatorio della disposizione.
 
-Violazione dell’art.3 Cost. per manifesta irrazionalità.
L’art.593 c.p.p. presenta macroscopici profili di irrazionalità tali da integrare la violazione del principio di uguale trattamento riferibile all’art.3 Cost.
La previsione dell’appellabilità da parte del pubblico ministero delle sentenze di condanna e la pratica eliminazione della facoltà di appellare le sentenze di assoluzione autorizza la parte pubblica a proporre impugnazione quando la pretesa punitiva é stata accolta ed al solo fine di richiedere un aggravamento di pena, mentre vieta al pubblico ministero di proseguire nell’esercizio dell’azione penale con lo strumento dell’appello allorché la pretesa punitiva dello stato non é stata accolta. Si tratta di un profilo di manifesta incostituzionalità già rilevato dal Presidente della Repubblica nel proprio messaggio di rinvio alle Camere del 201.2006 in cui testualmente si osserva “ la soppressione dell’appello delle sentenze di proscioglimento, a causa della disorganicità della riforma, fa sì che la stessa posizione delle parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparità che supera quella compatibilità con la diversità delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo.....Un ulteriore incongruenza della nuova legge sta nel fatto che il pubblico ministero totalmente soccombente non può proporre appello, mentre ciò gli é consentito quando la sua soccombenza sia solo parziale, avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta”.
Il comma 2 dell’art.593 c.p.p. aggiunto proprio a seguito dei rilievi di incostituzionalità formulati dal Capo dello Stato è intrinsecamente irrazionale prospettando una fattispecie di appellabilità delle sentenze di assoluzione assolutamente marginale ed inattuabile di fatto.
Dal punto di vista del pubblico ministero, unico titolare dell’interesse ad impugnare le sentenze di assoluzione, la norma è irrazionale consentendo l’appello contro le sentenze di assoluzione in un’ ipotesi prossima all’inesistenza . E’ del tutto avulsa dalla realtà ritenere che il pubblico ministero scopra, dopo la pronunzia di primo grado, la prova nuova decisiva, capace di capovolgere la decisione assolutoria , non rinvenuta durante tutta la fase dedicata alle indagini preliminari e durante l’istruzione dibattimentale, e che la scopra nell’ arco temporale ristrettissimo corrispondente ai termini di 15,30 o 45 giorni concessi per l’impugnazione.
Né il pubblico ministero può prendersi un maggior lasso temporale ritardando la richiesta di rinnovazione sino alla presentazione di motivi nuovi a norma dell’art.585 comma 4 c.p.p., poiché la formulazione della richiesta di rinnovazione é requisito di ammissibilità dell’atto di proposizione dell’appello che ad essa si riduce.
Poiché l’ipotesi della prova a carico nuova e decisiva sopravvenuta durante la decorrenza dei termini per l’impugnazione é un ipotesi praticamente inattuabile,l’aggiunta effettuata dal legislatore é tamquam non esset, e la norma regredisce alla formulazione già censurata dal messaggio di rinvio alle Camere e della quale conserva tutti i profili di incostituzionalità.
 
Violazione della regola del contraddittorio stabilita dall’art.111 comma 2 Cost.
L’art.593 comma 2 stabilisce che il giudice di appello possa decidere l’impugnazione proposta contro la sentenza di assoluzione, “in via preliminare”, attraverso l’emissione de plano e senza alcun contraddittorio di una ordinanza di inammissibilità con la quale viene rigettata la richiesta di rinnovazione contenuta nell’atto di appello. Nonostante la denominazione di ordinanza di inammissibilità il provvedimento del giudice di appello emesso a norma dell’art.593 comma 2 c.p.p. non ha nulla a che vedere con la declaratoria di inammissibilità delle impugnazioni disciplinata dall’art.591 c.p.p.. Nelle “vere” ipotesi di inammissibilità dell’impugnazione previste dall’art.591 c.p.p. il giudice non entra nel merito del mezzo di gravame ma si limita a rilevare che l’atto di appello é proposto fuori dai casi consentiti o manca dei requisiti prescritti. Al contrario nel caso previsto dall’art.593 comma 2 il giudice dell’appello valuta nel merito la sussistenza e la fondatezza della prova nuova decisiva fatta valere dalla parte appellante, emettendo fuori udienza un provvedimento che nonostante la denominazione ha contenuto decisorio di merito e definitivo, con il quale il giudice esaurisce il nuovo grado di giudizio. Ma poiché ciò avviene al di fuori dell’udienza e senza alcun contraddittorio con le parti, appare palesemente violato il principio stabilito dall’art.111 comma 2 Cost. secondo il quale il processo, in tutti i suoi gradi di giudizio, deve svolgersi secondo la regola del contraddittorio.
-Violazione dell’art.112 Cost.
La Corte Cost. dopo avere affermato con sentenza n.177/1971 che “il potere di impugnazione del pubblico ministero costituisce una estrinsecazione ed un aspetto dell’esercizio dell’azione penale”, ha modificato il proprio orientamento, ritenendo che il potere di impugnazione del pubblico ministero non costituisce estrinsecazione “necessaria” dei poteri inerenti all’esercizio dell’azione penale ( citata ordinanza n.421/2001) essendo possibili configurazioni “asimmetriche” del potere di impugnazione della parte pubblica e privata e limitazione alla facoltà di appello giustificate da particolari contesti processuali ( es. nel giudizio abbreviato).
Tuttavia la sentenza della Corte Cost. n.98 del 24.3.1994 che rigetta l’eccezione di illegittimità costituzionale delle norme che nel rito abbreviato escludono l’appello incidentale del pubblico ministero, ha rilevato che “la configurazione dei poteri di impugnazione del pubblico ministero rimane affidata alla legge ordinaria che potrebbe essere censurata per irragionevolezza solo se i poteri stessi, nel loro complesso, dovessero risultare inidonei all’assolvimento dei compiti previsti dall’art.112 Cost.”
La situazione –limite astrattamente prospettata dalla Corte Cost. é proprio quella che si verifica a seguito dell’entrata in vigore della legge sulla inappellabilità delle sentenze di proscioglimento. La soppressione del potere di appello del pubblico ministero, da ritenere praticamente totale per quanto rilevato sulla marginalità se non irrealizzabilità della fattispecie prospettata nell’art.593 comma 2 c.p.p., compromette la capacità del pubblico ministero di far valere la pretesa punitiva dello Stato, ponendolo in uno stato di minorità in cui gli é preclusa la possibilità di coltivare l’azione punitiva pubblica attraverso la richiesta al giudice superiore di riesame dei fatti affermati nella sentenza assolutoria, anche in presenza di valutazioni di merito assolutamente non condivisibili.
 
2) Con riguardo all’art.10 legge 20.2.2006 n.46
Violazione del principio di buon andamento dei pubblici uffici ex art.97 Cost.
L’art.10 della legge 20.2.2006 n.46 che prevede la dichiarazione di inammissibilità dell’appello “per causa sopravvenuta”, realizza nella sostanza una abrogazione ex lege di tutti gli appelli proposti dal pubblico ministero avverso le sentenze di assoluzione e pendenti alla data di entrata in vigore della legge.
L’abrogazione con legge ordinaria di tutta l’attività di impugnazione mediante appello doverosamente coltivata dal pubblico ministero antecedentemente all’entrata in vigore della legge sulla inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, reca un grave pregiudizio al principio di efficiente andamento dell’attività giudiziaria: essa vanifica tutta l’attività di appello sinora svolta dagli uffici del P.M. per sostenere la pretesa punitiva dello Stato davanti al giudice superiore rispetto a quello che in primo grado aveva disatteso la richiesta punitiva. Il rispetto minimale del principio di buon andamento dell’attività giudiziaria avrebbe richiesto quantomeno la previsione di una norma transitoria di salvaguardia delle attività processuali compiute dalle parti sino all’entrata in vigore della legge, in aderenza al principio “tempus regit actum” proprio delle norme processuali ed evitando una vanificazione retroattiva dell’attività processuale di appello compiuta dalla parte pubblica. La previsione della facoltà di proporre ricorso in Cassazione avverso la sentenza di proscioglimento, decorrente dalla notifica, in data da destinarsi, della ordinanza di inammissibilità dell’appello, a prescindere dai problemi di durata irragionevole del processo che solleva, non ha alcuna capacità conservativa dell’attività di impugnazione sin qui svolta, stante la diversità strutturale dell’atto di appello e del ricorso per vizi di legittimità.
 
-Violazione del principio della ragionevole durata del processo previsto dall’ art.111 Cost.
Il trattamento processuale riservato dall’art.10 della legge agli appelli pendenti viola palesemente il principio di ragionevole durata del processo.
I processi conclusi in primo grado con la sentenza di assoluzione ed oggetto di appello da parte del pubblico ministero subiscono un iter processuale che comporta tempi di durata assolutamente irragionevoli. Prima della riforma il caso ipotizzato si definiva nei tre gradi “ordinari” di giudizio, o in quattro in caso di ricorso per saltum seguito da annullamento con rinvio alla corte di appello ex 569 comma 4 c.p.p.. Dopo l’entrata in vigore delle norme censurate, ai tempi non brevi di attesa per la celebrazione del giudizio di secondo grado segue una dichiarazione di inammissibilità dell’appello (i cui tempi non sono prestabiliti) notificata a parte appellante al fine dell’eventuale rinnovazione dell’impugnazione,in oggi, sotto forma del ricorso in cassazione.
In caso ipotetico di accoglimento del ricorso in cassazione contro la sentenza di assoluzione di primo grado il rinvio non é più alla corte di appello ma al giudice di primo grado, con reiterazione di tutti i tre gradi di giudizio. Diviene fisiologico che il processo in cui interviene una sentenza assolutoria di primo grado si debba svolgere in cinque gradi di giudizio ( ricorso per cassazione contro sentenza di assoluzione di primo grado, annullamento con rinvio al giudice di primo grado, rifacimento degli “ordinari” tre gradi di giudizio). La dilatazione dei tempi appare assolutamente irrazionale anche in considerazione della riduzione dei termini di prescrizione operati dalla recente legge 5.12.2005 n.251.
Per i motivi esposti si chiede che la Corte di Appello di Brescia voglia ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.593 c.p.p., come modificato dall’art.1 della legge 20.2.2006 n.46, e dell’art.10 stessa legge.
 
Brescia 8.3.2006
Il Sostituto Procuratore Generale
dott. Giuseppe Locatelli
 
Si allega:
-ordinanza Corte Cost. n.421/2001;
-sentenza Corte Cost. n.288/1997,
-sentenza Corte Cost. n.363/1991;
-sentenza Corte Cost.n.98/1994
 
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