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 Tribunale di Salerno, Sezione Distaccata di Cava de' Tirreni, Ordinanza 24 gennaio 2006

Una questioni di legittimità costituzionale sulla ex-Cirielli

                          TRIBUNALE di SALERNO
               Sezione distaccata di Cava de’ Tirreni
 
Il Tribunale in composizione monocratica, nella persona del dott. Giuseppe Riccardi,
esaminata la richiesta avanzata dal difensore di D. E. V., imputato dei reati di cui all’art. 368 c.p. nel processo penale n. 158/2004 R.G. Trib., di emissione di sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione;
acquisito il parere contrario del P.M. e della costituita parte civile;
ha emesso la seguente
 
ORDINANZA di RIMESSIONE degli atti alla
CORTE COSTITUZIONALE
 
Premessa in fatto
 
La difesa dell’imputato ha chiesto emettersi declaratoria di non doversi procedere in ordine ai reati a quest’ultimo ascritti per intervenuta prescrizione: ed invero, invocando la nuova disciplina normativa introdotta dalla legge n. 251 del 2005, e rappresentando che non vi era ancora stata la dichiarazione di apertura del dibattimento –momento processuale che scandisce, ai sensi dell’art. 10, comma 3, L. 251/2005, l’applicabilità o meno dei nuovi termini di prescrizione-, ha chiesto che fosse pronunciata l’estinzione per intervenuta prescrizione con particolare riferimento al fatto contestato come commesso in data 19.12.1994, per il quale il termine massimo di prescrizione, alla stregua della nuova normativa, è di sette anni e sei mesi.
Implicito nella richiesta difensiva appare dunque il rilievo secondo il quale i due fatti di calunnia in contestazione, commessi rispettivamente in data 19.12.1994 e 22.10.1998, ed avvinti, alla stregua dell’imputazione elevata dalla pubblica accusa, dal vincolo della continuazione, devono ritenersi ormai sciolti ai fini del calcolo dei termini della prescrizione, secondo quanto stabilito dall’attuale tenore dell’art. 158 c.p., come novellato dall’art. 6, comma 2, L. 251/2005.
 
 
Rilevanza
 
Alla stregua di quanto premesso in fatto, dunque, emerge con evidenza la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale che verranno esposte in prosieguo: al riguardo, infatti, giova osservare che la richiesta avanzata all’odierna udienza imporrebbe una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, quantomeno con riferimento al reato di calunnia commesso, secondo l’imputazione, in data 19.12.1994, e con un’applicazione congiunta degli artt. 6, comma 1 e comma 4 (che modifica i termini di prescrizione e l’efficacia degli atti interruttivi), 6, comma 2 (che non lascia più decorrere il termine di prescrizione dal giorno in cui è cessata la continuazione), e 10, comma 3 (che fa coincidere la non applicabilità della nuova normativa con la dichiarazione di apertura del dibattimento), della legge 251/2005.
 
 
Non manifesta infondatezza
 
Limitando, ovviamente, la prospettazione dei profili di illegittimità costituzionale alle norme rilevanti in questo processo, ed obliterando ogni valutazione in ordine ai molteplici aspetti di irragionevolezza della legge 251 del 2005, occorre prendere le mosse dalle norme che, novellando gli artt. 157 e 161 c.p., hanno ridotto i termini di prescrizione secondo criteri che a questo Giudice non appaiono dotati innanzitutto del canone della ragionevolezza.
 
1) Illegittimità dell’art. 6, commi 1 e 4, della legge 251/2005 per violazione degli artt. 3, 13, 25, comma 2, 27 e 79 Cost.
 
Le norme di cui all’art. 6, commi 1 e 4, della legge 251/2005, come è noto, nel modificare gli artt. 157 e 161 del codice penale, hanno sancito una quasi generale riduzione dei termini di prescrizione: ed invero, il decorso del tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge, e comunque di un tempo non inferiore a sei anni, è sufficiente ad estinguere il reato; peraltro, il corso della prescrizione può essere interrotto da taluni atti, comportando un aumento frazionario di un quarto del tempo necessario a prescrivere in caso di soggetti incensurati, della metà in caso di imputati cui sia applicabile (o contestata) la recidiva infraquinquennale o specifica (art. 99 comma 2, c.p.), di due terzi in caso di imputati cui sia applicabile la recidiva plurima (art. 99 comma 4 c.p.), del doppio nel caso di imputati dichiarati delinquenti abituali (artt. 102 e 103 c.p.) o professionali (art. 105 c.p.).
L’attuale assetto normativo appare a questo Giudice contrario ai fondamentali principi dettati dalla Costituzione in materia penale ed all’assetto proprio di uno Stato sociale di diritto.
La prescrizione, come è pacifico, è configurata nel nostro ordinamento come causa di estinzione del reato, come si evince ad abundantiam dall’inserimento nel relativo Capo I del Titolo VI del codice penale.
Come è altrettanto noto e pacifico, non solo nella ormai costante giurisprudenza costituzionale, ma altresì nella pressoché unanime opinione dottrinale, la Costituzione repubblicana delinea un ordinamento improntato ai tratti di un “diritto penale del fatto”: la tesi, che riposa pacificamente su una lettura congiunta degli artt. 13, 25 e 27 della Costituzione –norme che impongono che la privazione della libertà personale sia consentita solo in seguito alla commissione di un “fatto” previsto dalla legge come reato, e per il quale deve essere prevista (a livello normativo) ed irrogata (a livello giudiziario) una sanzione che persegua la finalità di risocializzazione del reo (cfr., al riguardo, Corte Cost. n. 313 del 1990, rel. E.Gallo), oggetto di un rimprovero personale-, impedisce pertanto di connotare le norme penali secondo i canoni propri del “diritto penale d’autore”, storicamente attuati nell’ordinamento nazionalsocialista in Germania (cfr. paragrafo 2 dello StGB) e negli ordinamenti comunisti dell’Unione Sovietica e della ex Jugoslavia.
L’attuale normativa, invece, rivela preoccupanti segni di emersione dei canoni tipici del diritto penale d’autore, ove collega i differenti aumenti dei termini di prescrizione, per interruzione, non già alla gravità oggettiva del fatto, come avveniva precedentemente, bensì allo status soggettivo dell’imputato: alla stregua della nuova normativa, infatti, è la personalità criminale del reo, desunta dalla recidiva o dallo stato di delinquente abituale o professionale, a determinare un allungamento ovvero una riduzione, anche consistente –nel caso in esame, da 15 anni a 7 anni e 6 mesi-, dei termini di prescrizione.
Tale impostazione normativa, dunque, prescinde totalmente dal fatto di reato e dalla sua oggettiva gravità, soffermandosi unicamente sul reo e sulla sua presumibile personalità criminale.
La scelta, oltre ad assecondare gli infidi confini della presunzione di pericolosità, appare non soltanto confliggente con il diritto penale del fatto, ma altresì schizofrenica, atteso che l’allungamento dei termini di prescrizione può essere legato ad una situazione di recidiva maturata a distanza di anni dal fatto, nel corso del procedimento, che, come è noto, può talvolta subire, anche per la estrema farraginosità del sistema processuale, tempi molto dilatati: una situazione quindi del tutto absoluta dalla commissione del singolo fatto di reato, oggetto di giudizio, e legata magari alla mera, e casuale, divaricazione temporale tra tempus commissi delicti ed accertamento processuale.
 
Del resto, appare quasi ridondante richiamare le storiche pronunce n. 364 e 1085 del 1988 della Corte Costituzionale (rel. Dell’Andro), che, nel rendere affermazioni di alto valore anche dommatico, hanno ancorato, definitivamente, l’illecito penale alla concezione del personales Unrecht: una visione del reato che, valorizzando sia il disvalore della condotta che il disvalore d’evento, è strettamente connessa ad una impostazione “oggettiva” della colpevolezza.
Colpevolezza per il “fatto”, dunque, e non per “l’autore”.
Non va del resto obliterata un’ulteriore considerazione: l’assetto normativo inaugurato dalla legge 251/2005 asseconda i canoni del diritto penale d’autore, anche perché, di fatto, conduce ad un trattamento sfavorevole della delinquenza c.d. da strada (si pensi al soggetto condannato per più fatti di furto di estrema esiguità), e ad un trattamento favorevole della delinquenza dei c.d. “colletti bianchi”, categoria criminologica, come è noto, elaborata da oltre un cinquantennio da Sutherland, e dotata di assoluta affidabilità empirica (si pensi a tutti gli autori di truffe, ovvero di reati contro la P.A. ovvero in materia economica, di regola “inseriti” nel contesto sociale, e non gravati da precedenti penali, che, oltre a godere di termini più brevi, difficilmente rischiano di entrare nel circuito penale, allorquando vengano prosciolti per prescrizione).
Del resto, ove si ritenga che la nuova normativa, con i differenti termini di prescrizione, non riveli i tratti di un diritto penale d’autore, in verità evidenti, non si comprenderebbe quale sia il canone di ragionevolezza adoperato per sancire una tale distinzione legislativa: le norme infatti appaiono afflitte altresì dal vizio di irragionevolezza, per violazione dell’art. 3 Cost..
 
Non va infine sottaciuto che la riforma dettata dalla legge 251/2005, riducendo in maniera consistente i termini di prescrizione determinerà una estinzione generalizzata di una molteplicità di ipotesi di reati (cfr, al riguardo, i dati statistici pubblicati dal Ministero della Giustizia e dalla Corte di Cassazione), di solito commessi dai “colletti bianchi”: tale conseguenza, invero, sembra rivelare i tratti di una amnistia di fatto, mascherata da un mutamento delle regole in materia di prescrizione, e conseguita per il tramite di un aggiramento dell’art. 79 Cost., che, come è noto, richiede una legge approvata con una maggioranza parlamentare dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera.
 
Ultimo profilo di illegittimità da considerare è, secondo questo Giudice, la violazione del principio costituzionale di difesa sociale, immanente all’intero sistema costituzionale, e tale da giustificare la pretesa punitiva dello Stato: la riduzione consistente dei termini di prescrizione impedisce, di fatto, il perseguimento e la punizione di molteplici fatti di reato, con una obliterazione della sicurezza collettiva, atteso che i consueti tempi processuali, dilatati all’estremo da improvvide elargizioni di pseudogaranzie prive di reali contenuti difensivi e dalla asfitticità dell’organizzazione giudiziaria, non consentono un reale esercizio dell’azione penale con conseguente affermazione di responsabilità in termini così ridotti: si pensi all’ipotesi delittuosa, paradigmatica a fini dialettici, di false comunicazioni sociali, per desumere l’assoluta inadeguatezza di sette anni e sei mesi per la definizione del relativo processo, in un tempo, invece, sufficiente al più alla scoperta ed alla conclusione delle complesse indagini preliminari.
 
 
 
2) Illegittimità dell’art. 6, comma 2, della legge 251/2005 per violazione dell’art. 3 Cost.
 
La norma di cui all’art. 6, comma 2, della legge 251/2005 ha abrogato l’art. 158 c.p. nella parte in cui stabiliva la decorrenza dei termini di prescrizione, in caso di reato continuato, dalla cessazione della continuazione.
La norma appare in contrasto con il principio di ragionevolezza immanente all’intero ordinamento costituzionale, e sancito, in maniera puntuale, nell’art. 3 Cost., oltrechè nella elaborazione, invero corposa negli ultimi anni, della giurisprudenza costituzionale.
In presenza di una pluralità di condotte avvinte dal medesimo disegno criminoso appare irragionevole prevedere un trattamento unitario allorquando si versi nell’ambito del regime sanzionatorio, ed un trattamento distinto del reato continuato, che di fatto viene “sciolto”, allorquando si versi in tema di estinzione del reato per prescrizione.
Del resto, appare evidente che la categoria, innanzitutto normativa, del reato continuato è stata elaborata, ed è oggetto di applicazioni, in presenza di una molteplicità di ‘condotte’ che, lungi dal subire un frazionamento normativo artificioso, sono ritenute frammenti del medesimo ‘fatto’ criminoso, in virtù di elementi oggettivi in grado di connotare l’unitarietà della vicenda penale e della predisposizione soggettiva del reo.
 
 
 
3) Illegittimità dell’art. 10, comma 3, della legge 251/2005 per violazione dell’art. 3 Cost.
 
L’art. 10, comma 3, della legge 251/2005 appare a questo Giudice in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui sancisce l’applicabilità della nuova normativa, ove più favorevole, ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della legge, “ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento…”.
Far dipendere l’applicabilità della nuova disciplina dalla dichiarazione di apertura del dibattimento appare priva di qualsivoglia giustificazione razionale, essendo legata ad un momento processuale assolutamente ‘casuale’ e, peraltro, privo di qualsivoglia connotato in grado di giustificare una dismissione della pretesa punitiva: ed invero, giova evidenziare che la dichiarazione di apertura del dibattimento è un momento del tutto casuale nella scansione processuale, e ad essa non è legata alcuna espressione della pretesa punitiva dello Stato, che, al contrario, è intrinseca all’esercizio dell’azione penale; né tantomeno è assimilabile alla pronuncia di una sentenza di condanna in primo grado, atto autoritativo che esprime l’accertamento della responsabilità ipotizzata.
Non appare a questo Giudice un caso, infatti, che in ordinamenti culturalmente omogenei, e sovente oggetto di impropri richiami comparatistici, la sospensione della prescrizione sia legata all’esercizio dell’azione penale (negli Stati Uniti) ovvero alla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado (in Germania): entrambi gli atti, infatti, appaiono lapalissianamente dotati di connotati di una tale pregnanza, ai fini dello sviluppo della pretesa punitiva dello Stato, da essere assunti a termine oltre il quale la prescrizione non opera più, proprio perché lo Stato ha concretamente manifestato la volontà di perseguire e punire il reato.
Nel nostro ordinamento, invece, non soltanto il legislatore non ha accolto una tale ragionevole impostazione, che peraltro avrebbe avuto il pregio di assecondare concretamente il principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), vanificando impugnazioni ovvero strategie dilatorie, ma ha fatto dipendere l’applicabilità o meno della normativa in esame da un atto processualmente assolutamente ‘neutro’, in alcun modo espressione della volontà punitiva dello Stato.
 
P.Q.M.
 
Letti gli artt. 3, 13, 25, 27, 79 Cost., 23 L. 87/1953,
dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e sospende il giudizio in corso, ed i relativi termini di prescrizione.
 
Manda la Cancelleria per gli adempimenti di rito, e per la comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
 
Cava de’ Tirreni, 24 gennaio 2006
 
Il Giudice
Giuseppe Riccardi
 
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