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 Corte di Cassazione, Sez. VI, 27 ottobre 2004 (dep. 30 novembre 2004), n. 46509

Non e' ravvisabile il reato di accesso abusivo in quanto il sistema informatico nel quale l'imputato si inseriva abusivamente non risulta obiettivamente protetto da misure di sicurezza.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezione 6 penale
Pres. Leonasi,
Rel. Ambrosini,
P.G. Viglietta (parz. Diff.)
Ricorrente: D.C.
 
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
D.C. , nato a M. il xx.xx.1948, e dal suo difensore avv. S.G.; avverso la sentenza 27.5.2002 della Corte d'appello di Brescia;
Visti gli atti, la sentenza e il ricorso; Udita la relazione del Consigliere Dott. Giangiulio Ambrosini; Sentito il parere del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Gianfranco Viglietta, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza relativamente alla frode informatica perché il fatto non sussiste e per l'annullamento con rinvio per la rideterminazione della pena per i residui reati.
Sentito il difensore dell'imputato, avv. G., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d'appello di Brescia con sentenza 27.5.2002 confermava la sentenza 3.7.2001 del gup del Tribunale di M. qualificati i fatti originariamente contestati al capo B (art. 615 ter, 61 n. 9 e 11 c.p.) come violazione dell'art. 615 ter, c. 2, n. 1, c.p. e al capo C (art. 640 ter, 61 n. 9 e 11 c.p.) come violazione dell'art. 640 ter c. 2 c.p. - di condanna di D.C. per i predetti reati in continuazione anche con quello di cui all'art. 314, c. 2, c.p. (contestato al capo A) alla pena di mesi 6 di reclusione e lire 600.000 di multa.
Al D.C. si addebita di essersi appropriato, nella sua qualità di XXXXX del Comune di M. addetto all'ufficio "Ixxxxxxi" di un computer utilizzandolo per collegamenti alla rete Internet per finalita' personali, di essersi abusivamente introdotto nel sistema informatico-telematico Internet, di essersi collegato al medesimo senza essere abbonato. La sentenza evidenzia come, nel corso di indagini dirette a identificare i divulgatori via Internet di immagini pornografiche aventi come soggetti bambini, era stato individuato un soggetto che le riforniva sotto uno pseudonimo utilizzando un computer situato all'interno dell'ufficio "Ixxxxxxxxxi" del Comune di M. 
Il titolare dell'ufficio risultava essere il D.C.. Questi aveva ammesso di essersi talvolta collegato con siti pornografici e, in effetti, sul computer d'ufficio risultavano cancellati alcuni "files" che, ricuperati dai tecnici, mostravano appunto immagini pornografiche. Peraltro risultava che il computer era utilizzato soltanto dall'imputato o, al limite, da altri soggetti soltanto in sua presenza. Risultava inoltre che in una occasione il predetto computer risultava collegato a un sito controllato dalla Questura e di ciò il D.C. era stato informato dal suo superiore, cosi che al momento della irruzione della polizia nel suo ufficio egli si dimostrava a conoscenza delle indagini. Presso l'abitazione dell'imputato, infine, veniva reperito un computer contenente immagini pornografiche.
Ricorre l'imputato congiuntamente al suo difensore anzitutto per mancata assunzione di una prova decisiva relativamente al reato di peculato quale l'acquisizione dei tabulati telefonici relativi all'utenza dell'ufficio ricoperto dall'imputato; in secondo luogo per mancanza e manifesta illogicità della motivazione poiché si afferma che lo scambio di fotografie pornografiche era avvenuto "in qualche modo collegato ad un computer sito all'interno dell'ufficio" dell'imputato mentre si era in concreto accertato che era avvenuto tramite il PC dell'imputato stesso, perché sono carenti i dati tecnici, perché e' ininfluente la eventuale conoscenza della pregressa indagine di polizia, perché la spesa anche ipotizzando l'uso della password dell'ufficio sul computer personale e' comunque a carico dell'utente privato.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di doglianza e' destituito di fondamento in quanto, dal testo stesso della sentenza impugnata, si desume che la prova dell'uso per fini propri del computer di ufficio da parte dell'imputato e' stata acquisita in modo non equivoco, sia attraverso le ammissioni del D.C., sia attraverso l'individuazione del computer medesimo da parte della polizia giudiziaria nel corso di indagini dirette a identificare persone dedite al commercio o allo scambio di immagini pornografiche, sia dalla conoscenza dell'imputato che erano in corso indagini a suo carico proprio in relazione all'uso illecito del computer. Appare, quindi, del tutto ininfluente procedere ad ulteriori accertamenti attraverso i tabulati telefonici - essendo il computer collegato al telefono per l'inserimento nei siti Internet. Sotto questo profilo la sentenza impugnata appare adeguatamente motivata, cosi da risultare superflua la ricerca di una prova non decisiva ai fini della dimostrazione della sussistenza del reato.
2. Il rilievo che precede e' assorbente rispetto ad altri motivi concernenti il delitto di peculato: delitto che, peraltro, erroneamente e' stato qualificato ai sensi dell'art. 314, c. 2, c.p.. L'ormai consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte e segnatamente di questa sezione (fra le altre 22.9.2000, P.M. in proc. Sale; 23.9.2000, P.M. in proc. D.M.; 6.2.2001, P.M. in proc. M.) si e' espressa nel senso che nell'ipotesi in cui il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, disponendo dell'utenza telefonica intestata all'amministrazione, la utilizzi per effettuare chiamate (e tali sono le richieste via Internet che presuppongono l'uso del telefono) di interesse personale, il fatto lesivo si sostanzia non nell'uso dell'apparecchio telefonico quale oggetto fisico, bensì nell'appropriazione delle energie occorrenti, con la conseguenza che l'ipotesi delittuosa e' inquadrabile direttamente nel peculato ordinario (di cui al comma 1^ dell'art. 314 c.p., giacché le energie utilizzate non sono immediatamente restituibili dopo l'uso (e l'eventuale rimborso delle somme non potrebbe valere che come ristoro del danno arrecato). Consegue che il reato di cui al capo A) deve essere qualificato ai sensi dell'art. 314, c. 1, c.p., fermo restando il divieto di reformatio in peius, posto che sul punto non vi e' ricorso da parte del P.G..
3. Per quanto concerne il reato di cui all'art. 615 ter, comma 2^, n. 1, c.p. (capo B) non e' ravvisabile la condotta contestata in quanto il sistema informatico nel quale l'imputato si inseriva abusivamente non risulta obiettivamente (ne' la sentenza fornisce la relativa prova) protetto da misure di sicurezza, essendo anzi tale sistema a disposizione dell'imputato in virtù delle mansioni affidategli per ragioni di ufficio. Il fatto che il D.C. ne facesse un uso distorto a fini illeciti e personali, non sposta i termini della questione, mancando il presupposto della "protezione" speciale del sistema stesso. Da tale reato pertanto l'imputato deve essere assolto perché il fatto non sussiste.
4. Ad analoga conclusione si deve pervenire per quanto concerne il reato di cui all'art. 640 ter, c. 2, c.p. (capo C). Non si ravvisa, infatti, nelle condotte contestate e in quelle concretamente verificate dal giudice di merito alcuna alterazione del funzionamento del sistema informatico, nel senso che il D.C.non risulta obiettivamente avere effettuato alcuna manipolazione di dati, informazioni o programmi, ma semplicemente di avere utilizzato dati, informazioni e programmi per fini estranei a quelli dell'ufficio.
5. In punto pena non appare necessario annullare con rinvio la sentenza impugnata, potendosi fare ricorso alla previsione di cui all'art. 619 c.p.p.. La pena base, come determinata dal primo giudice e confermata in sede di appello, e' stata fissata nel minimo di mesi 6 di reclusione per il reato ritenuto più grave di cui al capo C), e su di essa sono stati applicati gli aumenti per la continuazione (così da portarla a mesi 9 di reclusione) e la riduzione di un terzo per la scelta del rito (così da ricondurla a mesi 6 di reclusione). Residuando il solo reato di cui all'art. 314 c.p., sia pur riqualificato ai sensi del comma 1^, la pena base in virtù del principio del divieto di riformatio in peius non può essere superiore a quella minima stabilita in relazione all'originaria condanna per il reato di cui al comma 2^ dello stesso art. 314 c.p. Poiché le attenuanti generiche erano state considerate equivalenti alle aggravanti contestate per il reato base che e' venuto meno, la diminuzione per dette attenuanti, non essendo il reato di cui all'art. 314 c.p. aggravato, devono essere applicate nella massima estensione. La pena base viene quindi ridotta a mesi 4 di reclusione. La diminuente del rito comporta l'ulteriore riduzione di un terzo, cosi essa viene complessivamente e definitivamente fissata in mesi 2 e giorni 10 di reclusione, fermi restando i già concessi benefici di legge.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai reati di cui ai capi B) e C) perché il fatto non sussiste; qualificato il fatto di cui al capo A) come reato di cui al primo comma ell'art. 314 c.p., ridetermina la pena in mesi 2 e giorni 20 di reclusione.
Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2004.
Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2004
 
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