Non fondatezza, nel senso di cui alla motivazione, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 c.p.p. sollevata in riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost. e nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del giudice dell’udienza preliminare che abbia pronunciato il decreto che dispone il giudizio a celebrare l’udienza preliminare dello stesso procedimento a seguito di regressione in conseguenza della dichiarazione di nullità del decreto che dispone il giudizio ad opera del giudice del dibattimento.
SENTENZA N. 335 ANNO 2002
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare RUPERTO Presidente
- Riccardo CHIEPPA Giudice
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 31 ottobre 2001 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torre Annunziata nel procedimento penale a carico di F. R. e altro, iscritta al n. 54 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2002.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2002 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.
Ritenuto in fatto
1. – Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torre Annunziata ha sollevato, con ordinanza del 31 ottobre 2001, questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 del codice di procedura penale, in riferimento all’art. 111, secondo comma, della Costituzione.
Il giudice a quo riferisce di avere disposto il rinvio a giudizio di taluni imputati con un decreto che è stato annullato dal giudice del dibattimento, a norma dell’art. 429, comma 2, cod. proc. pen., in relazione al comma 1, lettera c), dello stesso art. 429, per genericità della formulazione del capo di imputazione. A seguito dell’annullamento, il procedimento è ritornato allo stesso giudice, che si trova ora a dovere trattare nuovamente l’udienza preliminare nei confronti degli stessi imputati.
Il rimettente rileva quindi di essersi già pronunciato, disponendo la prima citazione a giudizio, sia sulla esistenza di fonti di prova della responsabilità degli imputati, idonee a sorreggere l’accusa in giudizio, sia sulla mancanza dei presupposti per una pronuncia di non luogo a procedere (art. 425 cod. proc. pen.); reputa, pertanto, che la ripetizione della stessa udienza preliminare da parte del medesimo giudice-persona fisica a seguito di un annullamento del decreto che dispone il giudizio, per una causa di nullità «formale» – nella specie per la genericità del capo di imputazione – «concernente il diritto di difesa, non già per difetti relativi al decreto» medesimo, possa fare apparire il giudice non imparziale, appunto per la convinzione già manifestata in precedenza circa l’esistenza di elementi di responsabilità degli imputati e altresì che, dal punto di vista di questi ultimi, l’ulteriore udienza preliminare possa apparire «del tutto inutile», perché iterativa della precedente.
Sotto questo profilo, la mancata previsione di una causa di incompatibilità alla funzione di trattazione dell’udienza preliminare in una ipotesi come quella anzidetta appare al rimettente in contrasto con il principio di imparzialità del giudice, posto dall’art. 111, secondo comma, della Costituzione (nonché, secondo un riferimento contenuto nella sola motivazione dell’ordinanza, tutelato dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dall’art. 14, paragrafo 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici); da ciò la sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 cod. proc. pen., in relazione al parametro costituzionale anzidetto, «nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del giudice dell’udienza preliminare che abbia pronunciato il decreto che dispone il giudizio a celebrare l’udienza preliminare dello stesso procedimento a seguito di regressione in conseguenza della dichiarazione di nullità del decreto che dispone il giudizio ad opera del giudice del dibattimento», questione la cui rilevanza – conclude il rimettente – è di tutta evidenza, non esistendo, allo stato della legislazione, né un obbligo di astensione né una possibilità di ricusazione del giudice.
2. – Nel giudizio così promosso è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che, sul rilievo dell’analogia tra la questione sollevata e altra già rimessa all’esame della Corte (r.o. n. 345 del 2000), ha fatto rinvio per relationem, allegandolo, all’atto di intervento depositato nel relativo giudizio: in detto atto, l’Avvocatura, alla stregua della consolidata giurisprudenza costituzionale circa la non configurabilità come «giudizio» – inteso quale pieno apprezzamento del merito dell’accusa – della funzione di trattazione dell’udienza preliminare, aveva concluso per una declaratoria di infondatezza della questione sollevata.
Considerato in diritto
1. – Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torre Annunziata dubita della legittimità costituzionale dell’art. 34 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede, come caso di incompatibilità all’esercizio di funzioni giudiziarie, quello del magistrato che nell’udienza preliminare ha pronunciato il decreto che dispone il giudizio e che, a seguito di dichiarazione di nullità del decreto stesso a norma dell’art. 429, commi 2 e 1, lettera c), cod. proc. pen., si trova nuovamente a celebrare nello stesso procedimento l’udienza preliminare, con poteri di cognizione e decisione identici a quelli già esercitati nella precedente circostanza. Ad avviso del giudice rimettente, in questo caso si determinerebbe una violazione del principio di imparzialità del giudice, di cui all’art. 111, secondo comma, della Costituzione (nonché agli artt. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e 14, paragrafo 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, evocati nella motivazione dell’ordinanza), in quanto la mancata previsione dell’anzidetta causa di incompatibilità consente la seconda celebrazione dell’udienza preliminare da parte di un giudice che, avendo celebrato la prima ed essendo pervenuto alla decisione di disporre il giudizio, non può considerarsi imparziale.
2. – La questione non è fondata, alla stregua dell’interpretazione che segue.
2.1. – L’incompatibilità all’esercizio di funzioni giudicanti vale a proteggere l’imparzialità del giudice, impedendo che quest’ultimo possa pronunciarsi due volte sulla medesima res iudicanda. Dal primo giudizio, infatti, potrebbero derivare convinzioni precostituite sulla materia controversa, determinandosi così, propriamente, un «pregiudizio» contrastante con l’esigenza costituzionale che la funzione del giudicare sia svolta da un soggetto «terzo», non solo scevro da interessi propri che possano fare velo alla rigorosa applicazione del diritto, ma anche sgombro da convinzioni formatesi in occasione dell’esercizio di funzioni giudicanti in altre fasi del giudizio (sentenza n. 155 del 1996).
L’udienza preliminare disciplinata dal titolo IX del libro V del codice di procedura penale, secondo la sua originaria configurazione, era caratterizzata principalmente dalla funzione di verifica della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero, relativamente all’inesistenza di alcuna delle ragioni del «non luogo a procedere» previste dall’art. 425 dello stesso codice. Conseguentemente, la giurisprudenza di questa Corte ha per lungo tempo, e costantemente, affermato che tanto il decreto che dispone il giudizio quanto la sentenza di non luogo a procedere, conclusivi dell’udienza preliminare, non comportano una decisione sostanziale sul contenuto dell’accusa, trattandosi di decisioni di natura essenzialmente processuale, finalizzate a dare ingresso al dibattimento o a impedirlo. Su questa base si è inizialmente negato che le statuizioni conclusive dell’udienza preliminare presentassero un contenuto decisorio del merito del giudizio penale tale da imporre, per necessità costituzionale, il riferimento ad esse della ratio dell’incompatibilità. L’udienza preliminare, pertanto, è stata esclusa dall’ambito di operatività della giurisprudenza di questa Corte che, in numerose circostanze, ha portato all’estensione dell’art. 34 cod. proc. pen. a situazioni non espressamente contemplate e le uniche incompatibilità esistenti in materia sono (a) quella prevista originariamente dal legislatore nel comma 2 del medesimo articolo, il quale vieta la partecipazione al giudizio al giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare, e (b) quella del comma 2-bis dell’art. 34, introdotto con l’art. 171 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 (Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado), che esclude, con talune eccezioni (indicate nei successivi commi 2-ter e 2-quater), che il giudice che ha svolto funzioni di giudice per le indagini preliminari possa, nel medesimo procedimento, tenere l’udienza preliminare.
L’esclusione dell’udienza preliminare dall’ambito concettuale del giudizio, ai fini dell’operatività del principio costituzionale di imparzialità, è stata tenuta ferma anche dopo gli interventi del legislatore (rispettivamente, l’art. 1 della legge 8 aprile 1993, n. 105, e l’art. 2, comma 2, della legge 7 agosto 1997, n. 267) che hanno modificato, nel senso di renderli più ampi e incisivi, i poteri del giudice dell’udienza preliminare (ordinanze n. 207 del 1998 e n. 112 del 2001 e, da ultimo, ordinanza n. 185 del 2001).
2.2. – Successivamente, però, l’udienza preliminare - in conseguenza soprattutto della legge 16 dicembre 1999, n. 479, e, poi, anche della legge 7 dicembre 2000, n. 397 - ha subìto profonde trasformazioni le cui conseguenze, in riferimento ai problemi della garanzia dell’imparzialità del giudice, sono state tratte da questa Corte con la sentenza n. 224 del 2001. L’udienza preliminare nella vigente disciplina ha perduto la sua iniziale connotazione quale momento processuale fondamentalmente orientato al controllo dell’azione penale promossa dal pubblico ministero, in vista dell’apertura della fase del giudizio. Infatti, «l’alternativa decisoria che si offre al giudice quale epilogo dell’udienza preliminare riposa [...] su una valutazione del merito della accusa [...] non più distinguibile [...] da quella propria di altri momenti» del processo, momenti «già ritenuti non solo ‘pregiudicanti’, ma anche ‘pregiudicabili’, ai fini della sussistenza della incompatibilità».
L’udienza preliminare e le decisioni che la concludono sono venute oggi a caratterizzarsi per la completezza del quadro probatorio di cui il giudice deve disporre e per il potenziamento dei poteri riconosciuti alle parti in materia di prova, su cui incide anche la facoltà, riconosciuta alla difesa delle parti private dall’art. 391-octies del codice, di presentare direttamente al giudice elementi di prova. Sul pubblico ministero grava l’obbligo di riversare nel procedimento tutti gli elementi provenienti dalle indagini preliminari (art. 416, comma 2, cod. proc. pen.) o comunque acquisiti dopo la richiesta di rinvio a giudizio (art. 419, comma 3, cod. proc. pen.), nell’ambito dell’esigenza di completezza delle indagini preliminari (sentenze n. 115 del 2001 e n. 88 del 1991); oltre all’ampliamento delle garanzie difensive per l’imputato, attraverso la possibilità di rendere dichiarazioni spontanee o di essere sottoposto all’interrogatorio (art. 421, comma 2, cod. proc. pen.), il giudice dell’udienza preliminare può disporre l’integrazione delle indagini (art. 421-bis cod. proc. pen.) e assumere anche d’ufficio le prove che appaiano con evidenza decisive ai fini della sentenza di non luogo a procedere (art. 422 cod. proc. pen.). Come osservato nella richiamata sentenza n. 224 del 2001 di questa Corte, in questo quadro normativo le valutazioni di merito affidate al giudice dell’udienza preliminare sono state private di quei caratteri di sommarietà che, fino alle indicate innovazioni legislative, erano tipici di una decisione orientata soltanto, secondo la sua natura, allo svolgimento (o alla preclusione dello svolgimento) del processo.
Infine, i contenuti delle decisioni che concludono l’udienza preliminare hanno assunto, in parallelo alle novità appena segnalate, una diversa e maggiore pregnanza. Il giudice infatti non è solo chiamato a valutare, ai fini della pronuncia di non luogo a procedere, se sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, se il fatto non è previsto dalla legge come reato, ovvero se risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non l’ha commesso o non costituisce reato o che si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa, tenendo conto, se del caso, delle circostanze attenuanti e applicando l’art. 69 del codice penale (art. 425, commi 1 e 2, cod. proc. pen.). Il giudice deve considerare inoltre se gli elementi acquisiti risultino sufficienti, non contraddittori o comunque idonei a sostenere l’accusa nel giudizio (art. 425, comma 3, cod. proc. pen.), dovendosi determinare, se no, a disporre il non luogo a procedere; se sì, a disporre il giudizio. Il nuovo art. 425 del codice, in questo modo, chiama il giudice a una valutazione di merito sulla consistenza dell’accusa, consistente in una prognosi sulla sua possibilità di successo nella fase dibattimentale.
2.3. – Alla stregua dunque della fisionomia che l’udienza preliminare è venuta assumendo, le decisioni che ne costituiscono l’esito devono così essere annoverate tra quei «giudizi» idonei a pregiudicarne altri ulteriori e a essere a loro volta pregiudicati da altri anteriori, con la conseguenza che, per assicurare la protezione dell’imparzialità del giudice, l’udienza preliminare deve essere compresa nel raggio d’azione dell’istituto dell’incompatibilità, disciplinato dall’art. 34 cod. proc. pen., anche al di là della limitata previsione del comma 2-bis dell’art. 34 medesimo. A questa stregua, anche la problematica situazione in cui si trova il Giudice dell’udienza preliminare rimettente, e che ha dato luogo alla presente questione di legittimità costituzionale, può trovare la sua soluzione.
A tal fine, non è però necessario addivenire a una pronuncia di incostituzionalità dell’art. 34 cod. proc. pen., quale è quella indicata nell’ordinanza di rimessione: una pronuncia che aggiunga una nuova ipotesi, specifica o generale, di incompatibilità a quelle già previste. Basta assumere che l’udienza preliminare, in conseguenza dell’evoluzione legislativa sopra accennata, è (divenuta) anch’essa un momento di «giudizio» perché essa rientri pianamente nelle previsioni dell’art. 34 del codice che dispongono per l’appunto l’incompatibilità a giudicare del giudice che già abbia giudicato sulla medesima res iudicanda.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 del codice di procedura penale sollevata, in riferimento all’art. 111, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torre Annunziata, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2002.
F.to:
Cesare RUPERTO, Presidente
Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore
Depositata in Cancelleria il 12 luglio 2002.
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