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 Corte Costituzione, sentenza 21 giugno 2017 (dep. 17 luglio 2017), n. 205

Illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente


SENTENZA


nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso dalla Corte d’appello di Ancona, nel procedimento penale a carico di C.P. C. G., con ordinanza del 29 febbraio 2016, iscritta al n. 127 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 giugno 2017 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.


Ritenuto in fatto


1.– La Corte d’appello di Ancona, con ordinanza del 29 febbraio 2016 (r.o. n. 127 del 2016), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui stabilisce il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sulla recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.
La Corte rimettente riferisce che l’imputato era stato condannato dal Tribunale di Urbino, per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, alla pena di due anni di reclusione, con le pene accessorie di cui all’art. 216, quarto comma, del r.d. n. 267 del 1942, per avere, in qualità di rappresentante legale della Colombo srl, indicato una giacenza di cassa inesistente, e non aver riportato in contabilità le somme prelevate per il proprio sostentamento.
Il giudice di primo grado, «in considerazione del modestissimo/inesistente pregiudizio economico arrecato ai debitori, della modestissima dimensione dell’impresa e del ridottissimo movimento degli affari, [aveva riconosciuto] all’imputato l’attenuante ad effetto speciale prevista dal R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 219, u.c. e, concesse le attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva reiterata», aveva poi ridotto la pena per effetto dell’attenuante speciale.
Avverso la sentenza del Tribunale di Urbino il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Ancona aveva proposto ricorso immediato per cassazione lamentando la violazione dell’art. 69 cod. pen., «atteso che il Giudicante, anziché includere l’attenuante speciale predetta nel giudizio di bilanciamento operato ex art. 69 cod. pen., aveva operato la riduzione all’esito del giudizio di equivalenza tra attenuanti generiche e recidiva reiterata, irrogando una pena illegale per difetto, atteso che, stante il principio di cui all’art. 69 co. 4 cod. pen., la pena finale non avrebbe potuto essere inferiore ai tre anni di reclusione».
In accoglimento del ricorso, la Corte di cassazione aveva annullato la sentenza impugnata, limitatamente al trattamento sanzionatorio.
Nell’udienza fissata per il giudizio di rinvio la Corte d’appello di Ancona aveva sollevato «questioni di legittimità costituzionale […] dell’art. 69 comma 4 cod. pen., come sostituito dall’art. 3 1. 5 dicembre 2005 n. 251, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante d[e]l R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 219, u.c. sulla recidiva di cui all’art. 99 comma 4 cod. pen.».
In punto di rilevanza, la Corte rimettente osserva che sull’esistenza della recidiva, «in difetto di impugnazione, si è formato il giudicato» ma che l’attenuante speciale in esame dovrebbe ritenersi prevalente, in considerazione della «assoluta modestia dei fatti, commessi a fini di sopravvivenza di una piccolissima attività d’impresa; [del]la scarsa consistenza della recidiva reiterata». Il giudizio di prevalenza, impedito dalla disposizione censurata, consentirebbe quindi di applicare una pena inferiore a quella (minima) di tre anni di reclusione.
Ciò precisato, la Corte d’appello ritiene che la norma censurata sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., perché condurrebbe, in determinati casi, ad applicare pene identiche per violazioni di rilievo penale enormemente diverso. Il recidivo reiterato responsabile di una bancarotta fraudolenta ultramilionaria, al quale siano applicate le circostanze attenuanti generiche, verrebbe punito con la stessa pena prevista per il recidivo reiterato autore di un episodio di modesta gravità, «con limitati o nulli pregiudizi concreti ai creditori», al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche e quella prevista dall’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942. «[L]a rilevantissima differenza oggettiva, naturalistica, criminologica delle due condotte [verrebbe] completamente annullata in virtù di una esclusiva considerazione dei precedenti penali del loro autore».
La Corte rimettente rileva che l’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 prevede una circostanza attenuante ad effetto speciale, che comporta una riduzione della pena base fino al terzo, «sicché, ove ritenuta sussistente, la pena […] può variare da un minimo di [un] anno di reclusione a un massimo di [tre] anni e [quattro] mesi; se però si applica la recidiva reiterata, i casi di speciale tenuità, per i quali l’art. 219 u.c. cit, prevede la pena della reclusione da un anno a tre anni e quattro mesi, devono essere puniti con la reclusione da tre a dieci anni».
Richiamata la giurisprudenza costituzionale sull’art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dalla legge n. 251 del 2005 (sentenze n. 251 del 2012, n. 106 e n. 105 del 2014), la Corte rimettente osserva che la circostanza di cui all’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 «si pone quale temperamento degli effetti delle gravi sanzioni previste per i reati fallimentari in tutti i casi in cui gli stessi appaiono di speciale tenuità avuto riguardo, nella valutazione del pregiudizio economico arrecato ai creditori, alle dimensioni dell’impresa, all’ammontare dell’attivo e del passivo e al movimento degli affari nel loro complesso (cfr., tra le altre, Cass. n. 21353/2003; n. 5300/2009)». Si tratta, insomma, di una circostanza attenuante finalizzata ad «adeguare la sanzione ai casi più lievi e frequenti».
Proprio per questa ragione il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata posto dalla norma censurata «produce conseguenze sanzionatorie irragionevoli, in quanto finisce per equiparare ai fini sanzionatori casi oggettivamente lievi a casi di particolare allarme sociale».
In particolare, nel caso di specie, assumerebbe «rilievo la divaricazione tra il livello minimo di tre anni, per il primo comma dell’art. 216 r.d. cit e quello di un anno previsto per l’ipotesi attenuata (e lo stesso vale, mutatis mutandis, per la pena prevista per gli altri reati a cui è applicabile l’attenuante in questione: art. 217 e 218 r.d. cit)». Ne consegue che, per effetto dell’equivalenza tra la recidiva reiterata e l’attenuante in questione, «l’imputato viene di fatto a subire un aumento assai superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi: il che rende evidente il vulnus costituzionale proprio con riferimento ai casi marginali, di minima offensività, quale è quello per cui è processo».
Inoltre, la norma censurata sarebbe in contrasto con il «principio di offensività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che, con il suo espresso richiamo al fatto commesso», attribuirebbe una rilevanza fondamentale all’azione delittuosa per il suo obiettivo disvalore e non solo in quanto manifestazione sintomatica di pericolosità sociale, implicando conseguentemente «la necessità di un trattamento penale differenziato per fatti diversi, senza che la considerazione della mera pericolosità dell’agente possa legittimamente avere rilievo esclusivo».
Infine, la norma censurata violerebbe il «principio di proporzionalità della pena (nelle sue due funzioni retributiva e rieducativa)», previsto dall’art. 27, terzo comma, Cost., «perché una pena sproporzionata alla gravità del reato commesso da un lato non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata, dall’altro non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice»: la condanna a tre anni di reclusione per condotte di modestissimo valore non potrebbe essere considerata, chiunque ne sia l’autore, una risposta sanzionatoria proporzionata.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque non fondate.
Ad avviso della difesa dello Stato il giudice rimettente non avrebbe sollevato le questioni in modo corretto, in quanto non avrebbe indicato per quali motivi il Tribunale aveva riconosciuto le circostanze attenuanti generiche, e quindi non sarebbe possibile verificare se la loro applicazione sia stata fondata proprio sullo scarso valore del danno patrimoniale. In questo caso, infatti, «la valorizzazione della tenuità del danno spiegherebbe certamente un effetto sul trattamento sanzionatorio, neutralizzando l’aumento di pena dovuto alla sussistenza della contestata recidiva».
Le questioni sarebbero allora inammissibili, per carente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo.
L’Avvocatura generale dello Stato aggiunge che comunque le questioni non sono fondate, perché la norma censurata tenderebbe ad attuare «una forma di prevenzione generale della recidiva reiterata, inasprendone il regime sanzionatorio».
Essa inoltre non comporterebbe l’applicazione di una pena sproporzionata perché sanziona coloro che hanno commesso un altro reato pur essendo già recidivi, e hanno così dimostrato un alto e persistente grado di antisocialità.
Peraltro la stessa Corte costituzionale avrebbe chiarito che gli effetti della sentenza n. 251 del 2012 devono essere circoscritti alla sola circostanza considerata e non hanno carattere di generalità, e che vi sono casi in cui il divieto di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. può trovare giustificazione.
Nel caso in esame il divieto sarebbe giustificato perché «colpisce una attenuante ad effetto comune e lo “scalino” edittale determinato dal divieto di prevalenza non appare manifestamente sproporzionato, valutando i dati soggettivi, connessi alla colpevolezza ed alla pericolosità dell’agente, rispetto a quelli oggettivi, legati alla concreta offensività della fattispecie».
La deroga al giudizio di bilanciamento sarebbe allora rispettosa della discrezionalità legislativa e quindi non sindacabile dalla Corte costituzionale, come sarebbe stato già ritenuto dalla sentenza n. 68 del 2012.
La norma non contrasterebbe neanche con il principio di offensività, posto dall’art. 25, secondo comma, Cost., che non impone di «attribuire rilievo soltanto all’oggetto del reato senza valutare il soggetto agente, e in particolare la sua pericolosità, soprattutto se recidivo».
Sarebbe infine infondata anche la censura relativa alla violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost. La scelta legislativa di sanzionare la recidiva in modo rigoroso, indipendentemente dalla «gravità dei fatti commessi, dai loro tempi e modi e dalle sanzioni irrogate», rientrerebbe nella discrezionalità del legislatore e sarebbe immune dalle censure formulate dal rimettente, in quanto «il fatto stesso della persistenza nelle condotte antisociali, quali che esse siano, dimostra che la funzione rieducativa non ha potuto efficacemente esplicarsi».


Considerato in diritto


1.– La Corte d’appello di Ancona, con ordinanza del 29 febbraio 2016, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui stabilisce il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sulla recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.
Ad avviso della Corte rimettente, la norma censurata sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., perché condurrebbe, in determinati casi, ad applicare pene identiche per violazioni di rilievo penale enormemente diverso: il recidivo reiterato responsabile di bancarotte fraudolente ultramilionarie, al quale siano applicate le circostanze attenuanti generiche, verrebbe punito con la stessa pena prevista per il recidivo reiterato autore di episodi di modesta gravità, «con limitati o nulli pregiudizi concreti ai creditori», al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche e quella prevista dall’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942.
Sarebbe altresì violato il principio di ragionevolezza, in quanto, per effetto dell’equivalenza tra la recidiva reiterata e l’attenuante in questione, «l’imputato viene di fatto a subire un aumento assai superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi: il che rende evidente il vulnus costituzionale proprio con riferimento ai casi marginali, di minima offensività, quale è quello per cui è processo».
La questione sarebbe non manifestamente infondata anche con riferimento al «principio di offensività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che, con il suo espresso richiamo al fatto commesso», attribuirebbe una rilevanza fondamentale all’azione delittuosa per il suo obiettivo disvalore e non solo in quanto manifestazione sintomatica di pericolosità sociale, implicando conseguentemente «la necessità di un trattamento penale differenziato per fatti diversi, senza che la considerazione della mera pericolosità dell’agente possa legittimamente avere rilievo esclusivo».
La norma censurata, infine, violerebbe il «principio di proporzionalità della pena (nelle sue due funzioni retributiva e rieducativa)», previsto dall’art. 27, terzo comma, Cost., «perché una pena sproporzionata alla gravità del reato commesso da un lato non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata, dall’altro non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice»: la condanna a tre anni di reclusione per condotte di modestissimo valore non potrebbe essere considerata, chiunque ne sia l’autore, una risposta sanzionatoria proporzionata.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, per carente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo e, di conseguenza, per difetto di motivazione sulla rilevanza. Il giudice rimettente, infatti, non avrebbe sollevato le questioni in modo corretto, in quanto non avrebbe indicato per quali motivi il Tribunale aveva riconosciuto le circostanze attenuanti generiche, e quindi non sarebbe possibile verificare se l’applicazione di tali circostanze sia stata fondata proprio sullo scarso valore del danno patrimoniale. In questo caso, infatti, «la valorizzazione della tenuità del danno spiegherebbe certamente un effetto sul trattamento sanzionatorio, neutralizzando l’aumento di pena dovuto alla sussistenza della contestata recidiva».
L’eccezione è infondata.
La Corte d’appello rimettente – chiamata a pronunciarsi in sede di rinvio in seguito all’annullamento, da parte della Corte di cassazione, della sentenza con cui il Tribunale di Urbino aveva condannato l’imputato alla pena di due anni di reclusione per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, previo riconoscimento della recidiva reiterata, ritenuta equivalente alle circostanze attenuanti generiche, e dell’attenuante speciale prevista dall’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 – ha adeguatamente descritto la fattispecie e nessuna rilevanza può riconoscersi alla mancata indicazione dei motivi per i quali il giudice di primo grado ha applicato le attenuanti generiche. Secondo la sentenza di annullamento il giudice di rinvio deve limitarsi a determinare la pena all’esito del giudizio di comparazione tra le circostanze e ciò basta a dimostrare la rilevanza delle questioni.
3.– Nel merito, le questioni sono fondate.
4.– L’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 prevede una circostanza attenuante ad effetto speciale, che comporta una riduzione della pena base fino al terzo, nel caso in cui i fatti previsti negli artt. 216 (bancarotta fraudolenta), 217 (bancarotta semplice) e 218 (ricorso abusivo al credito) «hanno cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità».
Quando però questa attenuante concorre con l’aggravante della recidiva prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., la diminuzione è impedita dalla norma censurata dell’art. 69, quarto comma, cod. pen.
Come questa Corte ha già rilevato, l’attuale formulazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen. costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione legislativa dei criteri di bilanciamento iniziata con l’art. 6 del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 giugno 1974, n. 220, che ha esteso il giudizio di comparazione alle circostanze autonome o indipendenti e a quelle inerenti alla persona del colpevole. «L’effetto è stato quello di consentire il riequilibrio di alcuni eccessi di penalizzazione, ma anche quello di rendere modificabili, attraverso il giudizio di comparazione, le cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di aggravamento o di attenuazione, sostanzialmente diverse dai reati base; ipotesi che solitamente vengono individuate dal legislatore attraverso la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base» (sentenza n. 251 del 2012; in seguito, sentenze n. 106 e n. 105 del 2014, n. 74 del 2016).
Rispetto a questo tipo di circostanze, «il criterio generalizzato, introdotto con la modificazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., ha mostrato delle incongruenze, inducendo il legislatore a intervenire con regole derogatorie, come è avvenuto con l’aggravante della “finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico” (art. 1, decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, recante “Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica”, convertito, con modificazioni, nella legge 6 febbraio 1980, n. 15), e, in seguito, con varie altre disposizioni, generalmente adottate per impedire il bilanciamento della circostanza c.d. privilegiata, di regola un’aggravante, o per limitarlo, in modo da escludere la soccombenza di tale circostanza nella comparazione con le attenuanti; ed è appunto questo il risultato che si è voluto perseguire con la norma impugnata» (sentenza n. 251 del 2012; in seguito, sentenze n. 106 e n. 105 del 2014, n. 74 del 2016).
Si tratta di deroghe rientranti nell’ambito delle scelte riservate al legislatore, che questa Corte ha ritenuto sindacabili «soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenza n. 68 del 2012), ed è sotto questo aspetto che vanno considerate le questioni sollevate.
5.– Anche nel caso in esame – come in quello concernente l’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) e in quello relativo all’art. 648, secondo comma, cod. pen., rispettivamente decisi dalle sentenze di questa Corte n. 251 del 2012 e n. 105 del 2014 – il divieto di prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 sulla recidiva reiterata conduce a conseguenze sanzionatorie manifestamente irragionevoli.
Come è stato ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, la circostanza attenuante prevista dall’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 è una circostanza speciale, di natura oggettiva e ad effetto speciale, perché prevede una diminuzione «fino al terzo» della pena in concreto comminata, e non in misura non eccedente un terzo, come le circostanze ad effetto comune, secondo quanto disposto dall’art. 65 cod. pen. La disposizione, insomma, «allude non all’entità della pena da sottrarre a quella altrimenti individuata, ma, direttamente, al risultato dello scomputo, cioè alla pena finale, che, dunque, può essere portata, appunto, fino al terzo di sé stessa (cioè fino al terzo di quella individuata prima del calcolo della incidenza dell’attenuante speciale)» (Corte di cassazione, sezione quinta, 23 febbraio 2015, n. 15976; nello stesso senso, sezione quinta, 17 febbraio 2005, n. 10391).
Nel caso in questione è evidente la notevole divaricazione tra le cornici edittali stabilite dal legislatore per le fattispecie base previste dagli artt. 216, 217 e 218 del r.d. n. 267 del 1942 e quelle stabilite per le rispettive ipotesi attenuate a norma dell’art. 219, terzo comma.
Infatti la pena edittale per la bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (art. 216, primo comma, numeri 1 e 2, del r.d. n. 267 del 1942), che va da tre a dieci anni di reclusione, per effetto dell’attenuante potrebbe essere ridotta nel minimo fino a un anno, e nel massimo fino a tre anni e quattro mesi di reclusione. Nella stessa proporzione potrebbero ovviamente essere ridotte le pene previste per gli altri reati ai quali è applicabile la circostanza.
Le differenti comminatorie edittali delle fattispecie criminose di base e delle rispettive ipotesi attenuate ex art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 si collegano a diverse caratteristiche oggettive sul piano dell’offensività.
Il trattamento sanzionatorio, significativamente più mite, assicurato ai fatti di bancarotta che hanno determinato un danno patrimoniale di particolare tenuità, «esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato» (sentenza n. 251 del 2012). In altri termini due fatti, quello di bancarotta fraudolenta e quello di bancarotta che ha cagionato, alla massa dei creditori, un danno patrimoniale di speciale tenuità, che lo stesso assetto legislativo riconosce diversi sul piano dell’offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, determinando la violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., «“che pone il fatto alla base della responsabilità penale” (sentenze n. 251 del 2012 e n. 249 del 2010)» (sentenza n. 105 del 2014).
Come è stato già rilevato da questa Corte, «la recidiva reiterata “riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare “neutralizzata” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità” (sentenza n. 251 del 2012)» (sentenza n. 105 del 2014).
Inoltre, come ha esattamente rilevato la Corte rimettente, rispetto a una bancarotta fraudolenta che abbia cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità, «per effetto dell’equivalenza tra la recidiva reiterata e l’attenuante in questione, l’imputato viene di fatto a subire un aumento assai superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi».
Insomma la norma censurata si pone in contrasto, sia con l’art. 3, sia con l’art. 25, secondo comma, Cost., perché determina l’applicazione irragionevole della stessa pena a fatti di bancarotta oggettivamente diversi e in modo non rispettoso del principio di offensività.
6.– È fondata anche la censura relativa alla violazione del principio di proporzionalità della pena (art. 27, terzo comma, Cost.).
L’art. 69, quarto comma, cod. pen., infatti, «nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza “una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze” (sentenze n. 251 del 2012 e n. 183 del 2011)» (sentenze n. 106 e n. 105 del 2014). Nel caso in esame, infatti, il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per la bancarotta fraudolenta con «un danno patrimoniale di speciale tenuità».
Come è stato già affermato da questa Corte, «la legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per “un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale” (sentenza n. 249 del 2010), non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni» (sentenze n. 251 del 2012, n. 106 e n. 105 del 2014).
Questo scrutinio nel caso in esame rivela il carattere palesemente sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall’innesto della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dall’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942. Perciò deve concludersi che la norma censurata è in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena, che implica «un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra» (sentenza n. 341 del 1994).
7.– Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.
per questi motivi


LA CORTE COSTITUZIONALE


dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2017.

 
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