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 Corte Costituzionale, sentenza 7 dicembre 2016 (dep. 26 gennaio 2017), n. 21

1) illegittimità costituzionale dell’art. 197-bis, comma 6, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede l’applicazione della disposizione di cui all’art. 192, comma 3, del medesimo codice di rito anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al comma 1 dell’art. 197-bis cod. proc. pen., nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste” divenuta irrevocabile; 2) in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), illegittimità costituzionale dell’art. 197-bis, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede l’assistenza di un difensore anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al comma 1 del medesimo art. 197-bis, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste” divenuta irrevocabile.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE


composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente


SENTENZA


nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 197-bis, commi 3 e 6, e 192, comma 3, del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Macerata, in composizione monocratica, nel procedimento penale a carico di M.M. e H.M., con ordinanza del 22 maggio 2015, iscritta al n. 232 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Udito nella camera di consiglio del 7 dicembre 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.


Ritenuto in fatto


1.– Il Tribunale ordinario di Macerata, in composizione monocratica, con ordinanza del 22 maggio 2015 (r.o. n. 232 del 2015), ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 197-bis, commi 3 e 6, e 192, comma 3, del codice di procedura penale, «nella parte in cui prevedono la necessità della assistenza di difensore e la applicazione del disposto di cui all’art. 192 c. 3 cpp anche per le dichiarazioni rese da persone giudicate in procedimento connesso o per reato collegato nei confronti delle quali sia stata pronunziata sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste”».
Il giudice rimettente, premesso di essere investito di un procedimento nei confronti di tre imputati rinviati a giudizio per il reato di cui all’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), essendo state loro contestate «plurime cessioni di hashish» ad altra persona, precisa che, nel corso dell’istruttoria dibattimentale era stato sentito come testimone un imputato di reato probatoriamente collegato, assolto con sentenza irrevocabile «“perché il fatto non sussiste”, non essendo provato che la droga da lui acquistata non fosse stata presa per uso personale».
Nell’udienza del 22 maggio 2015, in sede di conclusioni, il pubblico ministero aveva chiesto la condanna degli imputati, mentre la difesa ne aveva chiesto l’assoluzione.
Il Tribunale rimettente rileva che l’ipotesi accusatoria «poggia in maniera determinante» sulle dichiarazioni del teste «acquirente della droga», il quale ha riferito dell’acquisto della sostanza stupefacente e ha «riconosciuto in foto» gli imputati del procedimento principale come i venditori della sostanza poi rinvenuta dalla polizia giudiziaria nella sua disponibilità.
Questo testimone, come osserva il giudice rimettente, aveva la qualità di persona già imputata di reato collegato ai sensi dell’art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen., essendogli stata contestata la detenzione ai fini di spaccio dello stupefacente acquistato dalle persone imputate nel giudizio a quo. Infatti, secondo il giudice rimettente, la prova sulla natura della sostanza riverberava i suoi effetti su entrambi i processi, mentre la prova sulla detenzione della droga da parte del testimone costituiva un indizio a suo carico e a carico degli imputati. Conseguentemente la sua deposizione dovrebbe essere valutata secondo i canoni stabiliti dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., essendo «idonea a fornire piena prova solo in presenza di “altri elementi di prova”», i quali non emergerebbero dagli atti.
Il giudice a quo pertanto ritiene di dover sollevare la questione di legittimità costituzionale precedentemente indicata.
La situazione normativa sarebbe analoga a quella già decisa con la sentenza n. 381 del 2006 di questa Corte, in quanto l’intervento nei confronti di un coimputato di una «sentenza di assoluzione piena “perché il fatto non sussiste”» costituirebbe una «circostanza idonea ad eliminare qualsiasi “stato di relazione” di quel dichiarante rispetto ai fatti oggetto del procedimento», sì da far assimilare «almeno giuridicamente» la sua situazione a quella «di indifferenza del teste ordinario».
La disciplina censurata, oltre a risultare priva di ragionevolezza, sarebbe in contrasto con il principio di eguaglianza. Essa, infatti, parificherebbe la posizione «dell’imputato in procedimento connesso o di reato collegato, assolto con sentenza irrevocabile, a quella della persona dichiarante ai sensi dell’art. 210 cod. proc. pen.; e, per converso, la diversific[herebbe] profondamente da quella del testimone ordinario, tanto sotto il profilo dell’obbligo di assistenza difensiva, quanto sotto quello della limitazione probatoria delle dichiarazioni». Il legislatore in tale modo avrebbe «sovrapposto e confuso la sfera della limitata capacità testimoniale con quella dell’attendibilità in concreto», la quale atterrebbe «al principio del libero convincimento del giudice».
Secondo il giudice rimettente «anche la persona offesa dal reato o i prossimi congiunti dell’imputato possono porre seri problemi di attendibilità, e, nondimeno, rispetto a costoro non esiste alcuna capitis deminutio testimoniale, che invece persiste, irragionevolmente, rispetto all’assolto».
L’applicabilità o meno della regola di giudizio di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. sarebbe questione chiaramente rilevante, dato che la «deposizione del coimputato per reato connesso» costituirebbe «l’elemento portante della ipotesi di accusa e la valutazione in ordine alla necessità o meno di riscontri alle sue asserzioni (riscontri che non si rinvengono in atti) può comportare la differenza tra affermazione di penale responsabilità degli imputati o loro assoluzione».
Il giudice rimettente sottolinea che la denunciata illegittimità costituzionale riguarda anche l’assistenza del difensore prevista dall’art. 197-bis cod. proc. pen., ma riconosce che la questione è superata perché il testimone era stato sentito alla presenza del difensore. Nonostante ciò ritiene «auspicabile una unitaria pronunzia […] che assimili in tutto la posizione del coimputato per reato connesso assolto “perché il fatto non sussiste” [a quella del] coimputato per reato connesso “assolto per non aver commesso il fatto”».


Considerato in diritto


1.– Con ordinanza del 22 maggio 2015 (r.o. n. 232 del 2015), il Tribunale ordinario di Macerata, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 197-bis, commi 3 e 6, e 192, comma 3, del codice di procedura penale, «nella parte in cui prevedono la necessità della assistenza di difensore e la applicazione del disposto di cui all’art. 192 c. 3 cpp anche per le dichiarazioni rese da persone giudicate in procedimento connesso o per reato collegato nei confronti delle quali sia stata pronunziata sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste”».
La disciplina censurata, oltre a risultare priva di ragionevolezza, sarebbe in contrasto con il principio di eguaglianza. Essa, infatti, parificherebbe la posizione «dell’imputato in procedimento connesso o di reato collegato, assolto con sentenza irrevocabile, a quella della persona dichiarante ai sensi dell’art. 210 cod. proc. pen.; e, per converso, la diversific[herebbe] profondamente da quella del testimone ordinario, tanto sotto il profilo dell’obbligo di assistenza difensiva, quanto sotto quello della limitazione probatoria delle dichiarazioni».
2.– Le questioni sono state sollevate con riferimento, oltre che all’art. 197-bis, commi 3 e 6, anche all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., ma in realtà riguardano esclusivamente i due commi dell’art. 197-bis impugnati, e in particolare il comma 6.
Questo comma stabilisce che alle dichiarazioni dei testimoni assistiti «si applica la disposizione di cui all’articolo 192, comma 3», e dall’ordinanza di rimessione non emerge alcuna specifica censura nei confronti della disposizione oggetto del rinvio.
La regola di giudizio contenuta nell’art. 192, comma 3, sulla valutazione delle dichiarazioni delle persone imputate in un procedimento connesso, non è in questione; la censura riguarda solo il rinvio operato dall’art. 197-bis, comma 6, cod. proc. pen., perché rende tale regola applicabile anche alle dichiarazioni dei testimoni assistiti.
È dunque esclusivamente nei confronti di questa disposizione che si appuntano le censure del giudice a quo, e in tale senso deve essere delimitato l’oggetto della questione di legittimità costituzionale.
3.– La questione relativa all’altro comma dell’art. 197-bis cod. proc. pen. impugnato, cioè al comma 3, che prescrive l’assistenza del difensore, non è ammissibile, perché è priva di rilevanza. Infatti, come ha riconosciuto lo stesso giudice rimettente, nel processo a quo il testimone, imputato di reato collegato e assolto perché il fatto non sussiste, è stato già sentito alla presenza del difensore, sicché della disposizione impugnata non occorre più fare applicazione.
4.– La questione riguardante l’art. 197-bis, comma 6, cod. proc. pen. è fondata.
5.– Questa Corte, come ha ricordato il giudice rimettente, ha già esaminato, in una situazione analoga, la compatibilità dell’art. 197-bis cod. proc. pen. con l’art. 3 Cost., e ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui la disposizione si applica alle dichiarazioni rese dalle persone «nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione “per non aver commesso il fatto” divenuta irrevocabile» (sentenza n. 381 del 2006).
La ratio di quella pronuncia risulta suscettibile di estensione rispetto all’odierna questione, in modo da determinarne l’accoglimento.
Con la sentenza n. 381 del 2006 questa Corte, ribadendo peraltro quanto aveva già affermato con l’ordinanza n. 265 del 2004, ha rilevato come «l’assetto normativo della prova dichiarativa, in esito alla novella del 1° marzo 2001, n. 63, di attuazione del ‘giusto processo’, evidenziasse una complessiva ‘strategia di fondo’ del legislatore: precisamente, quella di “enucleare una serie di figure di dichiaranti nel processo penale in base ai diversi ‘stati di relazione’ rispetto ai fatti oggetto del procedimento, secondo una graduazione che, partendo dalla situazione di assoluta indifferenza propria del teste ordinario, giunge fino alla forma ‘estrema’ di coinvolgimento, rappresentata dal concorso del dichiarante nel medesimo reato”». La sentenza aggiungeva che «Alla molteplicità di tali ‘stati di relazione’ corrisponde, evidentemente, una “articolata scansione normativa”, relativa non soltanto alla varietà soggettiva dei dichiaranti, ma anche alle differenti modalità di assunzione della dichiarazione e, soprattutto, ai diversi effetti del dichiarato».
Muovendo da queste considerazioni e dall’esame dei diversi “stati di relazione” individuati dalle norme del codice di rito, questa Corte è giunta alla conclusione che assimilare le dichiarazioni della persona imputata in un procedimento connesso o di un reato collegato, assolta “per non aver commesso il fatto”, alle altre dichiarazioni previste dal comma 1 dell’art. 197-bis cod. proc. pen. «appare per un verso irragionevole e, per altro verso, in contrasto con il principio di eguaglianza» (sentenza n. 381 del 2006).
Alle medesime conclusioni non può non pervenirsi nel caso di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, che costituisce una formula liberatoria nel merito di uguale ampiezza.
Del resto non è senza significato il fatto che il codice di procedura penale del 1930, con l’art. 348, terzo comma, vietasse l’assunzione, come testimoni, degli imputati dello stesso reato o di un reato connesso, anche se erano stati prosciolti o condannati, salvo che il proscioglimento fosse stato «pronunciato in giudizio per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste».
Pure in quest’ultimo caso può affermarsi che l’assoggettamento delle dichiarazioni della persona assolta alla regola legale di valutazione enunciata nell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., sì da rendere «perenne una compromissione del valore probatorio delle relative dichiarazioni testimoniali», risulta priva di giustificazione sul piano razionale. Per effetto di tale regola l’efficacia di un giudicato di assoluzione – che pure espressamente esclude, per il dichiarante, qualsiasi responsabilità rispetto ai fatti oggetto del giudizio, consolidando tale esito al punto da renderlo irreversibile – risulta sostanzialmente svilita proprio dalla perdurante limitazione del valore probatorio delle sue dichiarazioni (sentenza n. 381 del 2006).
Riguardo anche alla violazione del principio di eguaglianza, possono estendersi al caso in esame le considerazioni già svolte dalla sentenza n. 381 del 2006. Infatti, «la presunzione di minore attendibilità, scaturente dalla regola di valutazione probatoria in questione, risulta irragionevolmente discordante rispetto alle regulae iuris che presiedono, invece, alla valutazione giudiziale delle dichiarazioni rese dal teste ordinario; e ciò nonostante le tipologie di dichiaranti in comparazione risultino omogenee, in quanto connotate dalla comune peculiarità della condizione di assoluta indifferenza rispetto alla vicenda oggetto di giudizio: l’una sussistente ab origine, l’altra necessariamente sopravvenuta ed indotta dall’assoluzione divenuta irrevocabile».
È inoltre da considerare che la sentenza di illegittimità costituzionale n. 381 del 2006 ha dato luogo a un’ulteriore situazione di contrasto con l’art. 3 Cost., perché differenziando il regime e il valore probatorio delle dichiarazioni dell’imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato, a seconda che l’assoluzione sia stata pronunciata per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, ha determinato una nuova ingiustificata disparità di trattamento, alla quale ora può porsi riparo.
Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., del comma 6 dell’art. 197-bis cod. proc. pen., nella parte in cui prevede l’applicazione della disposizione di cui all’art. 192, comma 3, del medesimo codice di rito anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al comma 1 dell’art. 197-bis cod. proc. pen., nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, divenuta irrevocabile.
6.– La dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa, in via consequenziale, al comma 3 dell’art. 197-bis cod. proc. pen. L’estensione si impone per evitare che la testimonianza del dichiarante, imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato poi assolto “perché il fatto non sussiste”, resti soggetta a una modalità di assunzione della prova strettamente correlata, in un regime di testimonianza assistita, alla norma di cui viene dichiarata l’illegittimità costituzionale. Caduta l’una deve conseguentemente cadere pure l’altra, anche perché il suo mantenimento lascerebbe parzialmente in vita l’ingiustificata disparità di trattamento alla quale con la presente decisione è stato posto riparo.
Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), il comma 3 dell’art. 197-bis cod. proc. pen. va quindi dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede l’assistenza di un difensore anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al comma 1 del medesimo art. 197-bis, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, divenuta irrevocabile.
per questi motivi


LA CORTE COSTITUZIONALE


1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 197-bis, comma 6, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede l’applicazione della disposizione di cui all’art. 192, comma 3, del medesimo codice di rito anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al comma 1 dell’art. 197-bis cod. proc. pen., nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste” divenuta irrevocabile;
2) dichiara, in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 197-bis, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede l’assistenza di un difensore anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al comma 1 del medesimo art. 197-bis, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste” divenuta irrevocabile.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 dicembre 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 gennaio 2017.

 
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