Illegittimità costituzionale dell’art. 459, comma 1, c.p.p. nella parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l’emissione di decreto penale di condanna.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alessandro CRISCUOLO; Giudici : Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 1, del codice di procedura penale, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Avezzano nel procedimento penale a carico di D.G.A., con ordinanza del 7 agosto 2013, iscritta al n. 88 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 28 gennaio 2015 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.
Ritenuto in fatto
1.– Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Avezzano, con ordinanza del 7 agosto 2013, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione, dell’art. 459, primo comma, cod. proc. pen. (come sostituito dall’art. 37, comma 1, della legge 16 dicembre 1999, n. 479 – Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), nella parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l’emissione di decreto penale di condanna.
Premette il rimettente che l’ufficio del pubblico ministero ha esercitato l’azione penale nei confronti dell’imputato D.G.A., depositando richiesta di emissione di decreto penale di condanna in relazione al reato di cui all’art. 388, terzo e quarto comma, cod. pen., nonostante l’espressa opposizione del querelante alla definizione del procedimento mediante decreto penale di condanna formulata ex art. 459, comma 1, cod. proc. pen.
Unitamente alla richiesta di emissione di decreto penale l’Ufficio del pubblico ministero ha chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 1, cod. proc. pen. nella parte in cui prevede, per i soli reati perseguibili a querela, il potere in capo al querelante di opporsi alla definizione del procedimento con decreto penale di condanna, per contrasto di detta norma con gli artt. 3, 101 e 111 Cost.
In particolare, il rappresentante dell’ufficio della Procura rileva il contrasto della norma citata con l’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo dell’irragionevolezza della disposizione e della violazione del principio di uguaglianza, in quanto il potere attribuito dalla legge al querelante di opporsi alla definizione del procedimento attraverso il rito monitorio non risponderebbe ad alcun interesse giuridicamente apprezzabile.
Secondo il pubblico ministero, la persona offesa dal reato è, in primo luogo, portatrice di un interesse a veder dichiarata la penale responsabilità dell’autore del reato con la conseguente irrogazione di una sanzione penale, interesse che viene parimenti soddisfatto sia attraverso lo svolgimento del processo con un qualsiasi rito, anche speciale, che si conclude con una sentenza, sia attraverso il rito speciale di cui all’art. 459 e seguenti, cod. proc. pen. attesa la natura di sentenza del decreto penale di condanna.
In secondo luogo, la persona offesa dal reato è portatrice di un interesse al risarcimento dei danni patrimoniali e non conseguenti al reato, interesse che non sempre è soddisfatto all’esito della definizione del processo penale sia nel caso di definizione con decreto penale di condanna, che in caso di definizione con «patteggiamento», ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. Infatti, in tali casi, è esclusa dal legislatore qualsiasi delibazione da parte del giudice penale in ordine alla pretesa risarcitoria della parte offesa, che dovrà essere fatta valere successivamente in sede civile.
Pertanto il querelante non vede leso alcun suo diritto dalla definizione del procedimento a mezzo del rito di cui all’art. 459 cod. proc. pen., visto che detto rito si conclude con l’applicazione di una sanzione penale nei confronti del responsabile e che, in ogni caso, è garantita la tutela risarcitoria in sede civile come avviene anche in caso di patteggiamento ex art. 444 cod. proc. pen.
La possibilità concessa dalla legge al querelante di opporsi alla definizione del procedimento a mezzo dell’emissione del decreto penale di condanna sarebbe, dunque, irragionevole, risolvendosi esclusivamente nell’infliggere al querelato la sofferenza consistente nello svolgimento del processo, in modo da trasformare quest’ultimo da strumento di accertamento dei fatti in una sanzione nei confronti dell’autore del reato.
Sottolinea, infine, il pubblico ministero che la facoltà concessa dall’art. 459 cod. proc. pen. di opporsi alla definizione del procedimento con decreto penale di condanna, contrasterebbe con il principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost. in quanto l’instaurazione del processo con rito ordinario a seguito dell’opposizione comporterebbe una inevitabile dilatazione dei tempi processuali, nonché una violazione dell’art. 101 Cost. in quanto sottrarrebbe al pubblico ministero la titolarità dell’esercizio dell’azione penale.
Premesso quanto sopra, il GIP del Tribunale ordinario di Avezzano ritiene, innanzitutto, che sussista la rilevanza della questione atteso che dalla decisione della stessa dipende la definizione del procedimento mediante l'emissione di decreto penale di condanna come richiesto dal pubblico ministero, ovvero l’obbligo di rigettare la richiesta con rimessione degli atti al pubblico ministero perché proceda con altro rito.
Inoltre, secondo il rimettente, la questione non è manifestamente infondata in quanto la norma configura un vulnus al principio di obbligatorietà dell’azione penale previsto dall’art. 112 Cost., principio di carattere generale che, nell’attuale sistema costituzionale, non prevede deroghe né con riferimento all’esercizio dell’azione né con riferimento alle modalità di esercizio della stessa da parte del pubblico ministero.
Con particolare riguardo al profilo della modalità di esercizio dell’azione penale, il rimettente osserva che l’ordinamento processuale rimette la scelta del rito (giudizio direttissimo, immediato, ordinario, procedimento per decreto) esclusivamente all’ufficio del pubblico ministero, in presenza ovviamente dei presupposti di legge previsti per i singoli riti. Fanno eccezione solo il rito abbreviato in cui la scelta è rimessa alla volontà dell’imputato e l’applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. dove è richiesto l’accordo tra accusa ed imputato. In tali casi, osserva il rimettente, il legislatore ha fatto una precisa scelta di favorire riti premiali con chiare caratteristiche deflattive, scelta coerente con i principi costituzionali del diritto di difesa, del contraddittorio e della ragionevole durata del processo sanciti dall’art. 111 Cost., non prevedendo alcuna possibilità né per il querelante, né per la parte offesa dal reato di opporsi alla scelta del rito, sebbene nell’ipotesi di cui all’art. 444 cod. proc. pen. sia preclusa, come nel caso di procedimento per decreto ex art. 459 cod. proc. pen., al giudice qualsiasi delibazione in ordine alle eventuali pretese risarcitorie derivanti dal reato.
Anche il procedimento per decreto di cui all’art. 459 e seguenti cod. proc. pen., prosegue il rimettente, ha natura premiale ed è finalizzato ad una funzione deflattiva in ossequio al principio di ragionevole durata del processo, così come il rito abbreviato ex art. 438 cod. proc. pen. e l’applicazione pena ex art. 444 cod. proc. pen.
Non sarebbe comprensibile, quindi, la ragionevolezza della scelta legislativa costituente l’unico caso nell’ordinamento in cui è previsto che l’ufficio del pubblico ministero sia condizionato nella scelta della modalità di esercizio dell’azione penale in palese violazione del principio della obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 cod. proc. pen. che, a suo giudizio, non tollera limitazioni, e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost.
Il GIP del Tribunale ordinario di Avezzano ritiene, dunque, condivisibile l’assunto del pubblico ministero secondo il quale il querelante è in primo luogo portatore di un interesse a veder dichiarata la penale responsabilità dell’autore del reato con la conseguente irrogazione di una sanzione penale, interesse che viene parimenti soddisfatto sia attraverso lo svolgimento del processo con un qualsiasi rito, anche speciale, che si conclude con una sentenza, sia attraverso il rito speciale di cui agli artt. 459 e ss. cod. proc. pen., attesa la natura di sentenza del decreto penale di condanna.
In secondo luogo il querelante è portatore di un interesse al risarcimento dei danni conseguenti al reato, interesse che non sempre è soddisfatto all’esito della definizione del processo penale, sia nel caso di definizione con decreto penale di condanna che in caso di definizione con «patteggiamento» ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. In entrambi i casi, infatti, è esclusa dal legislatore qualsiasi delibazione da parte del giudice penale in ordine alla pretesa risarcitoria della parte offesa, che dovrà essere fatta successivamente valere in sede civile. Sarebbe, quindi, irragionevole la diversità di disciplina per quanto riguarda la facoltà del querelante di opporsi alla scelta del rito con cui definire il procedimento penale prevista solo per il decreto penale di condanna.
La norma sembrerebbe non trovare alcun ragionevole fondamento, oltre a prestarsi ad una illegittima forzatura della funzione del processo che da strumento di accertamento dei fatti diventerebbe per sé stesso una sanzione nei confronti dell’autore del reato.
Inoltre, sottolinea il rimettente, l’esercizio della facoltà di opposizione da parte del querelante comporta necessariamente il ricorso ad altro rito con una inevitabile ed ingiustificata dilatazione dei tempi di definizione del processo in palese violazione del principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost.
Il parametro della ragionevolezza sarebbe poi violato dalla norma censurata anche con riferimento al fatto che sebbene la facoltà di opposizione alla definizione con rito monitorio sia prevista solo in caso di reati procedibili a querela, una stessa facoltà di opposizione in capo al querelante non è prevista con riferimento alle ipotesi di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen.
In conclusione, il legislatore del 1999 nell’estendere l’applicabilità del procedimento per decreto ai reati perseguibili a querela avrebbe valorizzato a tal punto questo concetto da sconfinare in una illegittima (e unica in tutto l’ordinamento processuale), limitazione del potere costituzionale di scelta della modalità di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico mistero, dimenticando che la perseguibilità a querela è solo una condizione di procedibilità per taluni fatti già previsti come reato dall’ordinamento, che è rimessa alla sussistenza di un particolare interesse della persona offesa. Ma una volta espressa, da parte di quest’ultima, la volontà di procedere mediante la querela, il processo è sottoposto a tutte le prerogative costituzionali inerenti l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero ed alle garanzie di cui all’art. 111 Cost., prerogative e garanzie che appaiono violate dalla disciplina impugnata.
2.– Si è costituita l’Avvocatura generale dello Stato chiedendo il rigetto della questione di costituzionalità.
Secondo la difesa statale l’art. 459, comma 1, prima parte, cod. proc. pen. non presenta alcun profilo di irragionevolezza, ove si consideri l’interesse della persona offesa da un reato procedibile a querela ad assicurarsi, qualora si opponga alla definizione del procedimento mediante l’emissione di un decreto penale di condanna, la possibilità di costituirsi parte civile per ottenere il risarcimento dei danni ex delicto. Del resto la persona offesa, prima della formulazione da parte del pubblico ministero dell’emissione di un decreto penale di condanna, non potrebbe costituirsi parte civile, ex art. 79 cod. proc. pen., non essendo stata ancora esercitata l’azione penale, né potrebbe costituirsi successivamente a tale richiesta, giacché ad essa, rimasta ignota al danneggiato, farebbe seguito la pronuncia del decreto penale di condanna.
La norma in questione non sarebbe censurabile neanche per disparità di trattamento con riferimento ai reati perseguibili d’ufficio, essendo evidente la loro non omogeneità con i reati procedibili a querela, in relazione ai quali l’ordinamento giuridico riconosce alla persona offesa un potere di impulso processuale.
Né sarebbe utilmente invocabile il principio dell’obbligatorietà dell'azione penale, sancito dall’art. 112 Cost., giacché la norma in questione, lungi dal paralizzare l’esercizio dell’azione penale, inciderebbe solo sulle modalità di siffatto esercizio, precludendo al pubblico ministero di optare per un rito alternativo lesivo degli interessi della persona offesa dal reato.
Non sarebbe pertinente nemmeno il richiamo al principio della ragionevole durata del processo, enunciato dall’art. 111, secondo comma, ultima parte, Cost., giacché non sarebbe irragionevole la dilatazione dei tempi processuali determinata dalla norma in questione, che risulta preordinata a salvaguardare l’interesse della persona offesa alla soddisfazione della sua pretesa risarcitoria, altrimenti destinata ad essere inappagata.
Considerato in diritto
1.– Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Avezzano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 1, cod. proc. pen. (come sostituito dall’art. 37, comma 1, della legge 16 dicembre 1999, n. 479 – Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), nella parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l’emissione di decreto penale di condanna.
Secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe l’art. 112 della Costituzione, in quanto la possibilità di condizionare la scelta della modalità di esercizio dell’azione penale riconosciuta al querelante si porrebbe in palese contrasto con il principio della sua obbligatorietà, che non prevede deroghe né con riferimento al suo effettivo esercizio né con riferimento alla relativa modalità di svolgimento da parte del pubblico ministero.
Risulterebbe violato anche l’art. 111 Cost., in quanto la facoltà del querelante di opporsi alla definizione del procedimento con il decreto penale di condanna, comportando necessariamente il ricorso ad altro rito, determinerebbe una inevitabile ed ingiustificata dilatazione dei tempi di definizione del processo in palese violazione del principio della ragionevole durata.
Infine, con riferimento alla violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., il rimettente ritiene che la facoltà di opporsi alla definizione del procedimento con il decreto penale di condanna non trovi alcuna giustificazione ragionevole nella tutela di un interesse del querelante, così come non trovi alcuna giustificazione la diversità di disciplina rispetto alla definizione del procedimento mediante richiesta di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. che non prevede un’analoga facoltà di opposizione in capo al querelante.
2.– La questione è fondata con riferimento agli artt. 3 e 111 Cost.
2.1.– Giova premettere che il procedimento per decreto è un rito premiale che risponde ad evidenti esigenze deflattive. Nella relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 24 ottobre 1988, supplemento ordinario n. 93), il procedimento per decreto è definito uno «strumento privilegiato di definizione anticipata del procedimento», tale da consentire «il maggior risparmio di risorse e la maggior semplificazione».
Com’è noto, con il decreto penale di condanna il giudice per le indagini preliminari applica all’imputato, su richiesta del pubblico ministero, una pena pecuniaria ridotta fino alla metà, senza la necessità di alcuna attivazione preventiva del contraddittorio.
L’imputato può presentare opposizione, nei 15 giorni successivi alla notifica del decreto, determinando l’instaurazione di un processo mediante il rito immediato o mediante altro rito speciale quale il patteggiamento o il giudizio abbreviato.
I benefici premiali consistono, in primo luogo, nella possibilità di una riduzione della pena fino alla metà del minimo edittale e, in secondo luogo, nella esclusione della condanna alle pene accessorie così come della condanna al pagamento delle spese del procedimento. Inoltre il decreto penale di condanna, anche se divenuto esecutivo, non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, e il reato si estingue se, nei cinque anni successivi per i delitti e nei due anni successivi per le contravvenzioni, l’imputato non commette altri reati della stessa indole. In tal caso si estingue ogni effetto penale e la condanna non è di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena.
Nella versione originaria, prima della modifica avvenuta nel 1999, il procedimento per decreto era riservato ai soli reati perseguibili d’ufficio. Questa limitazione, come si legge nella relazione al progetto preliminare al nuovo codice di procedura penale, trovava la sua giustificazione nella maggiore complessità degli accertamenti richiesti per i reati a procedibilità condizionata, che non si addiceva alle caratteristiche di snellezza e celerità proprie del rito monitorio. L’art. 37, comma 1, della legge n. 479 del 1999, ha profondamente innovato la disciplina del procedimento per decreto, estendendo il rito anche ai reati perseguibili a querela, «se questa è stata validamente presentata e se il querelante non ha nella stessa dichiarato di opporvisi».
2.2.– La norma, sin dal suo ingresso nell’ordinamento, è stata oggetto di forti critiche per i suoi tratti di assoluta eccentricità.
Il legislatore, infatti, nel disciplinare istituti per certi versi simili, quali l’opposizione all’archiviazione ex art. 409 cod. proc. pen. e l’opposizione alla pronuncia di non doversi procedere per particolare tenuità del fatto ex art. 34, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), ha riconosciuto tale facoltà alla persona offesa e non al querelante.
Inoltre, nei casi sopra descritti, dell’opposizione all’archiviazione e dell’opposizione alla sentenza di non doversi procedere per tenuità del fatto, l’opposizione del querelante e, più in generale, della persona offesa si rivolge nei confronti di una pronuncia del giudice (di archiviazione o di non doversi procedere) che certamente non è satisfattiva dell’interesse dell’opponente. Diversamente, invece, con l’emissione del decreto penale di condanna il querelante vede soddisfatta la sua «volontà» di punizione dell’imputato.
2.3.– La norma censurata non trova una valida giustificazione né con riferimento alla posizione processuale della persona offesa, né con riguardo a quella del querelante.
La persona offesa, nel processo penale, è portatrice di un duplice interesse: quello al risarcimento del danno che si esercita mediante la costituzione di parte civile, e quello all’affermazione della responsabilità penale dell’autore del reato, che si esercita mediante un’attività di supporto e di controllo dell’operato del pubblico ministero.
A tal proposito deve essere ribadito il rilievo, già altre volte sottolineato da questa Corte, secondo il quale l’assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all’idea della separazione dei giudizi, penale e civile, essendo prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione dei processi rispetto all’interesse del soggetto danneggiato, nell’ambito del processo penale, di avvalersi del processo medesimo ai fini del riconoscimento delle sue pretese di natura civilistica.
In tal senso, proprio con riferimento al decreto penale di condanna, questa Corte, prima della riforma del 1999, ha ritenuto infondata la richiesta di una pronuncia volta a escludere l’ammissibilità del ricorso al procedimento speciale disciplinato dal Titolo V del Libro VI cod. proc. pen., nel caso la persona offesa dal reato avesse manifestato in modo esplicito, anteriormente all’esercizio dell’azione penale, l’intenzione di costituirsi parte civile (ordinanza n. 124 del 1999).
Con la citata pronuncia questa Corte ha ancora una volta ribadito che «l’eventuale impossibilità per il danneggiato di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, ancor prima, sul suo diritto di agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento del danno nella sede civile, traendone la conclusione che ogni "separazione dell’azione civile dall’ambito del processo penale non può essere considerata come una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale", essendo affidata al legislatore la scelta della configurazione della tutela medesima, in vista delle esigenze proprie del processo penale (sentenze n. 443 del 1990, n. 171 del 1982 e n. 166 del 1975)».
In tale occasione si è anche rilevato che «risulterebbe improprio un sistema che consentisse di esperire un determinato rito alternativo, sussistendone i presupposti, solo in dipendenza di una sorta di determinazione meramente potestativa della persona offesa, che non riveste la qualità di parte» (ordinanza n. 124 del 1999).
Ciò detto, deve anche osservarsi che la possibilità di esercitare l’azione civile nel processo penale da parte del querelante mediante l’opposizione alla definizione del procedimento con il decreto penale di condanna è del tutto incoerente con la mancata previsione di una analoga facoltà di opposizione nella disciplina del “patteggiamento”. In tal caso, infatti, qualora il condannato avanzi richiesta di applicazione della pena e ottenga il consenso del pubblico ministero, al querelante, anche se costituito parte civile, non resta alcun potere di interdizione del rito dovendo trovare esclusivamente nella sede civile il luogo della tutela del proprio interesse al risarcimento del danno. Ne consegue che la diversità di disciplina tra il procedimento per decreto e quello relativo all’applicazione della pena su richiesta delle parti non trova una ragionevole giustificazione nell’interesse alla costituzione di parte civile della persona offesa/querelante.
A tal proposito non rileva il fatto che i due riti alternativi non siano completamente assimilabili, sia perché ciò è ininfluente in relazione al canone di razionalità della norma, sia perché «Il principio di cui all’art. 3 Cost. è violato non solo quando i trattamenti messi a confronto sono formalmente contraddittori in ragione dell’identità delle fattispecie, ma anche quando la differenza di trattamento è irrazionale secondo le regole del discorso pratico, in quanto le rispettive fattispecie, pur diverse, sono ragionevolmente analoghe» (sentenza n. 1009 del 1988), come appunto nel caso in esame. Si consideri, poi, che l’attuale disciplina non esclude che, a seguito dell’opposizione del querelante, che è ostativa alla definizione mediante decreto penale di condanna, il procedimento sfoci proprio nel rito di cui all’art. 444 c.p.p., con la conseguenza che viene egualmente negata la possibilità di trovare nel processo penale la sede per far valere le pretese civilistiche.
2.4.– La possibilità per il querelante di opporsi alla definizione del procedimento con decreto non trova adeguata giustificazione neanche in relazione all’interesse della persona offesa all’accertamento della responsabilità dell’autore del reato, interesse che si realizza mediante l’attività di supporto e di controllo rispetto all’esercizio dell’azione penale del pubblico ministero.
La persona offesa, infatti, ai sensi dell’art. 90 cod. proc. pen. può partecipare al procedimento penale, anche a prescindere dalla costituzione di parte civile e, in particolare, può, in ogni stato e grado del procedimento, presentare memorie e indicare elementi di prova, con esclusione del giudizio di cassazione.
Si tratta di un interesse da cui deriva la possibilità di esercizio di plurimi diritti o facoltà, in «una sfera di azione che tende a realizzare, mediante forme di “adesione” all’attività del pubblico ministero ovvero di “controllo” su di essa, una sorta di contributo all’esercizio dell’azione penale» (sentenza n. 353 del 1991).
Sotto il profilo dell’attività di supporto dell’azione del pubblico ministero deve ricordarsi che, perché questi possa chiedere l’emissione del decreto penale di condanna, è necessario che gli elementi raccolti nell’indagine preliminare risultino idonei non solo a sostenere un’accusa in giudizio ex art. 125 disp. att., cod. proc. pen., ma a provare con certezza la responsabilità dell’imputato. Inoltre, nella fase delle indagini, il querelante è, ovviamente, titolare di tutti i poteri della persona offesa e può fornire tutto il supporto che ritenga necessario all’azione del pubblico ministero (mediante l’indicazione di fonti di prova).
Quanto al controllo sull’esercizio dell’azione penale, deve evidenziarsi che la richiesta di decreto penale di condanna è una modalità di esercizio dell’azione penale e che, qualora la stessa venga accolta, il procedimento si conclude con l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato (querelato) con piena soddisfazione del corrispondente interesse del querelante.
Risulta evidente, pertanto, la differenza dai casi in cui il potere di opposizione riconosciuto alla persona offesa è diretto: a) a sollecitare l’esercizio dell’azione penale (opposizione all’archiviazione ex art. 409 cod. proc. pen.); b) ad impedire la definizione del giudizio con una pronuncia di improcedibilità per la tenuità del fatto (art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000).
Nel caso del decreto penale di condanna, infatti, la rappresentazione dei fatti esposta in querela ha trovato riscontro nell’attività d’indagine del pubblico ministero e il querelante ha visto accolta la sua richiesta di punizione del querelato.
In conclusione il querelante, quale persona offesa dal reato, non ha alcun interesse meritevole di tutela che giustifichi la facoltà di opporsi a che si proceda con il rito semplificato, fermo restando che qualora l’imputato proponga opposizione, questi è rimesso nei pieni poteri della persona offesa (o della parte civile) per le successive fasi del giudizio.
2.5.– Si è ipotizzato che il querelante, in quanto tale, abbia un interesse specifico e distinto da quello della persona offesa dal reato a che il procedimento non si concluda con il decreto penale di condanna, interesse identificato nella possibilità di rimettere la querela.
Anche sotto questo aspetto tale interesse non è idoneo a fornire una ratio adeguata alla norma censurata che rimane intrinsecamente contraddittoria rispetto alla mancata previsione di una analoga facoltà di opposizione alla definizione del processo mediante l’applicazione della pena su richiesta delle parti e che reca una rilevante menomazione al principio della ragionevole durata del processo.
La facoltà di opposizione del querelante, infatti, determina un ingiustificato allungamento dei tempi del processo e, soprattutto, ostacola la realizzazione dell’effetto deflattivo legato ai riti speciali di tipo premiale che, nelle intenzioni del legislatore, assume una particolare importanza per assicurare il funzionamento del processo “accusatorio” adottato con la riforma del codice di procedura penale.
È bensì vero che la giurisprudenza della Corte ha affermato più volte che il principio della ragionevole durata del processo va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali, il cui sacrificio non è sindacabile, ove frutto di scelte non prive di una valida ratio giustificativa (ex plurimis sentenza n. 159 del 2014, ordinanze n. 332 e n. 318 del 2008), ma in questo caso è proprio assente la suddetta “ratio”.
Secondo questa Corte al principio della ragionevole durata del processo enunciato al secondo comma dell’art. 111 Cost. «possono arrecare un vulnus solamente norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza (sentenza n. 148 del 2005)» (sentenze n. 63 e n. 56 del 2009).
La norma in esame, in definitiva, cagiona una lesione del principio della ragionevole durata del processo, senza che la stessa sia giustificata dalle esigenze di tutela del querelante o della persona offesa, le quali, in virtù di quanto sopra rilevato, devono ritenersi congruamente garantite.
2.7.– La censurata facoltà si pone, quindi, in violazione del canone di ragionevolezza e del principio di ragionevole durata del processo, costituendo un bilanciamento degli interessi in gioco non giustificabile neppure alla luce dell’ampia discrezionalità che la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto al legislatore nella conformazione degli istituti processuali (ex multis, sentenze n. 65 del 2014 e n. 216 del 2013; ordinanze n. 48 del 2014 e n. 190 del 2013).
Lo scrutinio di ragionevolezza, in questi ambiti, impone, infatti, alla Corte di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988). A questo scopo può essere utilizzato il test di proporzionalità, insieme con quello di ragionevolezza, che «richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (sentenza n. 1 del 2014).
In applicazione di tali principi, conclusivamente, deve osservarsi che, una volta ampliato il campo dei reati per i quali è possibile definire il procedimento con il decreto penale di condanna comprendendovi anche i reati procedibili a querela (con il dichiarato scopo di favorire sempre più il ricorso ai riti alternativi di tipo premiale per assicurare la deflazione del carico penale necessaria per l’effettivo funzionamento del rito accusatorio), l’attribuzione di una mera facoltà al querelante, consistente nell’opposizione alla definizione del procedimento mediante il decreto penale di condanna, introduce un evidente elemento di irrazionalità. Ciò in quanto: a) distingue irragionevolmente la posizione del querelante rispetto a quella della persona offesa dal reato per i reati perseguibili d’ufficio; b) non corrisponde ad alcun interesse meritevole di tutela del querelante stesso; c) reca un significativo vulnus all’esigenza di rapida definizione del processo; d) si pone in contrasto sistematico con le esigenze di deflazione proprie dei riti alternativi premiali; e) è intrinsecamente contraddittoria rispetto alla mancata previsione di una analoga facoltà di opposizione alla definizione del processo mediante l’applicazione della pena su richiesta delle parti, in quanto tale rito speciale può essere una modalità di definizione del giudizio nonostante l’esercizio, da parte del querelante, del suo potere interdittivo.
2.8.– Alla luce delle considerazioni che precedono, deve affermarsi che l’art. 459, comma 1, cod. proc. pen. nella parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l’emissione di decreto penale di condanna, viola gli artt. 3 e 111 Cost.
Resta assorbita la censura relativa alla violazione dell’art. 112 Cost.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 459, comma 1, cod. proc. pen. (come sostituito dall’art. 37, comma 1, della legge 16 dicembre 1999, n. 479 – Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), nella parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l’emissione di decreto penale di condanna.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 27 febbraio 2015.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella Paola MELATTI
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