L’ultimo decreto legge in tema di misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria, pone qualche problema di conformità alla Carta fondamentale nella parte relativa al beneficio della liberazione anticipata “speciale”. L’articolo 4 del predetto decreto legge così dispone:
<<1. Per un periodo di due anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, la detrazione di pena concessa con la liberazione anticipata prevista dall'articolo 54 della legge 26 luglio 1975, n. 354 e' pari a settantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata.
2. Ai condannati che, a decorrere dal 1° gennaio 2010, abbiano già usufruito della liberazione anticipata, e' riconosciuta per ogni singolo semestre la maggiore detrazione di trenta giorni, sempre che nel corso dell'esecuzione successivamente alla concessione del beneficio abbiano continuato a dare prova di partecipazione all'opera di rieducazione.
3. La detrazione prevista dal comma precedente si applica anche ai semestri di pena in corso di espiazione alla data dell'1° gennaio 2010.
4. Ai condannati per taluno dei delitti previsti dall'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 la liberazione anticipata può essere concessa nella misura di settantacinque giorni, a norma dei commi precedenti, soltanto nel caso in cui abbiano dato prova, nel periodo di detenzione, di un concreto recupero sociale, desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della personalità.
5. Le disposizioni di cui ai commi precedenti non si applicano ai condannati ammessi all'affidamento in prova e alla detenzione domiciliare, relativamente ai periodi trascorsi, in tutto o in parte, in esecuzione di tali misure alternative.>>.
In maniera chiara edevidente il governo ha inteso1 escludere dal beneficio premiale i condannati ammessi a misure alternative quali l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare.Una prima e semplice lettura di tale disposizione porta a far riferimento immediato all’art. 3 della Costituzione.
Innanzitutto, occorre fare alcune brevi considerazioni sul principio di uguaglianza costituzionalmente protetto. La Costituzione italiana, nel tutelare l’eguaglianza di tutti i cittadini, intende sul piano di un generale canone di coerenza dell’ordinamento normativo, un trattamento eguale di tutti coloro che si trovano in condizioni eguali. Il legislatore, cioè, non può nell’ambito del potere discrezionale operare delle scelte arbitrarie che discriminino i cittadini in situazioni uguali o assimilabili. La Corte Costituzionale, nell’indicare i confini entro cui può discrezionalmente muoversi il legislatore, ha precisato che si può disciplinare in modo eguale le situazioni eguali ed in modo diverso quelle differenti sempre che non contrastino con logiche e razionali giustificazioni .2
E’ innegabile, quindi, che il legislatore nel disciplinare determinate situazioni deve attenersi a criteri di logica e razionalità. Nella fattispecie, a noi pare che la disposizione in commento non sia caratterizzata da criteri di logica e ragionevolezza.
L’art. 54 dell’Ordinamento penitenziario, come noto, al 1° comma dispone: “Al condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione é concessa, quale riconoscimento di tale partecipazione, e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata. A tal fine é valutato anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare o di detenzione domiciliare.”
Se la ragione che giustifica il nuovo provvedimento è quella “di restituire ai soggetti reclusi la possibilità di un pieno esercizio dei diritti fondamentali e di affrontare risolutivamente il fenomeno dell’ormai endemico sovraffollamento carcerario”, non è dato comprendere perché sono stati esclusi dal beneficio i soggetti sottoposti alle misure alternative dell’affidamento in prova o della detenzione domiciliare. Non vi è, invero, alcuna differenza tra il condannato in regime carcerario ed il condannato sottoposto ad una delle due misure alternative.
Non può non rilevarsi quanto più volte ribadito, in materia, dalla Corte Costituzionale: la detenzione domiciliare non costituisce una misura alternativa alla pena ma semplicemente una pena <<alternativa alla detenzione o, se si vuole, una modalità di esecuzione della pena, caratterizzata - al pari dell'affidamento in prova - dalla soggezione a prescrizioni limitative della libertà, sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza e con l'intervento del servizio sociale, il tutto al fine di garantire le finalità rieducative della pena stessa, senza contare che la misura della detenzione domiciliare è dalla Corte di cassazione ritenuta di contenuto meno favorevole al condannato rispetto all'affidamento in prova al servizio sociale>>.3
Principio che già era stato espresso dalla Consulta in precedenti occasioni; con specifico riguardo all'affidamento in prova al servizio sociale, è stato precisato che tale misura <<costituisce non una misura alternativa alla pena, ma una pena essa stessa, alternativa alla detenzione, o, se si vuole, una modalità di esecuzione della pena, nel senso che viene sostituito a quello in istituto un trattamento fuori dell'istituto, perché ritenuto più idoneo, sulla base dell'osservazione, al raggiungimento delle finalità di prevenzione e di emenda, proprie della pena, e ciò in quanto il periodo trascorso in affidamento (nell'ambito della durata complessiva, che è e rimane unica, della pena inflitta) comporta per il condannato l'osservanza di prescrizioni restrittive della sua libertà e insieme la soggezione, pur se in un quadro di assistenza, ai costanti controlli del servizio sociale nonché alla vigilanza del magistrato di sorveglianza>>.4
Se il Giudice delle leggi, quindi, non ha differenziato la posizione del condannato che sta espiando la pena in carcere da quella del condannato che la sta espiando con una misura alternativa, è di tutta evidenza la violazione del precetto costituzionale contenuto nell’art. 3. Non è riscontrabile alcun fine (meno che mai si coglie la necessità di uniformarsi a qualche deroga costituzionale) storico-politico oppure sociale per una tale netta disparità di trattamento.
La disparità di trattamento, dunque, si coglie a piene mani poiché a parità di periodo (ma anche senza parità) di esecuzione di pena da scontare, il condannato detenuto in carcere finirebbe di scontare la pena molto tempo prima rispetto al condannato ammesso alla detenzione domiciliare o all’affidamento in prova. Infine, la precisazione contenuta nell’articolo in esame (ai condannati per taluno dei delitti previsti dall'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 la liberazione anticipata può essere concessa nella misura di settantacinque giorni, a norma dei commi precedenti, soltanto nel caso in cui abbiano dato prova, nel periodo di detenzione, di un concreto recupero sociale, desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della personalità) appare una “superfetazione” che oltre ad essere irrazionale comporta gli stessi problemi di disparità . Sul punto basta osservare che i condannati per taluno dei delitti previsti dall'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 spesso sono ristretti in penitenziari che non offrono alcuna possibilità di attività rieducativa senza dire dei condannati sottoposti al regime del carcere duro.
L’opzione legislativa, conclusivamente, è fortemente sospetta di incostituzionalità e si pone in netto contrasto col pari principio sancito nell’art. 20 della Carta dei Diritti Fondamentale dell'Unione Europea5,
In una conferenza stampa, tenutasi il 7 febbraio del 1989, a proposito del principio dell’uguaglianza, l’allora Presidente della Corte Costituzionale Francesco SaJa, ebbe a dichiarare: <<La Corte ha fatto larga applicazione del principio in moltissime decisioni, così da eliminare in vari settori dell’ordinamento norme ingiustificatamente discriminatorie, relative a situazioni eguali ovvero omogenee o, per converso, contenenti una disciplina uniforme per fattispecie diverse. Il sindacato della Corte inoltre, come già è stato ricordato, si è esteso fino a controllare l’intrinseca ragionevolezza delle scelte legislative, anche indipendentemente dalla comparazione di singole norme.
Proprio perché la Corte ha utilizzato il principio di eguaglianza con profonda sensibilità e responsabile consapevolezza, l’enunciazione della pari dignità dei cittadini e della loro eguaglianza davanti alla legge è diventata una realtà viva ed operante, con un’incidenza reale sempre maggiore. I numerosi interventi giurisprudenziali, nel pieno rispetto delle competenze discrezionali del legislatore, hanno notevolmente contribuito a realizzare una razionale coerenza del nostro ordinamento democratico>>.
L’auspicio è che in sede di conversione venga eliminata l’irragionevole esclusione.
Giuseppe Dacquì, gennaio 2014
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