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 Monica A. Senor, La videoripresa effettuata in violazione del codice privacy è utilizzabile come prova nel processo penale?

Nota a Cassazione, II sezione penale, 7 giugno - 3 luglio 2013, n. 28554

(qui il testo della sentenza annotata)

Nella sentenza 28554/2013 la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione ha enunciato due principi:
  1. le videoriprese non comunicative realizzate da privati cittadini nell’ambito di spazi domiciliari vanno acquisite nel processo penale come prova documentale;
  2. detta prova è utilizzabile anche se la ripresa è stata effettuata in violazione delle norme previste dal codice privacy a tutela dei dati personali.
 
Il primo principio discende, asseritamente, dalla famosa sentenza Prisco (Cass., Sez. Un., 26795/2006), in cui la Suprema Corte ha affermato che le videoriprese non comunicative effettuate al di fuori di un procedimento penale sono acquisibili come prova documentale ex art.234 c.p.p., mentre quelle eseguite nel corso delle indagini, poiché di fatto documentano un’attività investigativa (al pari, si dice, delle operazioni di appostamento e pedinamento), sono acquisibili in giudizio come prova atipica ai sensi dell’art.189 c.p.p.
 
Il punto è che la Cassazione enunciava tale principio con espresso riferimento alle riprese eseguite in luoghi pubblici o aperti al pubblico. Diversa, ovviamente, è la situazione nel caso in cui le riprese siano state realizzate in luoghi di privata dimora o in luoghi in cui una persona possa vantare una legittima aspettativa di privacy (ad es. una toilette pubblica): in entrambe le ipotesi, infatti, le norme costituzionali poste a tutela del domicilio (art.14) e della riservatezza (art.2) impongono limitazioni all’esercizio di un eventuale contrapposto diritto altrui, pubblico o privato che sia.
 
Ed infatti, se da un lato le Sezioni Unite del 2006, richiamandosi alla sentenza n.135/2002 della Corte Costituzionale, precisavano che la normativa sulle intercettazioni non potesse estendersi alla captazione di immagini non comunicative neppure in caso di videoriprese effettuate di luoghi tutelati dall’art.14 Cost. (per difetto di un espresso dettato legislativo sul punto), tuttavia, d’altro lato, affermavano che: “… se il sistema processuale deve avere una sua coerenza risulta difficile accettare l’idea che una violazione del domicilio che la legge processuale non prevede…possa legittimare la produzione di materiale di valore probatorio e che inoltre per le riprese di comportamenti non comunicativi possano valere regole meno garantiste di quelle applicabili alle riprese di comportamenti comunicativi”.
 
Per dipanare la matassa, la Cassazione forniva pertanto la seguente interpretazione de iure condito: nel caso di videoriprese endo-processuali effettuate in luoghi di privata dimora il Giudicante, facendo corretta applicazione dell’art.189 c.p.p., non deve ammettere la prova in quanto vietata dalla legge (art.190 c.p.p.), mentre nell’ipotesi di videoriprese extra-processuali la prova documentale deve essere dichiarata inutilizzabile in quanto illegittimamente acquisita ai sensi dell’art.191 c.p.p.
Quest’ultimo assunto si basa, a sua volta, su di un’interpretazione estensiva dell’art.191 c.p.p. così come delineata dalla sentenza n.34 del 1973 in cui la Corte Costituzionale stabilì che: “le attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito”. Si tratta della prima enucleazione del principio delle cd. prove incostituzionali, principio poi ripreso ed elaborato, in materia penale, dalla Cassazione nelle pronunce a Sezioni Unite n.3/1996 e n.28/1998, le quali hanno sancito che il disposto dell’art.191 c.p.p., nella parte in cui prevede che le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate, debba essere interpretato nel senso che la locuzione “divieti stabiliti dalla legge” comprenda non solo i divieti stabiliti dalle norme processuali, ma anche quelli rinvenibili in altri settori dell’ordinamento, in primo luogo nella Costituzione.
 
Tornando alla sentenza in commento, è evidente che se la Suprema Corte avesse fatto buona applicazione delle norme coinvolte e delle nobili interpretazioni ad esse date dal Giudice delle leggi e dalla giurisprudenza plenaria di legittimità, non avrebbe potuto dichiarare la prova documentale, rappresentata da una videoripresa di comportamenti non comunicativi, utilizzabile nonostante la captazione delle immagini fosse stata effettuata in violazione delle norme previste dal codice privacy.
A prescindere dal concetto di privata dimora, infatti, è il diritto alla protezione dei dati personali che viene in rilievo.
Come noto, si tratta di un diritto costituzionale, riconducibile ai diritti inviolabili dell’uomo tutelati dall’art.2 della Costituzione ed è espressamente previsto come diritto fondamentale della persona dall’art.8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Non solo. L’art.2 del codice privacy prescrive che qualsiasi trattamento di dati personali debba svolgersi nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali.

Pertanto, una corretta applicazione del combinato disposto degli artt.191, 234 c.p.p., 1 e 2 codice privacy e 2 Cost., non avrebbe potuto, a parere di chi scrive, che condurre ad opposta conclusione: la videoripresa eseguita senza il rispetto le norme previste dal codice privacy a tutela dei dati personali di un soggetto terzo costituisce, infatti, una violazione di un diritto fondamentale dell’uomo costituzionalmente protetto e dunque rende la prova documentale, illegittimamente acquisita, inutilizzabile processualmente ai sensi dell’art.191 c.p.p. 

Monica A. Senor, luglio 2013
(riprodunzione riservata)
 
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