L'inutilizzabilita' degli atti d'indagine prevista dall'art. 407, comma 3, c.p.p. per il caso in cui tali atti siano stati effettuati dopo la scadenza dei prescritti termini, non essendo equiparabile alla inutilizzabilita' delle prove vietate dalla legge di cui all'art. 191 c.p.p., non e' rilevabile d'ufficio ma solo su eccezione di parte. Ne consegue che l'imputato, allorquando chieda di definire il proceso con rito abbreviato, è con tale richiesta che deve eccepire l'inutilizzabilità in questione, allo scopo di definire nel suo insieme gli elementi utilizzabili ai fini della decisione e orientare il giudice ad esercitare, e il pubblico ministero a sollecitare, i poteri integrativi di cui all'art. 441 V comma cpp. In difetto di una formale e tempestiva eccezione, anche gli atti suddetti sono utilizzabili ai fini della decisione, giacché a tal fine il giudice utilizza "gli atti contenuti nel fascicolo di cui all'art. 416 II comma cpp"
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SANSONE Luigi - Presidente Dott. ROMANO Francesco - Consigliere Dott. AMBROSINI Giangiulio - Consigliere Dott. CORTESE Arturo - Consigliere Dott. CARCANO Domenico - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da: 1. B.D, nato a ... il ...; 2. M.G., nato a ... il ...; 3. M.A., nato a ... il ...; 4. P.A., nato a ... il ...; 5. S.D., nato a ... il ...; contro la sentenza 29 gennaio 2004 della Corte d'Appello di Reggio Calabria. Sentita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Domenico Carcano; Udito il Pubblico Ministero, in persona del Dott. FAVALLI Mario, Sostituto Procuratore Generale, che ha concluso per l'annullamento con rinvio dell'impugnata sentenza nei confronti di M.G. e M.A., qualificati i reati loro ascritti come favoreggiamento personale; annullamento con rinvio nei confronti di P.A. limitatamente all'aggravante di cui all'art. 628 n 3 c.p.; rigetto nel resto. Uditi i difensori Avv.to B.M., per S.D., M.A. e B.D.; Avv.to A.M. e A.S. per M.G.; Avv.to V.N.D. e M.B. per P.A. che hanno concluso per l'annullamento della sentenza impugnata. RITENUTO IN FATTO
1.- B.D., M.G., M.A., P.A. e S.D. propongono ricorso contro la sentenza 29 gennaio 2004 della Corte d'Appello di Reggio Calabria che, in parziale riforma della decisione 30 settembre 2002 resa all'esito del giudizio abbreviato dal giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Reggio Calabria, confermava la responsabilita' di M.G. e M.A. per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, di B. e S. per il delitto di favoreggiamento personale aggravato ex art.7 d.l. n. 157 del 1991 e di P. per il delitto di estorsione aggravata della somma di lire trentamilioni e di materiale edile ai danni dell'imprenditore G.M..
1.1.- B.D. e' stato dichiarato responsabile del delitto di favoreggiamento personale aggravato ex art. 7 d.l. n. 157 del 1991, cosi' modificata dal giudice di primo grado l'imputazione di partecipazione ad associazione mafiosa, in quanto le risultanze processuali fornivano la prova che B. aveva favorito la latitanza di "P.P.", impedendo l'individuazione della porta d'accesso del luogo ove P. era nascosto. In particolare, B. avrebbe collocato un autocarro, intestato alla scuola guida "B.", davanti alla porta d'ingresso del luogo in cui si nascondeva Piromalli con l'evidente finalita' di impedire il controllo e gli interventi da parte degli organi polizia. Si pone in rilievo che le indagini di polizia giudiziaria forniscono riscontro alle dichiarazioni di S. G., il quale aveva riferito della appartenenza di B.D. alla "cosca capeggiata da P." e della sua presenza nel luogo ove quest'ultimo si nascondeva. La "vicinanza" di B. al sodalizio criminoso, ad avviso dei giudici di merito, trovava anche conferma nella accertata presenza dell'aula della Corte d'assise di Palmi dove celebrava il processo a carico di numerosi esponenti del gruppo mafioso, tra i quali i fratelli di G. P.
1.2.- M.G. e' stato dichiarato responsabile del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, capeggiata da "P.P.". E' S.G. ad indicare M.G. quale appartenente al sodalizio criminoso subentrato a S.M. nella gestione contabile dell'impianto di distribuzione Agip. Riscontro alle dichiarazioni di G., per i giudici di merito, e' fornito dagli atti di altro procedimento nel corso del quale sono stati ricostruiti i rapporti economici facenti capo ai P. e in particolare quelli relativi alla gestione della societa' "B. P." e dei due distributori di benzina Agip ed Esso. Dalla documentazione bancaria dei conti della predetta societa' e di quelli intestati ad A. P. e G. P. - si sottolinea nella sentenza impugnata - sarebbe emersa la figura di G. M., quale delegato a gestire le attivita' dei cugini P. riferite ai due distributori di benzina. Anche la gestione del conto corrente intestato a C. P. e i rapporti con tale M.D.T., riguardanti la gestione di certificati di deposito al portatore dei quali alcuni in valuta estera, forniva elementi in equivoci - secondo i giudici di merito - dell'attivita' complessivamente svolta da G.M. in favore del gruppo P. per la "ripulitura del danaro illecito". La Corte d'Appello ha disatteso le censure della difesa per la quale G. non avrebbe potuto essere ritenuto attendibile, avendo in precedenza escluso il coinvolgimento di M. nel sodalizio criminoso. Nell'argomentare in ordine alla infondatezza della censura, i giudici d'appello richiamano a riscontro le dichiarazioni di tale F. M., compagna di G. C., amico di altro imprenditore G. M., la quale definisce M. "contabile della cosca, faccia pulita, con funzioni di prestanome". Il coinvolgimento di M. nella gestione dei conti correnti accesi dai P., pongono in risalto i giudici di merito, trova giustificazione nei rapporti di parentela con i predetti P.: M. e' nipote di "P." P. per avere sposato la figlia di "N." P.
1.3.- M.A., anch'egli dichiarato responsabile di partecipazione ad associazione mafiosa, e' attinto, per la Corte d'Appello, da molteplici elementi dai quali, come ampiamente descritto dal giudice di primo grado, emerge il diretto coinvolgimento nella cosca capeggiata dai P.. Dettagliate e specifiche le dichiarazioni rese da S. G.che aveva definito M. braccio destro di "P. P." e aveva descritto i suoi costanti rapporti di fiducia con P. P. nel periodo della sua latitanza e la sua liberta' d'accesso nel luogo in cui P. era nascosto. Ad avviso dei giudici d'appello, riscontro a tali chiamate in correita' sarebbe fornito dagli accertamenti dei Carabinieri, sviluppati in base alla documentazione rinvenuta "nel covo di P." e relativa ai possedimenti immobiliari della "famiglia". I carabinieri avevano trovato M. all'interno di un fondo appartenente ai P., elemento che dava riscontro alle dichiarazioni di S. G. sul ruolo e sulla appartenenza di M. al sodalizio criminoso.
1.4.- P.A. e', in riforma della sentenza di primo grado, assolto dai delitti di partecipazione ad associazione mafiosa e di estorsione - come enunciati nei capi A, A2 e A5 del capo di imputazione - in quanto gli unici elementi sarebbero rappresentati dalle dichiarazioni di S.G., prive di riscontro sull'attivita' dirigenziale di P. I due episodi di estorsione ai danni di imprese della zona di Gioia Tauro sono stati ritenuti privi di prova in ordine al coinvolgimento di P.A., che il giudice di primo grado avrebbe ricondotto al ruolo di primo piano svolto da P. all'interno del sodalizio criminoso. A diversa conclusione giunge la Corte d'Appello per altro episodio estorsivo, commesso anch'esso ai danni di tale M. al pari di altro analogo episodio dal quale P. e' stato assolto per insussistenza del fatto. Gli elementi sui quali il giudice d'appello afferma la responsabilita' di P. sarebbero rappresentati dalle dichiarazioni della persona offesa che farebbe riferimento alla richiesta di una somma di danaro da parte di tale R., dalle intercettazioni trascritte nella sentenza di primo grado, e alle quali il giudice d'appello si riporta, che danno conto della consegna del materiale prelevato. Inoltre, il giudice d'appello indica, quale ulteriore elemento di prova, le dichiarazioni di F.M.. La Corte d'Appello ha, anzitutto, ritenuto generica e indimostrata, la eccezione di inutilizzabilita' delle dichiarazioni di F.M. per essere state assunte, in violazione dell'art. 407, comma 2, c.p.p., dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari. F.M. indica P.A. presente alla consegna del danaro in alcune occasioni nelle quali in compagnia di C. si recava al distributore Agip. Si parla di uno specifico episodio in cui fu consegnata la somma di un milione e trecentomila da parte di C., che la M. richiese a tale M. al quale il C. si rivolgeva per avere in prestito somme di danaro. Conclusivamente, in base alla convergenti dichiarazioni di M. e M., il giudice d'appello ritiene responsabile P.A. di estorsione aggravata, rilevando la inidoneita' dell'impreciso ricordo di Massara in ordine alla collocazione temporale dei singoli episodi.
1.5.- S.D. e' stato anch'egli, al pari di B.D., dichiarato responsabile di favoreggiamento reale, aggravato ex art.7 d.l. n. 152 del 1991 per avere ostacolato le ricerche del latitante P. P. La Corte d'Appello ha disatteso le censure mosse alla decisione del primo giudice e ha fatto proprie le argomentazioni poste a suo fondamento. Le dichiarazioni di S.G., che ha definito il ruolo svolto da S. e i rapporti con P. P. nel periodo della latitanza, hanno trovato riscontro negli accertamenti operati nel corso delle indagini circa la proprieta' del cortile all'interno del quale vi era la porta d'accesso del locale ove trovava ospitalita' il latitante "P. P.". In tale cortile erano parcheggiati veicoli di proprieta' della famiglia S. per occultare la porta d'ingresso del locale che era dotato di energia elettrica, grazie all'"apporto dei S.".
2.- Con un primo motivo di ricorso, B.D. deduce la violazione di legge e il difetto di motivazione. Ad avviso del ricorrente, le dichiarazioni di S.G. non sono tali da fornire la prova per fare ritenere B.D. vicino alla "cosca P.". Ne' riscontro ad esse potrebbe trarsi dalla presenza di un autocarro della scuola "guida B." parcheggiato innanzi alla porta d'ingresso del locale ove era nascosto "P. P.", in quanto l'autocarro non era di proprieta' di B.D., bensi' di B.R. titolare della scuola giuda. B.D. svolgeva tutt'altro lavoro, quale operaio alle dipendente della societa' M. Si contesta che l'autocarro avesse potuto occultare la porta d'ingresso del locale in questione. Riscontro non avrebbe potuto essere fornito dalla presenza di B.D. nell'aula ove si celebrava il processo a carico di alcuni appartenenti alla cosca P.. La sua presenza, infatti, avrebbe avuto tutt'altra ragione e sarebbe lo stesso B. a fornire le proprie generalita' al servizio di vigilanza, quando su espressa richiesta dei famigliari fece recapitare due panini ai fratelli P., entrambi poi assolti. Tali elementi non avrebbero potuto ex art.192 c.p. fornire un quadro complessivo idoneo a fondare la responsabilita' di B.D. per il delitto di favoreggiamento.
2.1.- Con un secondo motivo, B.D. deduce la violazione di legge e il difetto di motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche. La Corte d'Appello avrebbe ingiustificatamente rigettato le questioni poste a fondamento del diniego delle attenuanti generiche. Non sarebbe stato dato conto dei criteri stabiliti dall'art. 133 c.p., quali parametri prescritti per la concessione delle attenuanti de quibus.
3. - Per M.G., con due distinti ricorsi, l'uno dell'Avv.to A.M. e, l'altro, dell'avv.to A. S., si deduce il difetto di motivazioni sotto il profilo della mancanza e illogicita' manifesta per inosservanza dell'art. 192 c.p.p. e dell'art. 416 bis c.p.. Si articolano molteplici punti critici della motivazione. Una prima questione e' quella di non avere tenuto in considerazione la inattendibilita' delle dichiarazioni di S. G., che avrebbe sempre escluso ogni coinvolgimento di M. nell'attivita' del sodalizio criminoso e poi, a distanza di due anni dal primo interrogatorio, avrebbe indicato elementi a carco di M.. Nonostante vi fosse stata una articolata censura, il giudice d'appello avrebbe evasivamente risposto, senza fornire specifici argomenti rispetto alla diversita' di dichiarazioni. Altro punto sul quale si rinnovano le censure mosse alla sentenza di primo grado e' riferito agli accertamenti conseguenti alle dichiarazioni di F. M. circa la titolarita' di un conto corrente presso il Credito Emiliano dell'Agenzia di Taurianova. Gli accertamenti di polizia, come riportati in una nota del Commissariato della Polizia di Stato, avrebbero riferito di un conto intestato a tale M. G., nato in ... il ..., persona diversa rispetto all'odierno ricorrente M. G. nato a ... il ... Nonostante la questione fosse stata posta all'attenzione del giudice d'appello, la risposta sarebbe stata analoga a quella fornita dal giudice di primo grado, reiterando in tal modo l'errore di persona. Altra deduzione e' quella di non avere tenuto in considerazione il decreto n. 47/03 della Corte d'Appello di Reggio Calabria, sezione misure di prevenzione, dal quale sarebbe emersa l'estraneita' dei conti economici riguardanti i due distributori di benzina dei P. dall'asserita attivita' di riciclaggio. Nonostante il decreto fosse stato prodotto dalla difesa nel giudizio d'appello, nessun argomento e' stato sviluppato dalla Corte territoriale in ordine agli accertamenti in esso contenuti circa la mancanza di prove che potessero ricondurre la attivita' dei due distributori nell'ambito di fenomeni estorsivi e di transazioni illecite. Si deduce la violazione dell'art. 238 bis c.p.p., per avere tratto dagli atti processuali relativi ad altro procedimento argomenti di prova posti a fondamento della dichiarazione di responsabilita' di M., senza provvedere alla ricerca e individuazione di riscontri diversi dagli accertamenti svolti nel procedimento a quo. I giudici di merito avrebbero considerato accertate le circostanze riferite dal teste V. in un diverso procedimento, dichiarazioni che avrebbero dovuto invece essere verificate e ripercorse nella loro consistenza nel rispetto delle regole probatorio.
3.1.- Con un secondo motivo, entrambi i ricorsi deducono la violazione di legge e il difetto di motivazione in ordine alla mancata applicazione dei criteri stabiliti dall'art. 133 c.p. Non vi e' stata alcuna risposta a ciascuno dei rilievi difensivi articolati con i motivi d'appello circa la violazione dei parametri prescritti per l'applicazione delle attenuanti de quibus, apoditticamente negate dai giudici di merito.
3.2.- Con un terzo motivo, il ricorso proposto dall'avvocato S. deduce la violazione di legge e il difetto di motivazione in ordine all'applicazione dell'aggravante di cui al quarto comma dell'art. 416 bis c.p.p.. I giudici di merito avrebbero soltanto presuntivamente e in base ad un fatto notorio ritenuto la sussistenza dell'aggravante in parola, senza sviluppare argomenti e indicare circostanze in proposito.
4.- M.A., con un primo motivo, deduce la violazione di legge sostanziale e processuale in relazione all'art. 416 bis c.p. e all'art. 192 c.p.p. e il difetto di motivazione, sotto il profilo della mancanza e della manifesta illogicita'. Ad avviso del ricorrente, l'unico elemento posto a fondamento della dichiarazione di responsabilita' per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa sarebbe rappresentato dalle dichiarazioni di S.G. che avrebbe descritto i suoi intensi rapporti con "P." P. all'epoca in cui quest'ultimo era latitante. Non vi sarebbero, oltre a tali generiche circostanze riferite da S. G., elementi di riscontro che possano giustificare la pronuncia di condanna. Elemento di riscontro non potrebbe essere la circostanza che M.fu trovato, con altri operai, in un fondo in localita' Valleamena appartenente a P. in quanto la presenza si giustifica con il rilievo che Messineo, oltre ad essere operaio della S.I.L.O., era un bracciante agricolo. Il ricorrente deduce la violazione dell'art. 192, comma 3, c.p.p., in quanto il ragionamento probatorio sviluppato dai giudici di merito non rispetterebbe i criteri di valutazione della prova. Il giudice d'appello non avrebbe reso risposta alcuna alle questioni poste con l'atto d'appello e, in particolare, non avrebbe tenuto conto degli elementi che avrebbero potuto fornire una spiegazione alle notizie riferite da G. sui rapporti tra P. e M.. Non vi sarebbero stati elementi probatori che potessero attribuire un definito ruolo di partecipe a M. La Corte d'Appello non avrebbe reso risposta a quanto posto con i motivi d'appello circa la riconducibilita' della condotta di M. ad una minore ipotesi di favoreggiamento.
4.1.- Con un secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione di legge e il difetto di motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche. Le censure dedotte con l'atto d'appello riguardavano la violazione dei criteri richiesti dall'art. 133 c.p. e la mancata considerazioni di elementi su cui fondare un giudizio di maggiore adeguatezza della pena.
5.- P.A., con un primo motivo deduce la violazione di legge e il difetto di motivazione in relazione agli artt. 191, 407, comma 3, c.p.p. con riferimento alle dichiarazioni rese da F.M. in data 16 settembre 2001,17 settembre 2001, 9 ottobre 2001, 10 ottobre 2001 e 15 ottobre 2001. Le dichiarazioni rese da F.M. poste a fondamento della condanna pronunciata all'esito del giudizio abbreviato sarebbero inutilizzabili perche' acquisite dal pubblico ministero dopo la scadenza del termine di durata delle indagini preliminari. P.A., deduce la difesa, risulta iscritto nel registro degli indagati il 29 giugno 1999 e le prime dichiarazioni rese da F.M. risultano essere quelle del 16 settembre 2001 e, pertanto, acquisite oltre il termine massimo di due anni di durata delle indagini. La questione e' stata dedotta al giudice d'appello che ha ritenuto generica e indimostrata, senza fornire alcuna spiegazione sotto il profilo giuridico e fattuale di tale conclusione. Il ricorrente pone in risalto che le dichiarazioni de quibus rappresentano un elemento di prova che ha svolto un ruolo decisivo ai fini della pronuncia di condanna e la loro eliminazione ex art. 407, comma 2, c.p.p. dal quadro probatorio non potrebbe che determinare l'annullamento della sentenza impugnata.
5.2. - Con un secondo motivo, il ricorrente deduce il difetto di motivazione, anche per violazione dei criteri stabiliti dal terzo comma dell'art. 192 c.p.p., in relazione al delitto di estorsione aggravata. Al riguardo, articola la censura con specifico riferimento a ciascuno dei due episodi racchiusi nella imputazione per la quale vi e' stata da parte dei giudici d'appello conferma della responsabilita'. Ad avviso del ricorrente, la parziale riforma della sentenza di primo grado da parte dei giudici d'appello, con l'esclusione del reato associativo e di altri episodi di estorsione e l'affermazione di responsabilita' per la sola estorsione enunciata al capo A1 ai danni di G.M., rende la pronuncia resa dalla Corte d'Appello priva di quella complessiva coerenza sulla quale si fondava il ragionamento probatorio sviluppato dal giudice di primo grado. Il giudice di primo grado avrebbe proceduto ad una simultanea trattazione argomentativa delle imputazioni ascritte a A.P. della quale il giudice d'appello non ha tenuto conto nel giudizio di responsabilita' per l'unica ipotesi di estorsione. La Corte d'Appello, oltre a considerare priva di riscontro la dichiarazione di S.G., avrebbe degradato tale elemento a mera opinione personale del dichiarante e avrebbe ritenuto indimostrato il coinvolgimento di A.P. nell'attivita' estorsiva realizzata dagli stessi sodali, anche se fosse dimostrata una posizione di vertice di P. nell'associazione criminosa. In tal modo la Corte territoriale avrebbe disarticolato il ragionamento probatorio sviluppato dal primo giudice, senza pero' giungere ad una conclusione coerente rispetto anche alla residua ipotesi estorsiva per la quale, invece, ha confermato la pronuncia di condanna. L'assoluzione dal delitto associativo e dagli altri episodi di estorsione avrebbe richiesto un autonomo ragionamento probatorio rispetto alla estorsione ai danni di M., tenuto conto che ciascuna delle imputazionI avrebbe avuto un suo comune riferimento nel ruolo di capo rivestito da P.. Il ricorrente rileva che l'episodio estorsivo per il quale e' stata confermata la dichiarazione di responsabilita', riguarda non soltanto il versamento della somma di trenta milioni richiesta a M. da C.R. e consegnata ad un tale Pasquale ed altro dipendente chiamato "il muto", ma anche la consegna di materiale edile. In ordine a tale ulteriore episodio, il giudice d'appello si limiterebbe ad mero rinvio al contenuto di conversazioni intercettate e riportate nella sentenza di primo grado, senza fornire alcun chiarimento circa le modalita' esecutive dei fatti e il quadro probatorio che individuerebbe in A.P. l'autore anche di tale episodio estorsivo. Ad avviso del ricorrente, nella sentenza di primo grado non si farebbe riferimento alcuno a P. e si precisa che a richiedere il materiale edile a M. sarebbero stati due soggetti ben individuati. Il ragionamento sviluppato dal primo giudice troverebbe fondamento nelle risultanze delle intercettazioni telefoniche dalle quali emerge che il materiale in questione sarebbe stato prelevato da tale F. C., senza il minimo riferimento ad A.P. Il ruolo primario cui piu' volte si fa riferimento nella sentenza di primo grado, non potrebbe piu' essere posto a fondamento dell'affermazione dei reati-fine una volta esclusa la responsabilita' per il reato associativo. La sentenza del giudice d'appello, pertanto, sarebbe del tutto priva di motivazione perche' fondata su di un rinvio alla sentenza di primo grado la cui motivazione era sviluppata nella riconducibilita' a P. di episodi commessi da altri sodali. Quanto alla consegna dei trenta milioni di lire, il ricorrente rileva che il rinvio alla sentenza di primo grado non e' idoneo a fornire una giustificazione autonoma della responsabilita' per tale reato, una volta pronunciata l'assoluzione per tutti gli altri e, in particolare per il delitto associativo. Si deduce che le dichiarazioni di M., come si sarebbe posto in risalto con l'atto di appello, non sono coincidenti con quelle di C. il quale avrebbe escluso di avere portato danaro a persone del distributore di carburante di Gioia Tauro. Il giudice d'appello non avrebbe risposto alla specifica deduzione con la quale si poneva in risalto che M. non avrebbe mai fatto riferimento a P. e che l'episodio enunciato al capo A1, per il quale il giudice d'appello ha confermato la responsabilita', si sarebbe verificato in un periodo in cui A.P. sarebbe stato detenuto per altro. Il complessivo ragionamento probatorio sviluppato dalla Corte d'Appello sarebbe del tutto in contrasto con le regole di valutazione della prova imposte dall'art. 192, commi 2 e 3, c.p.p. perche', oltre ad essere sfornito della capacita' indiziaria, sarebbe inidoneo ad essere riscontro ad altri elementi di prova.
5.3. - Con un terzo motivo, si deduce il difetto di motivazione in relazione agli artt. 629, comma terzo, e 628 comma terzo n. 3 c.p.. Nonostante con l'atto d'appello fosse stata dedotta l'insussistenza dell'aggravante de qua, il giudice d'appello non avrebbe reso alcuna risposta al riguardo.
5.4.- Con un quarto motivo si deduce il difetto di motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche. La formula adoperata dal giudice d'appello non rispetterebbe i parametri normativi e non avrebbe considerato le deduzioni poste con l'atto d'appello.
6.- S.D., deduce con un primo motivo la violazione di legge e il difetto di motivazione in riferimento agli artt. 192, 546, comma 1, c.p.p. e 378 c.p.. Punti critici del discorso argomentativo sarebbero anzitutto rappresentati dalla incompleta considerazione delle dichiarazioni di S.G., che la Corte d'Appello giudica attendibile rinviando alle valutazioni espresse nella sentenza di primo grado, e di quelle rese da S. in ordine ai pessimi rapporti esistenti tra i due. Altro punto critico della motivazione riguarda l'utilizzo del cortile e il parcheggio di mezzi innanzi alla porta d'ingresso del luogo ove era nascosto P. La Corte territoriale non avrebbe tenuto conto che il cortile apparteneva alla famiglia S. e che S.D., oltre a non essere proprietario del cortile e a non avere la disponibilita' dell'auto parcheggiate, da tempo si era trasferito nella dimora coniugale distante da quella paterna. La giustificazione della Corte d'appello sarebbe del tutto illogica e priva di fondamento probatorio, per essere ancorata soltanto alle dichiarazioni di S.G.. Il giudice d'appello non avrebbe riferito la propria giustificazione agli elementi richiesti per la configurazione del delitto di favoreggiamento personale.
6.1.- Con un secondo motivo, si deduce la violazione di legge e il difetto di motivazione in ordine alla mancata applicazione delle attenuanti generiche. Il giudice d'appello non avrebbe tenuto conto delle censure mosse con i motivi d'appello e in particolare della violazione dei parametri previsti dall'art. 133 c.p..
7 - Tale e' la sintesi ex art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p. dei termini delle questioni poste.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- Il ricorso di M.A. e' fondato. Si e' gia' esposto in narrativa che M.A., dichiarato responsabile di partecipazione ad associazione mafiosa, e' attinto, per la Corte d'Appello, da elementi univoci dai quali, come descritto dal giudice di primo grado, emerge il diretto coinvolgimento nella cosca capeggiata dai P. Ad avviso della Corte territoriale, dettagliate e specifiche sono le dichiarazioni rese da S.G. che aveva definito M. braccio destro di "P. P." e aveva descritto i suoi costanti rapporti di fiducia con Piromalli nel periodo della sua latitanza e la sua liberta' d'accesso nel luogo ove quest'ultimo era nascosto. Riscontro a tali chiamate in correita' sarebbe fornito dagli accertamenti dei Carabinieri, sviluppati in base alla documentazione rinvenuta "nel covo di P." e relativa ai possedimenti immobiliari della "famiglia". I carabinieri avevano trovato M. all'interno di un fondo appartenente ai P.i, elemento che dava riscontro alle dichiarazioni di S.G. sul ruolo e sulla appartenenza di M. al sodalizio criminoso. Tale ultima circostanza, sebbene caratterizzata da alto significato indiziante quanto ai rapporti con "P.", non appare di per se' sola sufficiente a costituire riscontro ad una singola chiamata in reita', anche se dettagliata e specifica, quale quella di S.G., anch'essa priva pero', come esposto in motivazione, di connotazioni idonee a configurare il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa. E' vero che l'elemento di riscontro non deve necessariamente consistere in una prova distinta della colpevolezza del chiamato, perche' cio' renderebbe ultronea la testimonianza del correo; esso deve comunque consistere in un dato certo che, pur non avendo la capacita' di dimostrare la verita' del fatto oggetto di prova sia tuttavia idoneo ad offrire garanzie obiettive e certe circa l'attendibilita' di chi lo ha riferito. Peraltro, la chiamata di S.G., nonostante sia esposta in motivazione con riferimento a fatti specifici che la rendono legittimamente utilizzabile quale elemento di prova ai fini dell'accertamento al reato associativo in quanto dimostranti il coinvolgimento di M.A. in un determinato contesto ambientale, appaiono essere limitati al periodo in cui "P.P." era latitante e l'apporto di M. appare anch'esso limitato a favorire la latitanza di P. piu' che essere diretto ad un apporto concreto al sodalizio criminoso. L'accertata presenza di M. in un fondo appartenente a P., come esposto in motivazione, potrebbe anch'esso fornire conferma a quanto riferito da G. sul coinvolgimento di M. in un contesto ambientale e un collegamento con P., ma non aggiunge alcunche' alla chiamata di G. che non è tale da dimostrare, in assenza di ulteriori e individualizzanti riscontri, un apporto alla vita dell'associazione. Il quadro probatorio, come descritto e argomentato dalla Corte di merito, non fornisce elementi che possano fare ritenere integrata la prova della partecipazione ad associazione mafiosa. I comportamenti descritti da S.G. riguardano infatti segmenti fattuali che non dimostrano una adesione all'organizzazione mafiosa capeggiata da P. e una concreta partecipazione, con carattere di continuita' e con la consapevolezza di fornire un contributo appezzabile e concreto ad un piano causale e all'esistenza e al rafforzamento dell'associazione. In conclusione, allorche' gli elementi indiziali provengono da un solo "collaborante" e, per di piu', si basano su affermazioni riferite a segmenti di condotta non del tutto riferibili a una fattispecie di partecipazione, la ricerca dei riscontri esterni che confermino l'attendibilita' di tali dichiarazioni deve essere particolarmente rigorosa e, quando si affermi semplicemente che un soggetto sia affiliato a un'associazione mafiosa, tale affermazione deve essere confortata dalla verifica dell'esistenza di circostanze che in qualche modo consentano di contestualizzare la chiamata in reita'. Si impone, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Messina per un nuovo giudizio.
2. - Il ricorso di P.A. e' fondato nei limiti di seguito indicati. 2.1.- La prima censura relativa all'inutilizzabilita' ex art. 407, comma 3, c.p.p. delle dichiarazioni di F.M., perche' acquisite dal pubblico ministero dopo la scadenza del termine di durata delle indagini preliminari, e' infondata. Indipendentemente dalla verifica della situazione di fatto prospettata dal ricorrente e del dies a quo del termine in parola e dalla tempestivita' con la quale si e' dimostrato la data di effettiva iscrizione di P.A. nel registro degli indagati, la questione e' infondata in diritto. Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, l'inutilizzabilita' degli atti d'indagine prevista dall'art. 407, comma 3, c.p.p. per il caso in cui tali atti siano stati effettuati dopo la scadenza dei prescritti termini, non essendo equiparabile alla inutilizzabilita' delle prove vietate dalla legge, di cui all'art. 191 c.p.p., non e' rilevabile d'ufficio ma solo su eccezione di parte (Sez. 1, 28 aprile 1998, Maggi, rv. 210673). Da tale principio di diritto, condiviso da questo Collegio, discende che nel giudizio abbreviato, che si instaura con la richiesta dell'imputato di definire il processo nell'udienza preliminare "allo stato degli atti", sono utilizzabili ai fini della deliberazione ex art. 442, comma 1 bis, c.p.p., "...gli atti contenuti nel fascicolo di cui all'art. 416, comma 2, c.p.p....". Pertanto, l'imputato deve eccepire l'inutilizzabilita' in questione con la richiesta di definizione del giudizio allo stato degli atti e cio' allo scopo di definire nel suo insieme gli elementi utilizzabili ai fini della decisione e orientare il giudice ad esercitare, e il pubblico ministero a sollecitare, i poteri integrativi previsti dal quinto comma dell'art. 441 c.p.p.. Tale regola interpretativa trova conferma in quanto prescritto dall'art. 438, comma 5, che, nel confermare l'utilizzabilita' degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero - e l'atto acquisito dopo la scadenza del termine di indagine e' contenuto in tale fascicolo sino a quanto su eccezione di parte non sia espunto -, abilita l'imputato a condizionare la richiesta di giudizio abbreviato ad una integrazione probatoria e il pubblico ministero a richiedere prova contraria. Tale disposizione conferma che con la richiesta di abbreviato deve essere definito il quadro degli elementi utilizzabili da parte del giudice e oggetto di contraddittorio tra le parti. L'inutilizzabilita' degli atti d'indagine prevista dall'art. 407, comma 3, c.p.p. per il caso in cui tali atti siano stati effettuati dopo la scadenza dei prescritti termini, non e' dunque equiparabile all'inutilizzabilita' delle prove vietate dalla legge di cui all'art. 191 c.p.p. e configura una "inutilizzabilita' relativa", come tale non e' classificabile tra quelle "patologiche" nelle quali, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite (Sez. Un., 21 giugno 2000, Tammaro, rv. 216246), vanno annoverati gli atti probatori assunti contra legem che determinano un vizio-sanzione dell'atto probatorio non neutralizzabile dalla scelta negoziale delle parti, di tipo abdicativi. Ne consegue che la eccezione proposta nel giudizio d'appello contraddice l'atto adbicativo compiuto con la richiesta di giudizio abbreviato. Legittimamente le dichiarazioni di F. M. sono state utilizzate dal giudice dell'abbreviato e, in assenza di una specifica eccezione al momento della formulazione della richiesta de qua, altrettanto legittimamente utilizzate dal giudice d'appello e utilizzabili dal giudice di rinvio ai fini della decisione.
2.2.- Il secondo motivo di ricorso e' fondato. La motivazione posta a fondamento della conferma della dichiarazione di responsabilita' per l'estorsione della somma di trenta milioni e del materiale edilizio e' assolutamente carente e non fornisce elementi apprezzabili che - una volta venuto meno la complessiva ricostruzione operata dal giudice di primo grado sull'intera vicenda ascritta ad P.A. che lo vedeva coinvolto in una figura apicale nel sodalizio criminoso - possano dare conto delle conclusioni raggiunte. Gli elementi, in estrema sintesi evocati nella sentenza impugnata, appaiono confermare l'esistenza oggettiva del fatto estorsivo, ma non offrono profili individualizzanti che possano ricondurre la vicenda de qua ad P.A. Il giudice d'appello, pur legittimamente utilizzando, per quanto affermato nel precedente punto 2.1., le dichiarazioni di F.M., non ha espresso, infatti, alcun coerente collegamento con gli altri elementi probatori, una volta venuto meno la complessiva impostazione accusatoria, che potessero collocare nel tempo e, in ogni caso, potessero fornire una collegamento fattuale delle condotte riferite da F.M. ad P.A. con l'episodio estorsivo narrato dall'imprenditore G.M.. Manca, ad eccezione di un mero rinvio al contenuto delle intercettazioni riportate nella sentenza di primo grado, una motivazione apprezzabile sulla vicenda riguardante la consegna di materiale edile descritta nella stessa imputazione della quale P.A. e' stato ritenuto responsabile. Si impone, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Messina per un nuovo giudizio.
3.- I ricorsi di B.D., S.D., e M.G. sono infondati tanto da lambire l'inammissibilita' perche' non diretti, al di la' delle enunciate violazioni di legge, a censurare mancanze argomentative e illogicita' ictu oculi percepibili, bensi' ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal giudice di merito e a prospettare una alternativa ricostruzione della vicenda rispetto a quella operata, in base al quadro probatorio descritto in sentenza, dal giudice d'appello. In termini generali e con riferimento alla dedotta violazione dell'art. 192 c.p.p. occorre porre in risalto e ribadire che la specificita' di ciascuna singola quaestio facti non puo' condurre ad una assoluta identita' di criteri valutativi, che lo stesso comma 1 dell'art. 192 c.p.p., nel dettare una regola di ordine generale per la valutazione della prova, impone allo stesso giudice di ricercare in concreto e di chiarire in motivazione in uno ai risultati acquisiti e raggiunti. Oramai in termini pressoche' uniformi, questa Corte ha rafforzato la linea interpretativa volta ad ancorare la verifica dei canoni logici alla specificita' delle quaestio facti, affermando che, neanche allorche' sia denunziata in Cassazione la violazione dell'art. 192, comma terzo, c.p.p., puo' essere delibata in sede di legittimita' una verita' processuale diversa da quella risultante dalla sentenza impugnata, allorquando la struttura razionale del discorso giustificativo della decisione abbia una chiara e puntuale coerenza argomentativa e sia saldamente ancorata, nel rispetto delle regole della logica e delle massime di comune esperienza e dei principi che presidiano la chiamata in correita' e la sua valutazione, alle risultanze del quadro probatorio (Sez. 1, 21 giugno 1999, Riina, rv. 214014). Regola juris quest'ultima che trae fondamento da una oramai nota pronuncia delle Sezioni unite di questa Corte con la quale si e' ulteriormente precisato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione e', in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimita' la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente piu' adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. un., 30 aprile 1997, Dessimone, rv. 207994). Questa Corte ritiene che l'iter logico-argomentativo seguito dai giudici di merito sia stato corretto e conforme ai canoni di logicita', piu' volte evocati, attraverso i quali il giudice deve dare "... conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati...".
3.1.- Per B.D. e S.D, come si è gia' ampiamente esposto in narrativa rispettivamente nei punti 1.1. e 1.5, la Corte d'Appello ha dato conto dei risultati raggiunti e, in particolare, dei validi, concreti e individualizzanti riscontri alla chiamata di S.G.. Entrambi i ricorrenti, con condotte pressoche' similari, hanno favorito la latitanza di "P.P." impedendo la individuazione del luogo ove egli era nascosto.
3.1.1.- B.D. e' stato dichiarato responsabile del delitto di favoreggiamento personale aggravato ex art.7 d.l. n. 157 del 1991. Il quadro probatorio esposto in motivazione e' assolutamente completo e coerente con i fatti ascritti a B.D. e per i quali si e' giunti all'affermazione della responsabilita' per il delitto di favoreggiamento. Egli, afferma il giudice d'appello, aveva favorito la latitanza di "P.P.", impedendo individuazione della porta d'accesso del luogo ove P. era nascosto. In particolare, B. avrebbe collocato un autocarro, intestato alla scuola guida "B.", davanti alla porta d'ingresso del luogo in cui si nascondeva P. con l'evidente finalita' di impedire controllo e interventi da parte degli organi di polizia. Si pone in rilievo che le indagini di polizia giudiziaria forniscono riscontro alle dichiarazioni di S.G., il quale aveva riferito della appartenenza di B.D. alla "cosca capeggiata da P." e della sua presenza nel luogo ove si nascondeva P. La "vicinanza" di B. al sodalizio criminoso, ad avviso dei giudici di merito, trovava conferma nella accertata presenza dell'aula della Corte d'Assise di Palmi dove celebrava il processo a carico di numerosi esponenti del gruppo mafioso, tra i quali i fratelli di G.P.. Correttamente il giudice d'appello ha disatteso la diversa ricostruzione della vicenda prospettata con i motivi d'appello e proposta anche in questa sede con i motivi di ricorso. Il riscontro oggettivo posto in risalto nella motivazione della sentenza impugnata, oltre che rendere estrinsecamente attendibili le dichiarazioni di S.G., forniscono la prova della specifica condotta di favoreggiamento posta in essere da B. e diretta ad eludere le ricerche del latitante "P.". Quanto al profilo riguardante la motivazione del diniego delle attenuanti generiche, il giudice d'appello con espresso richiamo all'art. 133 c.p. e al giudizio sul punto espresso dal giudice di primo grado, in ordine alla gravita' dei fatti ed al comportamento processuale, ha reso una, seppur sintetica, giustificazione al diniego in parola. Il riferimento e', dunque, congruo per ritenere giustificato il diniego delle attenuanti de quibus.
3.1.2.- S.D. e' stato anch'egli, al pari di B.D., dichiarato responsabile di favoreggiamento reale, aggravato ex art.7 d.l. n. 152 del 1991 per avere ostacolato le ricerche del latitante "P. P.". Le dichiarazioni di S.G., che ha definito il ruolo svolto da S. e i rapporti con P. P. nel periodo della latitanza, hanno trovato riscontro negli accertamenti operati nel corso delle indagini circa la proprieta' del cortile all'interno del quale vi era la porta d'accesso del locale ove trovava ospitalita' il latitante "P. P.". In tale cortile erano parcheggiati veicoli di proprieta' della famiglia S. per occultare la porta d'ingresso del locale che era dotato di energia elettrica, grazie all'"apporto dei S.". Prive di consistenza le censure di violazione delle regola di valutazione probatoria, poste anche con i motivi d'appello e rigettate correttamente dalla Corte territoriale. Anche qui, il risconto oggettivo posto in risalto nella motivazione della sentenza impugnata, oltre che rendere estrinsecamente attendibile le dichiarazioni di S.G., forniscono la prova della specifica condotta di favoreggiamento posta in essere da S. e diretta ad eludere le ricerche del latitante "P.". Le censure poste con il ricorso non sono altro che dirette a proporre una ricostruzione alternativa della vicenda rispetto a quella congruamente e coerentemente operata dai giudici di merito. Quanto al profilo riguardante la motivazione del diniego delle attenuanti generiche, il giudice d'appello con espresso richiamo all'art. 133 c.p. e al giudizio sul punto espresso dal giudice di primo grado, in ordine alla gravita' dei fatti ed al comportamento processuale, ha reso una, seppur sintetica, giustificazione al diniego in parola. Il riferimento e', dunque, congruo per ritenere giustificato il diniego delle attenuanti de quibus.
3.1.3.- Anche la posizione di M.G. e' stata oggetto di una corretta ricostruzione da parte dei giudici di merito. La Corte d'Appello ha disatteso le questioni poste con l'impugnazione e, in questa sede sono riproposte come motivi di ricorso. E' S.G., affermano i giudici di merito, a indicare M. quale appartenente al sodalizio criminoso subentrato a S.M. nella gestione contabile dell'impianto di distribuzione Agip. La sentenza impugnata riproduce le dichiarazioni del collaboratore G., per il quale M. non sarebbe stato utilizzato dai P. per compiere attivita' chiaramente illecite, bensi' - e per una precisa decisione - utilizzato come "faccia pulita" del gruppo, in modo da essere adibito ad occuparsi di "... attivita' apparentemente lecite gestite da P.". Lo stesso collaboratore - precisano i giudici di merito - ha riferito del ruolo di tale S.M., nell'area di servizio Agip, poi sostituito da M., che era nipote di "P. P." ed affiliato alla cosca da costui capeggiata. Riscontro alle dichiarazioni di G., per i giudici di merito, e' fornito dagli atti di altro procedimento nel corso del quale sono stati ricostruiti i rapporti economici facenti capo ai P. e in particolare quelli relativi alla gestione della societa' "B.P." e dei due distributori di benzina Agip ed Esso. Dalla documentazione bancaria dei conti della predetta societa' e di quelli intestati ad P.A. e P.G. - si sottolinea nella sentenza impugnata - sarebbe emersa la figura di G.M., quale delegato a gestire le attivita' dei cugini P. riferite ai due distributori di benzina. Ad avviso dei giudici di merito, la documentazione bancaria, come ricostruita dal teste V., evidenziava un chiaro coinvolgimento di M. nella attivita' finanziaria dei P. che non trovava riscontro - per le somme indicate e per la negoziazione di assegni emessi da imprese "B.", "E." ed altre - con l'attivita' collegata agli acquisti di carburante. Anche la gestione del conto corrente intestato a C.P. e i rapporti con tale M. D.T., riguardanti la gestione di certificati di deposito al portatore dei quali alcuni in valuta estera, forniva elementi inequivoci - secondo i giudici di merito - dell'attivita' complessivamente svolta da G.M. in favore del gruppo P. per la "ripulitura del danaro illecito". La sentenza impugnata riproduce il giudizio espresso dal giudice di primo grado secondo cui la deposizione di V. rende palese il ruolo rivestito da M. e la condotta dallo stesso realizzata; "... gli versa sul conto della B. denaro la cui provenienza non e' in grado di giustificare, riceve danaro da D.T. e realizza quella ripulitura di danaro alla quale aspirano i capi della consorteria mafiosa..." Il giudice di primo grado pone poi in risalto che la nota 4 maggio 1998 del Commissariato della Polizia di Stato di Gioia Tauro risulta che M. "...si intromette nella gestione dei conti correnti accesi dai cugini P.G. e P.A. presso il Credito Emiliano ed e' garante del conto acceso da P.A. presso la Banca Regionale Calabrese di Gioia Tauro...". In conclusione, per i giudici di primo grado, alle cui argomentazioni fa espresso rinvio la Corte d'Appello, sul conto di M. vi sono anzitutto le dichiarazioni di S.G., "...il quale riconosce all'imputato un ruolo definito, in funzione di quella che a partire da un certo momento in poi è una strategia del gruppo che sceglie uomini fidati "puliti" e, avuto riguardo all'imputato M., con specifiche competenze nel settore economico...". La Corte d'Appello ha disatteso le censure della difesa per la quale G. non avrebbe potuto essere ritenuto attendibile, avendo in precedenza escluso il coinvolgimento di M. nel sodalizio criminoso. Nell'argomentare in ordine alla infondatezza della censura, i giudici d'appello richiamano a riscontro le dichiarazioni di tale F.M., compagna di G.C., amico di altro imprenditore G.M., la quale definisce M. "contabile della cosca, faccia pulita, con funzioni di prestanome". Sul punto, il giudice d'appello esclude che vi sia stato errore di persona in ordine alla titolarita' di un conto presso il Credito Emiliano di Taurianova, che la M. avrebbe riferito a M.G., e ribadisce che dagli accertamenti delegati al Commissariato della Polizia di Stato di Gioia Tauro e' tra l'altro risultato che proprio M.G."...ha facolta' di operare in qualita' di delegato sul conto... della banca regionale calabrese filiale di Gioia Tauro acceso l'8 settembre 1997 da A.P.", conto che ha goduto di uno "... sconfinamento di quasi cento milioni reso possibile, e cio' sulla scorta di quanto dichiarato dal direttore dell'istituto di credito, grazie ai libretti di risparmio sottoscritti dal delegato M. per un importo di circa novanta milioni di lire e lasciati a disposizione della banca quale garanzia dello sconfinamento...". Una ricostruzione plausibile e logica, fondata su una altrettanto plausibile interpretazione delle risultanze probatorie descritte con completezza nella motivazione della sentenza impugnata. Le scelte che debbono orientare nel proprio lavoro di ricostruzione storica dei fatti da provare ex art. 187 c.p.p., sono disciplinate dalla formula generale racchiusa nel comma 2 dell'art. 192 c.p.p. e in quella del primo comma 1 dello stesso articolo la' dove nel suo ovvio esordio affida al giudice il compito di valutare la prova "... dando conto... dei risultati acquisiti e dei criteri adottati". Il giudice d'appello ha correttamente applicato l'art. 238 bis c.p.p., da un lato, nella corretta utilizzazione e valutazione degli elementi contenuti nella sentenza irrevocabile alla stregua delle regole di valutazione di cui agli art. 187 e 192 c.p.p., e, dall'altro, non ha considerato il decreto col quale e' stata rigettata l'applicazione della misura di prevenzione da parte della Corte d'Appello di Reggio Calabria. Si tratta, infatti, di provvedimenti giudiziari non annoverati tra quelli che possono essere utilizzati, come prova dei fatti in essi affermati, per la decisione. L'acquisizione di tale provvedimento, prodotto dalla difesa nel giudizio d'appello, puo' essere diretta solo a provare il dato storico della procedura e non le ragioni e le circostanze per le quali si e' giunti alla mancata applicazione della misura di prevenzione. Correttamente, dunque, nella sentenza impugnata non si fa menzione di tale atto che non avrebbe potuto, attesa la tipicita' dell'utilizzazione di provvedimenti giudiziari e di atti processuali prevista dagli artt. 236, 238 e 238 bis c.p.p., essere valutabile ai fini della decisione. La Corte territoriale, in base alle risultanze processuali, di cui e' in questa sede impedito ogni accesso se non al fine di verificare i fatti processuali, ha risolto in termini corretti la questione dell'errore di persona riproposto ancora una volta circa la titolarita' di un conto presso il Credito Emiliano di Gioia Tauro. Del resto, come peraltro appare dalle sentenza di primo e secondo grado, la circostanza de qua non ha avuto una valenza decisiva ai fini della sussistenza della condotta di partecipazione. Sono stati, infatti, articolati e argomentati una molteplicita' di ulteriori elementi che rendono il quadro probatorio completo e coerente in ogni sua parte. Occorre porre in rilievo che in entrambe le decisioni, quella di primo e di secondo grado, si sottolineano i rapporti di parentela tra M. e i P. e il particolare ruolo svolto da M. proprio in considerazione della sua specifica competenza. I rapporti di parentela, come affermato da questa Corte (Sez. 6^, 31 gennaio 1996, Alleruzzo, rv. 206596), possono assumere un valore indiziante della partecipazione a una organizzazione criminale in un contesto in cui vi siano legami di affinita' e parentela fra i partecipanti e coloro che nella medesima organizzazione rivestono posizione di vertice o, in ogni caso, di rilievo. Questa Corte ritiene che l'iter logico-argomentativo seguito dai giudici di merito sia stato corretto e conforme ai canoni di logicita' attraverso i quali il giudice deve dare "...conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati...". Il giudice d'appello ha operato una selezione degli elementi di prova e una accurata esposizione dei dati che hanno determinato la conclusione circa la configurazione della partecipazione di M.G. al sodalizio criminoso capeggiato dai P.
3.1.3.1. Infondate anche le censure riguardanti la motivazione posta a fondamento del diniego delle attenuanti generiche e in ordine all'applicazione dell'aggravante di cui al quarto comma dell'art. 416 bis c.p.p.. Quanto alle attenuanti generiche, nella sentenza impugnata si condivide la giustificazione posta a fondamento dal giudice di primo grado al diniego delle attenuanti de quibus. Si e' fatto riferimento alla peculiare posizione ricoperta da M. all'interno del sodalizio criminoso; elemento che ragionevolmente giustifica il rigetto delle attenuanti generiche. Anche per quanto riguarda l'aggravante di cui al comma quarto dell'art. 416 bis c.p., la Corte si e' attenuta ai principi di diritto piu' volte enunciati da questa Corte di legittimita'. Al di la' della ragionevole considerazione svolta dalla Corte di merito, va ribadito che l'aggravante in parola si realizza in una situazione di fatto che prescinde dalla effettiva e attuale detenzione o porto di armi, perche' essa puo' riguardare anche armi legalmente detenute e, ogni caso, la semplice disponibilita' di armi da parte del singolo e anche di altri appartenenti.
4. - La sentenza impugnata, va dunque, annullata nei confronti di P. A. e M. A. con rinvio per un nuovo giudizio alla Corte d'Appello di Messina. I ricorsi di B.D., S.D. e M.G. vanno, dunque, rigettati e, a norma dell'art. 616 c.p.p., i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di P.A. e M.A. e rinvia per un nuovo giudizio alla Corte d'Appello di Messina. Rigetta i ricorsi di B.D., S.D. e M.G. che condanna al pagamento delle spese processuali.
Cosi' deciso in Roma, il 23 giugno 2005. Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2005
|