Illegittimità costituzionale dell’articolo 630 c.p. nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Giuseppe TESAURO “
- Paolo Maria NAPOLITANO “
- Giuseppe FRIGO “
- Alessandro CRISCUOLO “
Paolo GROSSI “
- Giorgio LATTANZI “
- Aldo CAROSI “
- Marta CARTABIA “
- Mario Rosario - MORELLI “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 630 del codice penale, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia, nel procedimento penale a carico di C.P. ed altri, con ordinanza del 3 maggio 2011, iscritta al n. 186 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visti gli atti di costituzione di C.P. ed altro e di H.J., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 6 marzo 2012 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;
uditi gli avvocati Riccardo Benvegnù per H.J., Emanuele Fragasso Jr. per C.P. ed altro e l’avvocato dello Stato Ettore Figliolia per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 3 maggio 2011, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 630 del codice penale, nella parte in cui non prevede, in relazione al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, una circostanza attenuante speciale per i fatti di «lieve entità», analoga, «nella struttura e negli effetti», a quella applicabile, in forza dell’art. 311 cod. pen., al delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, previsto dall’art. 289-bis del medesimo codice.
Il giudice a quo premette di essere chiamato a trattare un processo penale – nelle forme del giudizio abbreviato richiesto a seguito dell’emissione di decreto di giudizio immediato – nei confronti di tre persone imputate del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, per avere privato della libertà personale l’offeso, trattenendolo con la forza presso l’abitazione di una di esse – ove era stato indotto a recarsi con un pretesto – dalle ore 15,30 del 17 giugno 2010 alle ore 19,50 del medesimo giorno, allorché il sequestrato era stato liberato grazie all’intervento delle forze dell’ordine. L’iniziativa sarebbe stata presa al fine di ottenere la restituzione della somma di denaro corrisposta a uno spacciatore di sostanze stupefacenti, dileguatosi senza aver consegnato la partita di hashish convenuta, nell’ambito di una transazione illecita che aveva visto la persona offesa svolgere il ruolo di mediatore per l’acquisto. In particolare, costui, dopo essere stato percosso, era stato costretto a contattare – mediante una linea telefonica che risultava, peraltro, sottoposta a intercettazione – alcuni suoi parenti, chiedendo loro di reperire la somma pretesa dagli imputati, con la minaccia di essere ulteriormente segregato e percosso ove la pretesa creditoria non fosse stata soddisfatta.
Osserva il rimettente che il fatto configurerebbe il contestato delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione. In base all’interpretazione accolta dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 17 dicembre 2003-20 gennaio 2004, n. 962) – qualificabile come «diritto vivente», in quanto unanimemente recepita dalla giurisprudenza di legittimità successiva – l’ipotesi criminosa descritta dall’art. 630 cod. pen. è integrata anche dalla privazione della libertà di una persona volta a conseguire, quale prezzo per la liberazione – come nel caso di specie – il pagamento di un debito derivante da un pregresso rapporto illecito. Il requisito di fattispecie costituito dalla «ingiustizia» del profitto – oggetto di dolo specifico – andrebbe, infatti, apprezzato sulla base di canoni legali e non già nella particolare prospettiva dell’agente. Di conseguenza, esso sarebbe ravvisabile anche nella situazione considerata, nella quale la pretesa dell’agente risulta sfornita di tutela legale, avendo titolo in un negozio con causa illecita.
Alla luce di tale interpretazione, la norma censurata si presterebbe, peraltro, a colpire anche fenomeni criminosi radicalmente dissimili da quelli avuti di mira dal legislatore, all’epoca in cui ha drasticamente innalzato – fino a portarla a venticinque anni di reclusione – la pena edittale minima del delitto in questione (originariamente pari a otto anni). Tale eccezionale inasprimento della risposta punitiva – attuato con una serie di novelle legislative e, da ultimo, con la legge 30 dicembre 1980, n. 894 (Modifiche all’articolo 630 del codice penale) – costituiva, infatti, la risposta, in termini di prevenzione generale, allo straordinario incremento, registratosi negli anni 1970-1980, dei sequestri estorsivi perpetrati da pericolose organizzazioni criminali, caratterizzati da privazioni della libertà protratte talora per anni, con episodi di efferata crudeltà ai danni delle vittime e richieste di ingenti riscatti.
La vicenda oggetto nel giudizio a quo sarebbe ben lontana da tale paradigma. Si sarebbe, infatti, al cospetto di una iniziativa «estemporanea», attuata senza una particolare predisposizione di mezzi e senza uso di armi, quale reazione a una patita «frode […] in re illicita», che ha determinato la privazione della libertà personale dell’offeso per un tempo limitatissimo (poco più di quattro ore).
Su tali premesse, il rimettente dubita, quindi, della legittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen., rilevando come la norma censurata punisca con una pena di inusitata severità – «tutta compressa verso l’alto», essendo il minimo edittale di venticinque anni di reclusione prossimo al massimo di trenta («quasi una pena “fissa”») – condotte delittuose che possono risultare assai meno gravi di altre per durata, modalità dell’azione e entità dell’offesa recata alla vittima, e rispetto alle quali detto minimo edittale si rivelerebbe manifestamente sproporzionato per eccesso. Risulterebbero conseguentemente violati i principi di ragionevolezza, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena (artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost.), i quali esigono che venga assicurata, nella concreta applicazione giudiziale, la possibilità di adeguare il trattamento sanzionatorio al reale grado di colpevolezza dell’agente e al suo personale bisogno di rieducazione.
Consapevole che alla Corte costituzionale è inibito un sindacato di merito sulle scelte sanzionatorie del legislatore, il rimettente non chiede, tuttavia, un intervento «diretto» sul (sopra ricordato) minimo edittale. Censura, invece, la norma denunciata nella parte in cui non prevede una circostanza attenuante speciale analoga, per struttura ed effetti, a quella applicabile, in forza dell’art. 311 cod. pen., ai delitti contro la personalità dello Stato e, dunque, anche al delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, di cui all’art. 289-bis cod. pen.: attenuante che viene in rilievo segnatamente «quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità».
Per questo verso, sarebbe riscontrabile una irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe, essendo la figura criminosa ora indicata pienamente assimilabile al sequestro estorsivo per struttura, requisiti di fattispecie, risposta sanzionatoria e rango degli interessi tutelati. La condotta costitutiva del delitto previsto dall’art. 289-bis cod. pen. è, infatti, identica a quella descritta dall’art. 630 cod. pen., essendo diverso solo il fine che la sorregge (di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, nel primo caso, di estorsione, nel secondo). Identico è anche il trattamento sanzionatorio stabilito tanto per l’ipotesi semplice che per le ipotesi aggravate dalla morte dell’ostaggio; mentre analoghe, per ratio e struttura, risultano le attenuanti relative ai casi di dissociazione.
La censurata difformità di disciplina, riguardo ai fatti di «lieve entità», non potrebbe essere, d’altra parte, giustificata neppure sulla base di valutazioni concernenti la diversa pregnanza del bene giuridico protetto. L’art. 630 cod. pen. mirerebbe, infatti, a evitare «forme di iniqua mercificazione della persona», unitamente al «pericolo di trasferimento di risorse verso plessi criminali»; l’art. 289-bis cod. pen. avrebbe, a sua volta, riguardo «a forme di prevaricazione della persona altrettanto inique e alla rottura delle condizioni di sicurezza indispensabili alla primaria esplicitazione della convivenza civile e dell’ordine democratico».
L’auspicato intervento di questa Corte, nel garantire una migliore capacità di adeguamento della risposta sanzionatoria all’intera gamma dei comportamenti conformi al tipo, sarebbe, altresì, pienamente ammissibile, non scontrandosi con la riserva di legge in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.), la quale non è di ostacolo alle sentenze manipolative «in bonam partem».
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
Ad avviso della difesa dello Stato, le censure svolte dal giudice rimettente non atterrebbero, in realtà, alla legittimità costituzionale della norma, ma porrebbero in discussione scelte di politica criminale volte a far fronte a precise esigenze di difesa sociale. Segue l’asserzione secondo la quale particolarmente significativa, al riguardo, sarebbe la circostanza che l’inasprimento della pena del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione abbia prodotto, in breve tempo, apprezzabili effetti in termini di riduzione di un fenomeno criminale allarmante e odioso.
A fronte di ciò, la possibile sproporzione tra gravità del fatto e sanzione andrebbe superata precipuamente sul piano della valutazione della effettiva corrispondenza della fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto. Se il fatto presenta tutti i requisiti richiesti dal legislatore ai fini dell’integrazione del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, la pena applicabile non sarebbe affatto irragionevole; se, diversamente, è il fatto a non presentare tutti gli elementi del gravissimo delitto, esso dovrà essere diversamente qualificato (come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, violenza privata, sequestro di persona semplice e via dicendo), con applicazione del conseguente regime sanzionatorio.
Il giudice a quo avrebbe omesso, inoltre, di verificare se l’adeguamento al fatto concreto della pena comminata dall’art. 630 cod. pen. possa essere comunque assicurato dall’applicazione delle circostanze attenuanti comuni, e segnatamente di quelle previste dagli artt. 62, numeri 4, 5 e 6, e 114, primo comma, cod. pen.: profilo sotto il quale la motivazione dell’ordinanza di rimessione si presenterebbe oggettivamente inadeguata.
3.– Si sono costituiti C.P. e I.A.S.M.A., imputati nel giudizio a quo, chiedendo, sulla base di identiche considerazioni, che la questione sia accolta.
Le parti private assumono che l’art. 630 cod. pen. – comminando per il sequestro di persona a scopo estorsivo una pena minima di venticinque anni di reclusione, senza prevedere una circostanza attenuante che consenta l’applicazione di una pena minore di fronte a fattispecie concrete di ridotta offensività – violerebbe il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), che impone al legislatore di differenziare il trattamento punitivo a seconda della gravità dei diversi fatti criminosi, non solo tramite la previsione di plurimi tipi di reato, caratterizzati da differenti risposte sanzionatorie, ma anche all’interno della singola figura criminosa, permettendo al giudice di graduare opportunamente la pena in rapporto alla specificità del singolo fatto.
L’irragionevolezza dell’assetto normativo censurato risulterebbe tanto più evidente nel raffronto con la fattispecie simmetrica di sequestro di persona prevista dall’art. 289-bis cod. pen.
In aggiunta agli elementi già posti in evidenza dall’ordinanza di rimessione – identità del «fatto base», equiparabilità degli interessi protetti, identità della risposta sanzionatoria per l’ipotesi semplice e per quelle aggravate dalla morte del sequestrato – anche la genesi storica delle due previsioni punitive confermerebbe che si tratta di figure criminose rispondenti a un medesimo schema. Il sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione fu, infatti, introdotto nell’ordinamento, come reazione ai sequestri di tipo politico, dal decreto-legge 21 marzo 1978, n. 59 (Norme penali e processuali per la prevenzione e la repressione di gravi reati), inserendolo nell’ambito dello stesso art. 630 cod. pen. In sede di conversione del decreto, la legge 18 maggio 1978, n. 191 scorporò, peraltro, la figura del sequestro “politico” dall’art. 630 cod. pen., introducendo l’autonomo delitto di cui all’art. 289-bis cod. pen., punito con identica pena. L’art. 9-ter del citato decreto-legge n. 59 del 1978, aggiunto dalla legge di conversione, prevede, d’altra parte, che «le disposizioni del codice penale che richiamano l’art. 630 dello stesso codice si applicano anche in relazione al delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione»: ciò, a conferma dell’intento legislativo di stabilire un pieno parallelismo tra le due figure delittuose.
A fronte delle analogie evidenziate, del tutto stridente risulterebbe la differenza di trattamento censurata dal giudice rimettente: vale a dire, l’applicabilità al solo sequestro a carattere terroristico o eversivo dell’attenuante prevista dall’art. 311 cod. pen. Si tratta, infatti, di una circostanza di tipo oggettivo, la cui applicazione è sostanzialmente legata a due ordini di valutazioni: le caratteristiche dell’azione e l’entità del danno o del pericolo da essa cagionato.
Proprio la natura esclusivamente oggettiva dell’attenuante in discorso – la quale prescinde da qualsiasi considerazione concernente l’elemento soggettivo del reato – renderebbe palese l’irragionevolezza della mancata previsione di una attenuante analoga per la fattispecie, oggettivamente identica, del sequestro a scopo estorsivo.
Alla conseguente lesione dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza si aggiungerebbe quella dei principi di personalità della responsabilità penale e della finalità rieducativa della pena (art. 27, primo e terzo comma, Cost.): principi funzionalmente connessi, giacché l’applicazione della pena può risultare finalizzata alla rieducazione solo ove essa si adegui al caso concreto e al grado di responsabilità del condannato. Nel caso in esame, per contro, la rigidità «verso “l’alto”» della risposta sanzionatoria – in termini non dissimili dalle pene fisse, tendenzialmente contrarie al «volto costituzionale» dell’illecito penale, secondo quanto chiarito da questa Corte – priverebbe il giudice della possibilità di «individualizzare» il trattamento punitivo.
4.– Si è costituito anche H.J., altro imputato nel giudizio a quo, chiedendo, del pari, l’accoglimento della questione.
La parte privata rileva come, nell’inasprire progressivamente il trattamento sanzionatorio del sequestro di persona a scopo di estorsione, tramite un insieme di novelle legislative risalenti agli anni 1974-1980, il legislatore sia stato ispirato da finalità di prevenzione generale, in un periodo di recrudescenza della criminalità e di conseguente allarme sociale, durante il quale il sequestro di persona costituiva una modalità operativa tipica della criminalità organizzata.
Il delitto in questione potrebbe configurarsi, tuttavia, in una serie di situazioni concrete caratterizzate da livelli di offensività sensibilmente più tenui rispetto a quelle considerate dal legislatore dell’epoca. È quanto avverrebbe nel caso oggetto del giudizio a quo: il delitto sarebbe stato, infatti, commesso, secondo l’ipotesi accusatoria, per soddisfare una pretesa inerente a un pregresso rapporto con il sequestrato, sia pure non giuridicamente tutelabile; il sequestro è stato operato in ore diurne; la vittima non è stata trattenuta in una località isolata e angusta, ma in un luogo di privata dimora sito nel centro di un comune; la limitazione della libertà personale del sequestrato si è protratta per poche ore; gli imputati hanno agito a volto scoperto; al sequestrato è stato, inoltre, permesso di contattare telefonicamente i propri parenti, seppure allo scopo di risolvere la questione economica che aveva dato origine al suo rapimento.
La fattispecie criminosa dell’art. 630 cod. pen. risulterebbe, per altro verso, strettamente affine a quella del sequestro di persona a scopo terroristico o eversivo – evocata come tertium comparationis – per origine storica, identità dell’elemento materiale, identità del trattamento sanzionatorio per la fattispecie semplice e per le ipotesi aggravate dalla morte dell’ostaggio, analogia delle attenuanti previste a favore del concorrente che si dissocia e della disciplina speciale relativa al concorso di circostanze.
A fronte di tale complesso di elementi di convergenza, le due fattispecie si diversificherebbero, in punto di regime sanzionatorio, sotto due profili.
In primo luogo, la pena riservata al concorrente che si dissocia risulta più mite in rapporto al delitto di cui all’art. 630 cod. pen., che non a quello di cui all’art. 289-bis cod. pen. Tale tratto differenziale, se da un lato non sarebbe così significativo da impedire un confronto tra le due fattispecie, dall’altro lato rivelerebbe come il legislatore abbia preso atto della minore offensività che il sequestro di persona a scopo estorsivo può talora presentare rispetto ad analoghe condotte realizzate per finalità terroristiche o eversive.
Ciò renderebbe palese l’irragionevolezza della seconda e più rilevante differenza, consistente nel fatto che solo in rapporto al delitto previsto dall’art. 289-bis cod. pen. è configurata una circostanza attenuante che consente di modulare il trattamento sanzionatorio in presenza di elementi oggettivi che – come nel caso di specie – risultino indicativi di una ridotta valenza offensiva del fatto contestato.
Sotto tale profilo, la norma sottoposta a scrutinio sarebbe, quindi, costituzionalmente illegittima per contrasto, anzitutto, con l’art. 3, primo comma, Cost. Dal confronto con l’art. 289-bis cod. pen. emergerebbe, infatti, come condotte illecite del tutto simili ricevano un trattamento differenziato e che, anzi, sono quelle più gravi a venire sanzionate in modo meno rigoroso, considerata la preminenza della lotta contro il terrorismo e l’eversione rispetto alla tutela del patrimonio.
Risulterebbe, altresì, violato l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto – come in più occasioni affermato dalla giurisprudenza costituzionale – la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale provocata da una sanzione manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell’illecito produce una vanificazione del fine rieducativo della pena.
Sussisterebbe, infine, anche la violazione dell’art. 27, primo comma, Cost., che sancisce il principio di personalità della responsabilità penale, in quanto la norma censurata non consentirebbe di modellare adeguatamente la risposta punitiva alle caratteristiche del caso concreto e, pertanto, di irrogare una pena «equamente personalizzata».
Considerato in diritto
1.– Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 630 del codice penale, nella parte in cui non prevede, in relazione al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, una circostanza attenuante speciale per i fatti di «lieve entità», analoga a quella applicabile, in forza dell’art. 311 cod. pen., al delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, di cui all’art. 289-bis del medesimo codice.
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe i principi di ragionevolezza, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena (art. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione), prevedendo, per il sequestro a scopo estorsivo, una risposta sanzionatoria di eccezionale asprezza e tutta compressa «verso l’alto» – la reclusione da venticinque a trenta anni – non ragionevolmente proporzionata all’intera gamma dei fatti riconducibili al modello legale.
Censurabile, per questo verso, sarebbe segnatamente la mancata previsione di una circostanza attenuante che consenta al giudice di mitigare la risposta punitiva, in presenza di elementi oggettivi rivelatori di una limitata gravità del fatto, sulla falsariga di quanto è consentito dall’art. 311 cod. pen. in rapporto al sequestro di persona a scopo terroristico o eversivo. Al riguardo, emergerebbe, in effetti, una irrazionale disparità di trattamento di situazioni omologhe, per la piena assimilabilità della figura criminosa ora indicata al sequestro estorsivo, quanto a struttura, requisiti di fattispecie, risposta sanzionatoria e rango degli interessi tutelati.
2.– La questione è fondata, nei termini di seguito specificati.
3.– L’attuale assetto sanzionatorio del sequestro di persona a scopo di estorsione, delineato dall’art. 630 cod. pen., è l’epilogo di una serie di interventi normativi, ormai alquanto risalenti nel tempo e con i tratti tipici della legislazione “emergenziale” (artt. 5 e 6 della legge 14 ottobre 1974, n. 497, recante «Nuove norme contro la criminalità»; art. 2 del decreto-legge 21 marzo 1978, n. 59, recante «Norme penali e processuali per la prevenzione e la repressione di gravi reati», convertito, con modificazioni, dalla legge 18 maggio 1978, n. 191; art. 1 della legge 30 dicembre 1980, n. 894, recante «Modifiche all’articolo 630 del codice penale»). Furono interventi sollecitati dallo straordinario, inquietante incremento, in quel periodo, dei sequestri di persona a scopo estorsivo, operati da pericolose organizzazioni criminali, con efferate modalità esecutive (privazione pressoché totale della libertà di movimento della vittima, sequestri protratti per lunghissimi tempi, invio di parti anatomiche del sequestrato ai familiari come mezzo di pressione) e richieste di riscatti elevatissimi, al cui pagamento spesso non seguiva la liberazione del sequestrato, che trovava invece la morte in conseguenza del fatto.
All’acuto allarme sociale generato da tali episodi il legislatore intese dare risposta tramite una “strategia differenziata”. Da un lato, si procedette a un progressivo, cospicuo innalzamento della misura della pena edittale comminata dalla norma censurata: pena che, originariamente stabilita nella reclusione da otto a quindici anni (oltre la multa), venne fissata, da ultimo – quanto all’ipotesi semplice del reato – nella reclusione da venticinque a trenta anni. Si tratta di una risposta sanzionatoria di eccezionale asprezza, ove riguardata in una cornice di sistema: basti considerare che il minimo edittale è superiore sia al massimo della pena comminata per l’omicidio volontario (art. 575 cod. pen.), sia al limite massimo di durata della reclusione stabilito in via generale dall’art. 23, primo comma, cod. pen. (ventiquattro anni). Dall’altro lato, e parallelamente, furono introdotte circostanze attenuanti volte a stimolare forme di ravvedimento dell’agente – qualificate in termini di «dissociazione» – in funzione della liberazione del sequestrato, dell’impedimento delle conseguenze ulteriori del reato o della collaborazione del reo con la giustizia.
Come attesta l’esperienza giudiziaria, la descrizione del fatto incriminato dall’art. 630 cod. pen. – rimasta invariata rispetto alle origini («chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione») – si presta, peraltro, a qualificare penalmente anche episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore dell’emergenza. Si tratta di fattispecie che – a fronte della marcata flessione dei sequestri di persona a scopo estorsivo perpetrati “professionalmente” dalla criminalità organizzata, registratasi a partire dalla seconda metà degli anni ’80 dello scorso secolo – hanno finito, di fatto, per assumere un peso di tutto rilievo, se non pure preponderante, nella più recente casistica dei sequestri estorsivi.
Rientrano in tale ambito, tra le altre, le fattispecie del genere che viene in discussione nel giudizio a quo: ossia i sequestri di persona attuati al fine di ottenere una prestazione patrimoniale, pretesa sulla base di un pregresso rapporto di natura illecita con la vittima. Come ricorda il giudice rimettente, la giurisprudenza di legittimità appare ormai unanime, dopo un intervento chiarificatore delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 17 dicembre 2003-20 gennaio 2004, n. 962), nel ritenere che simili fattispecie integrino il delitto in questione, ricorrendo il requisito dell’«ingiustizia» del profitto perseguito all’agente, dato che la pretesa che egli mira a soddisfare è sfornita di tutela legale, in quanto avente titolo in un negozio con causa illecita.
In queste e consimili evenienze, il fatto criminoso può assumere, tuttavia – e non di rado assume – connotati ben diversi da quelli delle manifestazioni criminose che il legislatore degli anni dal 1974 al 1980 intendeva contrastare: ciò, sia per la più o meno marcata “occasionalità” dell’iniziativa delittuosa (la quale spesso prescinde da una significativa organizzazione di uomini e di mezzi); sia per l’entità dell’offesa recata alla vittima, quanto a tempi, luoghi e modalità della privazione della libertà personale; sia, infine, per l’ammontare delle somme pretese quale prezzo della liberazione.
4.– Ciò premesso, questa Corte deve ribadire la propria costante giurisprudenza in ordine al sindacato di legittimità costituzionale sulla misura delle pene.
Al pari della configurazione delle fattispecie astratte di reato, anche la commisurazione delle sanzioni per ciascuna di esse è materia affidata alla discrezionalità del legislatore, in quanto involge apprezzamenti tipicamente politici. La scelte legislative sono, pertanto, sindacabili soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione (ex plurimis, sentenze n. 161 del 2009, n. 324 del 2008, n. 22 del 2007 e n. 394 del 2006).
In questa prospettiva, la Corte ha dichiarato manifestamente infondata una precedente questione di legittimità costituzionale, intesa del pari ad estendere al sequestro a scopo estorsivo una attenuante speciale per i fatti di «lieve entità» (ordinanza n. 240 del 2011). Nell’occasione, si discuteva, peraltro, dell’attenuante delineata dall’art. 3, terzo comma, della legge 26 novembre 1985, n. 718 (Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale contro la cattura degli ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979), in rapporto al delitto – previsto dal medesimo art. 3 – di cosiddetto sequestro di ostaggi: attenuante in forza della quale «se il fatto è di lieve entità si applicano le pene previste dall’articolo 605 del codice penale aumentate dalla metà a due terzi».
Al riguardo, questa Corte ha rilevato come la figura del sequestro di ostaggi risultasse inidonea a fungere da tertium comparationis ai fini considerati. Al di là di talune affinità strutturali, detta ipotesi criminosa è, infatti, più ampia e generica del sequestro estorsivo in relazione all’obiettivo della condotta, normativamente identificato nel fine di costringere un terzo a compiere o ad omettere un qualsiasi atto: circostanza dimostrata anche dall’espressa clausola di salvezza delle ipotesi previste dall’art. 630 cod. pen. (oltre che dall’art. 289-bis cod. pen.), con cui il citato art. 3 della legge n. 718 del 1985 esordisce e che imprime al delitto in parola un carattere “residuale”.
Il reato previsto dalla legge speciale si presta, pertanto, a ricomprendere anche fatti assai meno negativamente connotati di quelli sorretti da una finalità estorsiva. Il che può spiegare la previsione di una attenuante a effetto speciale, grazie alla cui applicazione la pena minima per il delitto in questione – parificata, quanto all’ipotesi semplice, a quella del sequestro estorsivo – può scendere a soli nove mesi di reclusione (ordinanza n. 240 del 2011).
A tale ultimo proposito, la Corte ha anche rilevato come l’accoglimento del petitum allora formulato dal giudice rimettente avrebbe provocato una sperequazione di segno contrario a quella denunciata. Ove la questione fosse stata accolta, infatti, la pena minima applicabile per il sequestro di persona a scopo di estorsione sarebbe risultata sensibilmente inferiore a quella irrogabile, ai sensi degli artt. 56, terzo comma, e 629 cod. pen., per l’estorsione, anche solo tentata, attuata con modalità diverse e meno espressive di disvalore rispetto alla privazione dell’altrui libertà personale.
5.– È di tutta evidenza, peraltro, come le considerazioni ora ricordate non valgano in rapporto alla questione oggi in esame, concernente l’attenuante ad effetto comune applicabile, in virtù dell’art. 311 cod. pen., al delitto di sequestro di persona a scopo terroristico o eversivo: questione che la citata ordinanza n. 240 del 2011 ha, del resto, precisato essere rimasta impregiudicata (nell’occasione, essa era stata prospettata dalla sola parte privata costituita, risultando perciò non scrutinabile). L’art. 311 cod. pen. stabilisce, in specie, che le pene comminate per i delitti previsti dal Titolo I del Libro II – vale a dire, i delitti contro la personalità dello Stato, tra i quali rientra il sequestro terroristico o eversivo – «sono diminuite quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità».
Diversamente dal sequestro di ostaggi, il sequestro a scopo di terrorismo o di eversione si rivela, in effetti, pienamente idoneo a fungere da tertium comparationis, ai fini che qui interessano. Si tratta, infatti, di una figura non già “residuale”, ma strettamente affine e sostanzialmente omogenea rispetto a quella del sequestro estorsivo, sotto tutta una serie di profili.
Sequestro terroristico o eversivo e sequestro estorsivo (nella sua attuale configurazione) hanno, anzitutto, una comune matrice storica. La figura delittuosa del sequestro di persona a scopo terroristico o eversivo è stata, infatti, introdotta nell’ordinamento – in risposta all’allarmante ingravescenza del fenomeno dei sequestri con finalità politiche, registratasi in quel torno d’anni e sfociata in tragici episodi – dal decreto-legge n. 59 del 1978, accorpandola originariamente al sequestro estorsivo all’interno dello stesso art. 630 cod. pen. Fu la legge di conversione del decreto (legge n. 191 del 1978) a scindere le due figure, estrapolando il sequestro terroristico o eversivo dall’ambito dei delitti contro il patrimonio (Titolo XIII del Libro II) – collocazione palesemente incongrua sul piano sistematico – per trasferirlo nel nuovo art. 289-bis cod. pen., nella più corretta sede dei delitti contro la personalità interna dello Stato. Anche dopo tale separazione, peraltro, l’opzione iniziale ha avuto comunque un peso determinante nella riformulazione della figura del sequestro estorsivo, che è rimasta condizionata dall’intento di mantenere il parallelismo di disciplina con il sequestro terroristico o eversivo, secondo i ricordati canoni della “strategia differenziata” (al riguardo, sentenza n. 143 del 1984).
Sul piano, poi, della struttura della fattispecie, la condotta integrativa dei due delitti è identica, consistendo nel privare taluno della libertà personale. Le figure criminose si distinguono solo in rapporto alla finalità che sorregge la condotta (dolo specifico): di estorsione, in un caso, di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, nell’altro.
Con riguardo al trattamento sanzionatorio, identica è anche la pena prevista per la fattispecie-base: la reclusione da venticinque a trenta anni.
Le due norme incriminatrici stabiliscono, poi, identici aggravamenti di pena collegati alla morte del sequestrato, di intensità crescente a seconda che si tratti di conseguenza non voluta dal reo (reclusione per anni trenta) o di evento volontariamente causato (ergastolo: artt. 289-bis, secondo e terzo comma, e 630, secondo e terzo comma, cod. pen.).
In rapporto ad entrambe le fattispecie sono previste, inoltre, analoghe circostanze attenuanti correlate alla «dissociazione» dell’agente dagli altri concorrenti nel reato, funzionali a favorire il recupero della libertà personale da parte del sequestrato (artt. 289-bis, quarto comma, e 630, quarto comma, cod. pen.); a evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, o a stimolare il reo a prestare aiuto alla giustizia nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti (art. 630, quinto comma, cod. pen., che trova riscontro, quanto al sequestro terroristico o eversivo, nell’art. 4, primo comma, del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, recante «Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica», convertito, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15). Ancora: una ulteriore diminuzione di pena – per entrambi i delitti – è prevista a favore del «dissociato» che fornisca un contributo di eccezionale rilevanza, «anche con riguardo alla durata del sequestro e alla incolumità della persona sequestrata» (art. 6 del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, recante «Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia», convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82). Riguardo a tale insieme di attenuanti si registrano soltanto delle marginali differenze nelle diminuzioni di pena, peraltro tutte a sfavore del sequestro terroristico o eversivo.
Identica è pure la speciale disciplina del concorso eterogeneo di circostanze, dettata dall’art. 289-bis, quinto comma, cod. pen. e dall’art. 630, sesto comma, cod. pen. in rapporto alle fattispecie aggravate dalla morte del sequestrato.
A ulteriore dimostrazione del parallelismo, il legislatore ha, infine, introdotto due clausole generali di equiparazione, stabilendo che le norme del codice penale che richiamano l’art. 630 e tutte le norme processuali valevoli in rapporto al sequestro estorsivo si applichino anche al sequestro terroristico o eversivo (artt. 9-ter e 10 del decreto-legge n. 59 del 1978).
A fronte di quanto precede, il fondamentale elemento di differenziazione tra le due figure criminose – vale a dire la diversità del bene giuridico protetto, riflessa nei contenuti del dolo specifico – non solo non impedisce la comparazione, ma rafforza, anzi, il giudizio di violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza.
A fianco della comune lesione della libertà personale del sequestrato, il sequestro terroristico o eversivo offende, infatti, secondo una corrente lettura, l’ordine costituzionale (usualmente identificato nell’insieme dei principi fondamentali che nella Carta costituzionale servono a definire la struttura e la natura dello Stato); il sequestro estorsivo attenta, invece, al patrimonio. Anche a voler considerare le proiezioni sovraindividuali che, secondo un diffuso indirizzo interpretativo, detta offesa patrimoniale presenterebbe, sul piano dello spostamento di ricchezze verso organizzazioni criminali e del loro conseguente potenziamento (proiezioni, peraltro, non indefettibili, quante volte il sequestro estorsivo risulti concretamente avulso da un contesto di criminalità organizzata), non può esservi comunque alcun dubbio in ordine alla preminenza del primo dei beni sopra indicati rispetto al secondo, nella gerarchia costituzionale dei valori.
Tale rilievo, se giustifica la sottoposizione del sequestro terroristico o eversivo a uno “statuto” in generale più severo di quello proprio del sequestro estorsivo, quale quello delineato dalle restanti disposizioni comuni ai delitti contro la personalità dello Stato, di cui agli artt. 301 e seguenti del codice penale (punibilità dell’istigazione non accolta, del semplice accordo per commettere il reato, della formazione di bande armate per realizzarlo eccetera), rende, di contro, manifestamente irrazionale – e dunque lesiva dell’art. 3 Cost. – la mancata previsione, in rapporto al sequestro di persona a scopo di estorsione, di una attenuante per i fatti di lieve entità, analoga a quella applicabile alla fattispecie “gemella” che, coeteris paribus, aggredisce l’interesse di rango più elevato.
Ciò, tanto più ove si consideri la particolare funzione assolta da detta attenuante, rientrante nel novero delle circostanze cosiddette indefinite o discrezionali (non avendo il legislatore meglio precisato il concetto di «lievità» del fatto): funzione che consiste propriamente nel mitigare – in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pericolo) – una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale.
Di qui anche una concorrente violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., nel suo valore fondante, in combinazione con l’art. 3 Cost., del principio di proporzionalità della pena al fatto concretamente commesso, sul rilievo che una pena palesemente sproporzionata – e, dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato – vanifica, già a livello di comminatoria legislativa astratta, la finalità rieducativa (sentenze n. 341 del 1994 e n. 343 del 1993).
Al riguardo, non giova obiettare – come fa l’Avvocatura dello Stato – che la pena del sequestro estorsivo potrebbe essere comunque mitigata tramite l’applicazione delle circostanze attenuanti comuni e, in particolare, di quelle previste dagli artt. 62, numeri 4, 5 e 6, e 114, primo comma, cod. pen. Ai fini del rispetto del principio di eguaglianza, il rilievo è inconferente, giacché la disciplina generale relativa alle attenuanti comuni si applica anche al sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione: con la conseguenza che la censurata disparità di trattamento, connessa all’inapplicabilità al sequestro estorsivo dell’attenuante speciale, resta inalterata. Per altro verso, poi, l’attenuante del fatto di lieve entità, prevista dall’art. 311 cod. pen., non “assorbe”, in linea di principio, le attenuanti comuni evocate dalla difesa dello Stato, che hanno propri e distinti presupposti di applicabilità. Considerazioni, queste, estensibili, mutatis mutandis, anche alle attenuanti speciali connesse alla dissociazione, applicabili a entrambe le figure criminose, e alle attenuanti generiche (art. 62-bis cod. pen.).
6.– Al tempo stesso, l’accoglimento dell’odierno petitum non determina le incongruenze di segno opposto, evidenziate da questa Corte con riguardo alla questione concernente l’attenuante speciale per i fatti di lieve entità prevista in rapporto al sequestro di ostaggi (ordinanza n. 240 del 2011).
Discutendosi di una attenuante ad effetto comune – che determina, cioè, una riduzione della pena edittale nella misura ordinaria stabilita dall’art. 65, numero 3, cod. pen. (non eccedente un terzo) – la pena minima irrogabile per il sequestro di persona a scopo di estorsione, anche nel caso di riconoscimento dell’attenuante in questione, resta comunque largamente superiore a quella della tentata estorsione.
7.– Va dichiarata, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.
Le censure formulate dal rimettente in relazione al principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.) restano assorbite.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 630 del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2012.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 marzo 2012.
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