Nota a Corte di Cassazione, Sezione III Penale, sentenza 20 gennaio 2012, n. 4377
Come è ormai noto, la Sezione Terza della Corte di Cassazione, con sentenza n. 4377 del 20 gennaio 2012, ha esteso il principio di diritto già affermato dalla Corte Costituzionale in materia custodia cautelare nelle ipotesi di violenza sessuale e violenza sessuale su minore, anche alla violenza sessuale c.d. di gruppo.
La Consulta aveva dichiarato, infatti, la illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3 c.p.p., nella parte in cui “…nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600 bis, primo comma, 609 bis e 609 quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva altresì l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”.
La Suprema Corte, con la citata sentenza, ha ritenuto che il principio giuridico affermato dal Giudice della legittimità costituzionale fosse pacificamente estensibile per eadem ratio, anche alla fattispecie di cui all’art. 609 octies c.p.
Non è superflua, al fine della piena comprensione della pronuncia del Supremo Collegio, una breve disamina del sistema della cautela personale nell’ordinamento.
La custodia cautelare in carcere rappresenta - o dovrebbe rappresentare - la “extrema ratio”, nel senso che la detenzione di un soggetto prima che questo sia stato condannato per un qualsiasi reato, con sentenza passata in giudicato è - o dovrebbe essere - un fatto del tutto eccezionale.
Tutto questo, perché la prima e la più importante delle libertà riconosciute dalla Carta Costituzionale è la libertà personale, che è “inviolabile” (art. 13, comma 1 Cost) e può essere limitata soltanto “…per atto motivato dell’Autorità Giudiziaria nei soli casi e modi previsti dalla legge”. (art. 13, comma 2 Cost).
La libertà personale, in concreto, può essere limitata preventivamente, ed allora la privazione della libertà viene definita custodia cautelare e in seguito a una condanna, nel qual caso si parla di detenzione.
Nulla quaestio, ovviamente, per la reclusione che derivi da una sentenza penale di condanna. In questo caso, infatti, in esito ad un procedimento di accertamento della responsabilità, che può giungere a essere compiuto da tre organi giurisdizionali diversi, il soggetto viene privato della libertà perché riconosciuto colpevole della violazione di una norma giuridica assistita da una sanzione penale ed in esecuzione di una sentenza di condanna divenuta irrevocabile.
Il problema si pone, invece, in tutta la sua gravità, prima che l’accertamento del Giudice divenga definitivo.
L’art. 27 comma 2 della Costituzione sancisce, infatti il principio fondamentale in base al quale “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.
Tale principio, definito impropriamente “presunzione di innocenza”, andrebbe più esattamente indicato come “considerazione di non colpevolezza”. La differenza è sottile, ma la equivoca formulazione della norma è stata censurata ripetutamente dagli organismi di giustizia sovranazionali, che preferiscono un riconoscimento più pieno dell’innocenza dell’imputato prima della sentenza definitiva.
In ogni caso, il fatto che un soggetto possa essere considerato colpevole soltanto dopo il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna comporta un importante corollario.
La carcerazione eventualmente disposta prima della sentenza definitiva viene patita, alla luce di questo principio, da un individuo che l’ordinamento giuridico considera ancora innocente - o, quanto meno, non colpevole - fino a prova contraria.
E’, infatti, alla Pubblica Accusa che incombe l’obbligo di fornire la prova della colpevolezza dell’imputato, il quale, nel processo si limita - o dovrebbe limitarsi - a difendersi.
Per queste ragioni, il codice di procedura penale, in ossequio ai principi costituzionali, stabilisce, all’art. 273 che “Nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza”.
In sostanza, chi è indagato per un determinato reato non può, in primo luogo, essere sottoposto a una misura cautelare se il complesso di elementi di cui dispone l’accusa - il cosiddetto “quadro indiziario” - non è grave.
Inoltre, per poter sottoporre una persona a cautela personale, devono sussistere specifiche esigenze.
Il sacrificio della libertà personale dell’individuo, in altre parole, deve essere motivato dalla necessità di tutelare la collettività o la genuinità della prova o di assicurare la possibilità di eseguire la pena, una volta che sarà comminata.
In questo senso, per potere irrogare una misura custodiale è necessario che sussista il pericolo che l’indagato commetta un altro reato, che possa inquinare le prove o che possa darsi alla fuga.
In difetto dei gravi indizi di colpevolezza o delle esigenze di cautela, non può essere disposta la misura cautelare personale.
Per la custodia cautelare in carcere, esiste una ulteriore limitazione, dato che si può disporla solo se si procede per un delitto consumato o tentato per il quale sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni. Il che significa che è esclusa per le contravvenzioni e per i delitti di minore gravità.
Infine, a parte altri limiti previsti per la condizione di tossicodipendenza o lo stato di gravidanza, “La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata” (art. 275, comma 3 c.p.p.).
La norma appena citata è stata oggetto di ripetute modifiche ed addizioni.
Inizialmente si introdusse una deroga al principio generale, sancendo una presunzione relativa di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere per i delitti di mafia.
In altri termini, per quella particolare fattispecie, era sottratto al Giudice il potere di valutare se altre misure meno afflittive potessero essere adeguate a soddisfare le esigenze di cautela.
Presunzione relativa perché poteva essere superata in presenza di “elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”.
La presunzione introdotta dal Legislatore era fortemente sospetta di incostituzionalità. Tant’è vero che la Corte Costituzionale venne chiamata ad esprimersi sulla legittimità costituzionale della novella legislativa e chiarì che “la delimitazione della norma all’area dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso (delimitazione mantenuta nella recente novella) rende manifesta la non irragionevolezza dell’esercizio della discrezionalità legislativa, atteso il coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere è connaturato” (Corte Costituzionale, 24 ottobre 1995, n. 450).
La Corte, in sostanza, intese conservare la norma sottolineando come la disparità di trattamento dell’indagato o dell’imputato per delitti di mafia fosse giustificata dal particolare allarme sociale suscitato da quel tipo di reato.
Ma non può ignorarsi che la pronuncia interveniva nel 1995, all’indomani della stagione delle stragi di Capaci e Via D’Amelio e degli attentati del 1993 - 1994. E, dunque, aveva certamente anche una connotazione “politica”.
E’ convinzione di chi scrive che, in una condizione ambientale che non fosse stata resa patologica dai gravissimi fatti di sangue del biennio 1992 - 1994, la Consulta avrebbe cassato la norma oggetto del giudizio di legittimità costituzionale per palese contrasto quantomeno con gli artt. 3 e 27 della Costituzione
Successivamente il Legislatore - nonostante la Corte Costituzionale avesse lasciato chiaramente intendere che quella per i delitti di mafia era una deroga al principio generale che poteva essere tollerata, per dir così, una tantum - ha esteso la presunzione di adeguatezza a tutta una serie di altre fattispecie.
Da ultimo - si badi bene alle date - la presunzione di adeguatezza è stata estesa anche alle varie fattispecie di violenza sessuale, con d.L. 23 febbraio 2009, n. 11.
La data del decreto legge è importantissima, perché consente di cogliere un tratto della legislazione penale degli ultimi anni che è certamente, a modesto avviso di chi scrive, meritevole di censura.
La nuova norma fu introdotta il 23 febbraio 2009, perché il 14 febbraio 2009 a Roma, nel parco della Caffarella, fu consumato un efferato stupro in danno di una ragazza molto giovane.
Il Legislatore, sull’onda del clamore suscitato dalla vicenda e sulla spinta dell’opinione pubblica, estese allora, con decreto legge, la presunzione di adeguatezza della sola custodia carceraria alle ipotesi di violenza sessuale.
Ed è proprio su questa logica emergenziale che si appunta la censura di chi scrive alla tempistica legislativa - per non parlare della tecnica di redazione… - degli ultimi anni.
Non va, infatti, dimenticato che proprio questa vicenda è esemplare perché, le prime indagini condussero all’arresto di tre ragazzi rumeni, che poi risultarono innocenti pochi giorni dopo, pur avendo uno di loro confessato.
A chiara riprova della circostanza che proprio la “fluidità” della attività di investigazione preliminare, contrasta irrimediabilmente con la applicazione di misure draconiane in fase cautelare
Sulla modifica legislativa del 2009, si è finalmente espressa la Corte Costituzionale con sentenza 21 luglio 2010, n. 265.
La Consulta ha dichiarato la “illegittimità costituzionale di questo periodo… nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600 bis, primo comma, 609 bis e 609 quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva altresì l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.”.
In altri termini, la Corte Costituzionale ha chiarito che la presunzione di adeguatezza, nel caso di delitti sessuali, è compatibile con la nostra Costituzione solo se si prevede che possa essere vinta non soltanto nel caso in cui risulti che non sussistono esigenze cautelari, ma anche in quello in cui siano stati acquisiti elementi specifici nel caso concreto, dai quali risulti che la collettività può essere tutelata anche con una misura diversa da quella carceraria.
Non soltanto, cioè, nel caso in cui proprio non ci siano le esigenze cautelari, ma anche nell’altro in cui risulti che possono essere soddisfatte in altro modo.
A questo punto è necessario chiarire che il giudizio della Corte Costituzionale non può andare oltre le questioni che le sono state sottoposte.
Per questa ragione - e solo per questa, evidentemente - la pronuncia di incostituzionalità riguardava la ipotesi della violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) e la violenza sessuale su minore (art. 609 quater c.p.), mentre non poteva prendere in considerazione la violenza sessuale di gruppo (art. 609 octies c.p.)
Ma non vi è dubbio che, se analoga questione, riguardante la violenza sessuale di gruppo fosse stata sottoposta alla attenzione della Corte Costituzionale, il Giudice delle leggi non avrebbe potuto fare altro che adeguarsi alla propria giurisprudenza e dichiararne la costituzionale illegittimità nei termini già chiariti per le altre due fattispecie.
Così come, non vi è alcun dubbio, se solo si legge attentamente la giurisprudenza della Consulta, che allorquando all’attenzione del Giudice della legittimità costituzionale verranno portate altre fattispecie per le quali è stata introdotta la presunzione di adeguatezza, saranno irrimediabilmente cassate nei limiti che si sono testé ricostruiti.
Con la sentenza 4377/12 del 20 gennaio 2012, la Corte di Cassazione altro non ha fatto che adeguarsi alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, estendendo alla fattispecie della violenza sessuale di gruppo, la interpetrazione che la Consulta aveva già reso su quelle della violenza sessuale e della violenza sessuale su minore.
Dopo questa lunghissima premessa di carattere generale, non resta altro che illustrare il principio di diritto affermato nella sentenza n. 4377/12.
Non prima, tuttavia, di avere chiarito, una volta per tutte, che la Suprema Corte non ha, come hanno riportato i media e secondo il messaggio che si è voluto fare passare, statuito che per chi commette una violenza sessuale di gruppo non è necessario il carcere.
Semplicemente, conformando la propria giurisprudenza al dictum della Corte Costituzionale, ha chiarito che anche in materia di violenza sessuale di gruppo, come già in materia di violenza sessuale e di violenza sessuale su minore, la presunzione di adeguatezza della sola custodia carceraria al contenimento delle esigenze cautelari (che è, lo si ricordi bene, una eccezione al principio generale di proporzionalità della misura cautelare), può essere vinta se vi sono elementi in grado di far ritenere che anche altra misura sia adeguata.
Si legge in sentenza:
“…non vi è dubbio che i principi affermati dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 2010 appaiono potenzialmente riferibili alla disposizione di legge contestata agli odierni ricorrenti…
…
Nel corso della motivazione della sentenza n. 265 del 2010 la Corte Costituzionale ha ricostruito la filosofia che anima la disciplina delle misure cautelari personali affermando che quel regime è improntato al criterio del “minore sacrificio necessario”, assicurato mediante la previsione di una “pluralità graduata” di misure e mediante l’applicazione nel caso concreto di meccanismi “individualizzati” di selezione del trattamento cautelare. Ha, poi, rilevato (paragrafo7) che una simile filosofia non tollera né automatismi né presunzioni e prevede che sia il giudice ad apprezzare e motivare i presupposti e le condizioni per l’applicazione della singola misura in relazione alla situazione concreta. Ha, conseguentemente, considerato (paragrafo 7) che la disciplina introdotta con il citato decreto legge n. 11 del 2009, e successiva legge di conversione, si pone come un “vero e proprio regime cautelare speciale di natura eccezionale” dal momento che introduce due presunzioni, una relativa in ordine alle esigenze cautelari e una assoluta in ordine alla scelta della misura, che impedisce al giudice di adottare misure meno gravose della custodia in carcere.
La motivazione prosegue affrontando (ancora nel paragrafo 7) le ragioni per cui la Consulta e la Corte di Strasburgo hanno ritenuto che per i delitti legati alla criminalità organizzata e mafiosa tale eccezionale regime sia compatibile coi principi costituzionali in relazione alla speciale gravità e pericolosità degli illeciti, per giungere alla conclusione (paragrafi 9 e 10) che la novella del 2009 compie un “salto di qualità” non compatibile col sistema costituzionale allorché estende la presunzione assoluta circa la misura da applicare anche a reati, come quelli sessuali, che non si prestano a generalizzazioni, che risultano ampiamente eterogenei tra loro, che non presentano nella norma legami qualificati tra l’indagato e un ambiente delinquenziale pericoloso.
Osserva, ancora, la Corte costituzionale (paragrafi 10 e 11) che la irragionevolezza della soluzione normativa può essere agevolmente apprezzata ove si considerino la circostanza che i reati di violenza sessuale comprendano “condotte nettamente differenti quanto a modalità lesive del bene protetto” e la circostanza che solitamente si tratta di delitti meramente individuali che possono essere affrontati in concreto anche con misure diverse dalla custodia in carcere. Infine, la ragionevolezza del regime introdotto nel 2009 non può essere fondata sull’esigenze di risposta all’allarme sociale per il moltiplicarsi di delitti a sfondo sessuale, esigenza che “non può essere peraltro annoverata tra le finalità della custodia preventiva e non può essere considerata una sua funzione”.
Sulla base di tali e altre considerazioni, la sentenza giunge ad affermare l’esistenza del contrasto tra
la disciplina cautelare citata e gli artt.3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione.
Cosi riassunti i principi interpretativi che la Corte Costituzionale ha fissato con riferimento ai reati ex art. 609-bis e 609-quater c.p., questo giudice ritiene evidente che si è in presenza di principi “in toto” applicabili anche alla ipotesi di reato ex art.609-octies c.p., reato che presenta caratteristiche essenziali non difformi da quelle che la Corte costituzionale ha individuato per i reati sessuali (art. 609-bis e art. 609-quater c.p.) sottoposti al suo giudizio in relazione alla disciplina dell’art. 275, terzo comma, c.p.p.
Deve, dunque, concludersi che nel caso in esame l’unica interpretazione compatibile coi principi fissati dalla sentenza n. 265 del 2010, citata, è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia carceraria. anche agli indagati sottoposti a misura cautelare
per il reato previsto all’art. 609-octies c.p.p.”.
Questo è il contenuto della contestatissima sentenza n. 4377/12 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione.
Nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, la Corte, lungi dall’avere affermato che chi viene riconosciuto responsabile di una violenza sessuale di gruppo può anche non andare in carcere ha semplicemente chiarito che, in aderenza a quanto già stabilito dalla Corte Costituzionale, per questo tipo di reati, a differenza che per quelli di mafia, non vale la logica emergenziale che consente di ritenere costituzionalmente legittima la deroga ai principi generali e che, analogamente a quanto già ritenuto per la violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) e la violenza sessuale su minore (art. 609 quater), anche per la violenza sessuale di gruppo (art. 609 octies) è possibile adottare, in fase cautelare - e cioè prima della condanna definitiva - una misura diversa da quella della custodia in carcere per la tutela delle esigenze della collettività.
avv. Claudio Spagnoletti, Foro di Bari - febbraio 2012
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