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Penale.it - Corte Costituzionale, Sentenza 19 luglio 2011 (dep. 22 luglio 2011), n. 233

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Corte Costituzionale, Sentenza 19 luglio 2011 (dep. 22 luglio 2011), n. 233
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Illegittimità costituzionale dell’art. 297, comma 3, c.p.p. nella parte in cui – con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi – non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
-        Alfonso                 QUARANTA                                   Presidente
-        Paolo                     MADDALENA                                  Giudice
-        Alfio                     FINOCCHIARO                                      ”
-        Franco                   GALLO                                         ”
-        Luigi                     MAZZELLA                                            ”
-        Gaetano                 SILVESTRI                                    ”
-        Sabino                   CASSESE                                      ”
-        Giuseppe                TESAURO                                     ”
-        Paolo Maria           NAPOLITANO                                        ”
-        Giuseppe                FRIGO                                           ”
-        Alessandro            CRISCUOLO                                           ”
-        Paolo                     GROSSI                                         ”
-        Giorgio                  LATTANZI                                    ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 297, comma 3, del codice di procedura penale promosso dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di B.M. con ordinanza del 26 novembre 2010, iscritta al n. 30 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Udito nella camera di consiglio del 22 giugno 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
         Con ordinanza depositata il 26 novembre 2010, la Corte di cassazione, prima sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, quinto comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 297, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione datane dalle Sezioni unite della stessa Corte di cassazione, qualificabile come «diritto vivente» – «impedisce la retrodatazione della custodia cautelare in carcere nelle ipotesi in cui per i fatti contestati nella prima ordinanza l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato, prima della adozione della seconda misura».
         Il Collegio rimettente riferisce, in punto di fatto, che l’imputato ricorrente nel giudizio principale era stato raggiunto da due ordinanze applicative della custodia cautelare, emesse dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano «in […] solo apparentemente, in una prospettiva diacronica, distinti procedimenti». La prima ordinanza – emessa il 18 maggio 2008 ed eseguita il 20 maggio 2008 – atteneva a un delitto di detenzione e spaccio, in concorso, di sostanza stupefacente, commesso nei giorni 30 settembre e 1° ottobre 2006: reato per il quale l’imputato era stato condannato, a seguito di giudizio abbreviato, alla pena di sei anni e otto mesi di reclusione con sentenza del 16 settembre 2008, passata in giudicato in difetto di impugnazione. La seconda ordinanza, del 24 settembre 2009 ed eseguita il 14 ottobre 2009, era stata emessa nello stesso procedimento, proseguito nei confronti degli imputati – alcuni dei quali concorrenti con l’interessato nel reato che aveva dato luogo all’applicazione della prima misura – e atteneva a ulteriori fatti di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, nonché alla partecipazione a una associazione finalizzata al loro commercio: reati commessi nel corso dell’anno 2006 e fino al gennaio 2007.
         In relazione alla custodia cautelare applicata con tale seconda ordinanza, l’imputato aveva quindi presentato una istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini di durata massima di fase, basata sul disposto dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., in tema di cosiddette contestazioni a catena: norma in forza della quale, «se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, ovvero per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza, in relazione ai quali sussiste connessione ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettera b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri, i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave». Secondo la difesa, nell’ipotesi di specie avrebbero dovuto ravvisarsi tutti i presupposti di operatività della previsione normativa considerata, giacché i fatti oggetto della seconda ordinanza cautelare erano stati commessi anteriormente all’emissione del primo provvedimento restrittivo ed erano, altresì, legati da connessione qualificata al fatto con esso contestato.
Contro il provvedimento del Giudice per le indagini preliminari, di rigetto dell’istanza, l’interessato aveva proposto appello, che era stato a sua volta respinto dal Tribunale di Milano con ordinanza del 6 maggio 2010, sul rilievo – reputato assorbente – della carenza del presupposto di operatività dell’invocato meccanismo di retrodatazione, costituito dalla coesistenza delle due misure. Il Tribunale aveva fatto, in particolare, applicazione del principio affermato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 24 aprile 2009-18 maggio 2009, n. 20780, in forza del quale la disciplina dettata dalla norma censurata non opera qualora – come nel caso di specie – per i fatti oggetto della prima ordinanza cautelare, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’emissione della seconda ordinanza.
Avverso la decisione l’imputato aveva proposto il ricorso per cassazione di cui la Corte rimettente è investita, assumendo che l’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., nella lettura datane dalle Sezioni unite, violerebbe la ratio di garanzia sottesa alla disposizione, legittimando l’arbitrio del pubblico ministero nel ritardare la richiesta della successiva ordinanza cautelare e determinando, così, irragionevoli disparità di trattamento tra imputati in eguale situazione.
Tutto ciò premesso, la Corte rimettente osserva come il principio affermato dalle Sezioni unite nella sentenza dianzi richiamata costituisca «diritto vivente»: con la conseguenza che l’ordinanza impugnata, che ad esso si è adeguata, dovrebbe essere confermata.
Il giudice a quo dubita, tuttavia, sotto plurimi profili, della legittimità costituzionale della norma censurata, quale risultante alla luce della predetta interpretazione.
Essa contrasterebbe, anzitutto, con l’art. 3 Cost., generando irragionevoli disparità di trattamento tra situazioni omologhe. Ne sarebbe dimostrazione eloquente la vicenda oggetto del giudizio a quo, in cui, nell’ambito di un unico procedimento originario, per il primo reato contestato al ricorrente era intervenuto, a seguito di giudizio abbreviato, il giudicato di condanna; mentre il procedimento era proseguito sia nei confronti dei coimputati nel medesimo reato, sia in rapporto a ulteriori reati, successivamente contestati al ricorrente, sempre in concorso con altre persone. Con la irrazionale conseguenza che i coimputati, i quali avevano proseguito il giudizio ordinario, avevano maturato, grazie al meccanismo della retrodatazione, il diritto alla scarcerazione per decorrenza dei termini in rapporto ad ogni imputazione; mentre il ricorrente – che aveva optato per il giudizio abbreviato, senza poi nemmeno impugnare la sentenza di condanna – era rimasto detenuto per i reati contestati successivamente. Ciò, pur trattandosi di fatti commessi anteriormente alla prima ordinanza cautelare, avvinti da connessione qualificata al reato con questa contestato e addirittura conoscibili sulla base degli atti originariamente acquisiti (essendo stati desunti – secondo le deduzioni difensive, non contestate dall’ordinanza impugnata – da intercettazioni telefoniche cessate nel gennaio 2007).
Risulterebbe leso, in secondo luogo, l’art. 13, quinto comma, Cost., giacché l’inserimento, tra gli elementi ostativi alla scarcerazione, di un evento, quale il passaggio in giudicato della sentenza di condanna per il reato contestato con la prima ordinanza cautelare, violerebbe la regola costituzionale – debitamente valorizzata dalla giurisprudenza di questa Corte – in forza della quale la durata massima della custodia cautelare deve essere determinata dal legislatore, e non dipendere da iniziative, dolose o colpose, del pubblico ministero, ovvero da circostanze accidentali estranee alle esigenze di garanzia della libertà personale dell’imputato nel corso del processo (quali la colpa del giudice nella conoscenza degli atti processuali, l’eccessivo carico di lavoro gravante sugli uffici, le loro disfunzioni o la loro efficienza).
L’avere stabilito che la formazione del giudicato in ordine al primo reato in connessione qualificata fa venire meno la condizione di operatività della retrodatazione, costituita dalla contestualità delle misure, rifletterebbe, d’altra parte, una concezione del giudicato ormai superata dagli sviluppi della legislazione. Lungi dal cristallizzare in modo definitivo la situazione processuale, anche con riferimento alla pena inflitta, il giudicato sarebbe divenuto ormai «permeabile», tanto da poter essere modificato e «ridotto» a fronte di eventi successivi, quale, in particolare, il riconoscimento della continuazione tra il reato già giudicato e altro «sub iudice».
In questa prospettiva, la sopravvenienza del giudicato relativamente al reato oggetto della prima ordinanza cautelare non avrebbe alcun significato rilevante, tale da giustificare il depotenziamento della ratio di garanzia sottesa alla disciplina della retrodatazione, la cui applicazione non sopporterebbe limitazioni che non si connettano a interessi di pari o superiore rango costituzionale. Conclusione, questa, condivisa anche da alcune pronunce della stessa Corte di cassazione, sia pure in rapporto alla diversa fattispecie del giudicato intervenuto successivamente all’emissione della seconda ordinanza cautelare.
         La norma censurata violerebbe, da ultimo, la presunzione di non colpevolezza, sancita dall’art. 27, secondo comma, Cost. Attribuendo al giudicato formatosi in relazione a uno solo dei reati in connessione qualificata un effetto ostativo alla retrodatazione, si correrebbe, infatti, il rischio di imputare l’esecuzione della pena, in corso per il reato già giudicato, ove questo sia meno grave – stante la più che probabile riduzione conseguente al riconoscimento del nesso della continuazione – alla pena conseguente ai reati più gravi oggetto della seconda ordinanza cautelare e ancora da giudicare: sicché, in pratica, l’imputato sconterebbe una pena per reati relativamente ai quali non è ancora intervenuta una sentenza definitiva.
Considerato in diritto
         1. – La Corte di cassazione, prima sezione penale, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 297, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione accolta dalle Sezioni unite della stessa Corte di cassazione, qualificabile come «diritto vivente» – «impedisce la retrodatazione della custodia cautelare in carcere nelle ipotesi in cui per i fatti contestati nella prima ordinanza l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato, prima della adozione della seconda misura».
         Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata, intesa in tali termini, violerebbe, anzitutto, l’art. 3 della Costituzione, determinando una irragionevole disparità di trattamento di situazioni eguali. In particolare, i coimputati dei medesimi reati si vedrebbero negato o riconosciuto il diritto alla scarcerazione, a seconda che nei loro confronti si sia formato o meno il giudicato sui fatti oggetto della prima ordinanza cautelare, col risultato, tra l’altro, di penalizzare coloro che abbiano scelto riti alternativi e omesso di impugnare la sentenza di condanna.
         Sarebbe leso, altresì, l’art. 13, quinto comma, Cost., giacché l’attribuzione al giudicato sui fatti contestati con la prima ordinanza di un effetto ostativo alla retrodatazione violerebbe la regola che vuole i termini massimi della custodia cautelare predeterminati dal legislatore, e non dipendenti da iniziative, dolose o colpose, del pubblico ministero, ovvero da circostanze accidentali estranee alle esigenze di garanzia della libertà personale dell’imputato nel corso del processo.
         La norma denunciata si porrebbe in contrasto, da ultimo, con la presunzione di non colpevolezza, sancita dall’art. 27, secondo comma, Cost.: presunzione che rischierebbe di essere elusa, ove risulti prevedibile che la pena definitiva in corso di esecuzione – relativa ai reati meno gravi contestati con la prima ordinanza cautelare – dovrà essere imputata, in forza del vincolo della continuazione con i reati più gravi ancora da giudicare, oggetto della seconda ordinanza, alla pena conseguente al futuro giudicato di condanna per questi ultimi.
         2. – In riferimento agli artt. 3 e 13, quinto comma, Cost., la questione è fondata, nei termini di seguito specificati.
         3. – Il quesito di costituzionalità sottoposto all’esame della Corte investe la disciplina delle cosiddette contestazioni a catena: disciplina che – raccordandosi in modo diretto ai parametri costituzionali ora evocati – trova la sua ratiofondante nell’esigenza di evitare che prassi artificiose o colpevoli inerzie dell’autorità giudiziaria possano incidere in senso negativo sulla permanenza in vinculis dell’imputato, determinando uno spostamento in avanti del dies a quo per il computo dei termini massimi di durata delle misure cautelari.
         Giova, al riguardo, ricordare come, nel vigore del codice di procedura penale del 1930 – che ignorava, in origine, il fenomeno – fosse stata la giurisprudenza di legittimità ad enucleare, in via interpretativa, eccezioni al principio di autonoma decorrenza dei termini in rapporto a ciascun titolo custodiale, finalizzate ad arginare possibili fenomeni elusivi. Si era ritenuto, in particolare, che nel caso in cui una persona risultasse colpita da una pluralità di provvedimenti cautelari, la colpevole inerzia dell’autorità giudiziaria nell’adottare i provvedimenti successivi al primo, e a maggior ragione l’artificioso ritardo nelle nuove contestazioni, non potessero dar luogo a un prolungamento della custodia: dovendo, in tal caso, operare una regola di retrodatazione, in forza della quale i termini di durata delle misure successive andavano computati dal momento di esecuzione del primo provvedimento.
         Detto orientamento giurisprudenziale trovava una eco normativa dapprima nell’art. 2 della legge 28 luglio 1984, n. 398 (Nuove norme relative alla diminuzione dei termini di carcerazione cautelare e alla concessione della libertà provvisoria), che sostituiva l’art. 271 del codice di rito del 1930; indi nell’originario art. 297, comma 3, del codice vigente, sostanzialmente riproduttivo della disposizione ora citata, e, infine, nell’art. 12 della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa), che ha sostituito, ampliandone la portata, detto art. 297, comma 3.
         La regolamentazione legislativa del fenomeno – pur partecipando della medesima ratio – si è posta, peraltro, in una prospettiva differenziata, quanto a meccaniche di intervento, rispetto all’indirizzo giurisprudenziale dianzi ricordato. In luogo, cioè, di far perno sulla “rimproverabilità” all’autorità giudiziaria della frammentazione temporale delle misure, il legislatore ha preferito individuare talune relazioni tra i reati oggetto dei plurimi provvedimenti cautelari, reputandole di per sé giustificative della retrodatazione dei termini. In particolare, il nuovo testo dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. introdotto dalla legge n. 332 del 1995 rende applicabile detta disciplina – oltre che alle ordinanze cautelari emesse «per uno stesso fatto», benché «diversamente circostanziato o qualificato» – anche alle ordinanze emesse per «fatti diversi», laddove si tratti di fatti commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza e sempre che tra gli stessi intercorra una connessione qualificata (concorso formale, continuazione o connessione teleologica).
         Alla luce di una lettura ormai consolidata, in presenza delle condizioni ora ricordate la retrodatazione opera automaticamente: senza, cioè, che occorra accertare che i fatti oggetto del secondo provvedimento cautelare fossero desumibili dagli atti acquisiti dall’autorità giudiziaria al momento dell’emissione della prima ordinanza e, tanto meno, che dagli atti emergessero elementi già idonei a giustificare l’adozione della misura cautelare.
         Si tratta di soluzione che questa Corte ha giudicato del tutto ragionevole, in quanto sorretta dal preminente intento «di comprimere entro spazi sicuri il termine di durata massima delle misure cautelari, in perfetta aderenza con quanto previsto dall’art. 13, ultimo comma, della Carta fondamentale». Obiettivo, questo, con il quale non può «ritenersi incoerente […] la scelta di individuare alcune ipotesi che, più di altre, presentano elementi di correlazione contenutistica di spessore tale da consentirne una valutazione unitaria agli effetti del trattamento cautelare», secondo una prospettiva volta ad «impedire che, nel corso delle indagini, le contestazioni cautelari plurime per fatti connessi ammettano un diverso trattamento sul piano della durata delle misure a seconda che l’indagato riesca o meno a provare l’artificiosa diluizione nel tempo delle singole ordinanze» (sentenza n. 89 del 1996; in senso conforme, ordinanze n. 20 del 1999, n. 349 e n. 221 del 1996).
         Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (si veda, in particolare, la sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione 22 marzo 2005-10 giugno 2005, n. 21957), tale disciplina opera non soltanto quando le ordinanze cautelari siano emesse nello stesso procedimento, ma anche quando – come nel caso oggetto del giudizio a quo (a seguito della intervenuta separazione dei procedimenti) – le misure vengano adottate nell’ambito di procedimenti distinti. Ciò, a evitare che la separazione dei procedimenti si traduca in un meccanismo elusivo: prospettiva nella quale, peraltro, l’operatività della regola di computo dei termini di cui si discute resta subordinata all’ulteriore condizione – stabilita dal secondo periodo dello stesso art. 297, comma 3, cod. proc. pen. – che i fatti oggetto del diverso procedimento e del secondo titolo custodiale risultino desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio per i fatti contestati con la prima ordinanza (in caso contrario, infatti, lo svolgimento separato dei procedimenti dovrebbe ritenersi imposto da ragioni oggettive).
         Dopo la novellazione operata dalla legge n. 332 del 1995, rimaneva, per converso, incerto il trattamento da riservare all’ipotesi – non regolata dalla legge – in cui i plurimi provvedimenti cautelari riguardassero reati non uniti da un rapporto di connessione qualificata. A fronte della formazione di un indirizzo giurisprudenziale contrario all’operatività della retrodatazione in tale ipotesi – il quale, benché successivamente smentito dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (si veda la già citata sentenza 22 marzo 2005-10 giugno 2005, n. 21957), vincolava, nel caso di specie, i giudici rimettenti quale principio di diritto enunciato in sede di rinvio – questa Corte interveniva, dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., «nella parte in cui non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente ordinanza» (sentenza n. 408 del 2005).
         La Corte rilevava come, nell’evenienza ora indicata, nella quale la diluizione temporale delle misure risulta concretamente ascrivibile a scelte o a negligenze dell’autorità giudiziaria, l’esclusione della retrodatazione dei termini di durata resti «del tutto ingiustificata». In un contesto normativo attento a calibrare l’intera disciplina dei termini di durata delle misure limitative della libertà personale sulla falsariga dei valori della adeguatezza e proporzionalità, infatti, «nessuno spazio può residuare in capo agli organi titolari del “potere cautelare” di scegliere il momento a partire dal quale possono essere fatti decorrere i termini custodiali in caso di pluralità di titoli e di fatti reato cui essi si riferiscono. Se dunque il legislatore, in perfetta aderenza con i valori di certezza e di “durata minima” della custodia cautelare (v. art. 13, primo ed ultimo comma, Cost., nonché art. 5, comma 3, Convenzione europea dei diritti dell’uomo), ha ritenuto di dover stabilire […] meccanismi legali di retrodatazione automatica dei termini, in presenza di certe condizioni, nel caso in cui tra i diversi titoli sussista l’indicato nesso di connessione qualificata, a fortiori l’identico regime di garanzia dovrà operare in tutti i casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti coercitivi essere adottati in un unico contesto temporale, per qualsiasi causa l’autorità giudiziaria abbia invece prescelto momenti diversi per l’adozione delle singole ordinanze». In simile evenienza, difatti, la durata della custodia viene a dipendere «non da un fatto obiettivo (rispettoso, dunque, del canone dell’uguaglianza e della ragionevolezza), quale quello dell’acquisizione di elementi idonei e sufficienti per adottare i diversi provvedimenti cautelari, ma da una imponderabile valutazione soggettiva degli organi titolari del “potere cautelare”».
4. – Ciò premesso, nell’odierno frangente viene in rilievo un ulteriore profilo problematico del fenomeno: quello, cioè, delle interferenze tra la disciplina delle “contestazioni a catena” e il giudicato di condanna formatosi in rapporto ai reati oggetto del primo provvedimento cautelare.
         Come si ricorda nell’ordinanza di rimessione, il tema ha formato oggetto di una pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione, la quale – dirimendo il pregresso contrasto di giurisprudenza, nel senso dell’adesione all’indirizzo in precedenza maggioritario – ha individuato nella formazione di detto giudicato, se anteriore alla data di adozione della seconda ordinanza cautelare, un elemento preclusivo implicito all’operatività della disciplina in questione (sentenza 23 aprile 2009-18 maggio 2009, n. 20780). Secondo la citata decisione, infatti, la sentenza definitiva di condanna, determinando la cessazione della prima vicenda cautelare (cui si sostituisce l’espiazione della pena inflitta) ancora prima che si innesti la seconda, esclude eo ipso la configurabilità di una situazione di «coesistenza» tra plurime misure. Situazione, che deve considerarsi, di contro, presupposta ai fini dell’applicabilità della regola stabilita dalla disposizione censurata, alla luce di un complesso di argomenti, a cominciare da quello letterale: l’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. – rivolgendosi all’«imputato» e facendo riferimento all’«imputazione» più grave, quale parametro per la commisurazione dei termini cautelari – mostra, infatti, di richiedere l’attuale pendenza dei procedimenti e la contestualità temporale tra le ordinanze concatenate.
         Al principio ora ricordato si è conformata la successiva giurisprudenza di legittimità: il che consente di parlare di una lettura, allo stato, consolidata della norma sottoposta a scrutinio.
         5. – Questa Corte è chiamata quindi a verificare se l’indicata preclusione all’operatività del regime della retrodatazione possa ritenersi conforme ai parametri evocati dal giudice a quo.
         Al riguardo, è opportuno ribadire e sottolineare come il nucleo di disvalore del fenomeno delle “contestazioni a catena” risieda nell’impedimento, ad esso conseguente, al contemporaneo decorso dei termini relativi a plurimi titolicustodiali nei confronti del medesimo soggetto. Il “ritardo” nell’adozione della seconda ordinanza cautelare non vale, ovviamente, a prolungare i termini di durata massima della prima misura – essendo gli stessi predeterminati per legge, ai sensi dell’art. 303 cod. proc. pen. – ma, in difetto di adeguati correttivi, avrebbe l’effetto di espandere la restrizione complessiva della libertà personale dell’imputato, tramite il “cumulo materiale” – totale o parziale – dei periodi custodialiafferenti a ciascun reato. Ciò, col risultato di porre l’interessato in situazione deteriore rispetto a chi, versando nella medesima situazione sostanziale, venga invece raggiunto da provvedimenti cautelari coevi, e di rendere, al tempo stesso, aggirabile la predeterminazione legale dei termini di durata massima delle misure, imposta dall’art. 13, quinto comma, Cost. Ed è questo l’effetto che la disciplina dettata dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., quale integrata dalla citata sentenza di questa Corte n. 408 del 2005, mira a prevenire: in termini rigidi e di “protezione avanzata”, quando tra i reati contestati con i provvedimenti cautelari sequenziali sussista un legame contenutistico di particolare spessore, quale quello espresso dalla identità del fatto o dalla connessione qualificata; ovvero subordinatamente alla concreta verifica della “rimproverabilità” del ritardo all’autorità giudiziaria, in assenza di quel legame.
         Se così è, non si può peraltro ritenere che – in linea generale – la «coesistenza» tra le misure cautelari rappresenti, sul piano logico-giuridico, un presupposto necessario affinché si producano le conseguenze lesive che il meccanismo della retrodatazione tende a scongiurare. Il vulnus arrecato ai principi costituzionali che presiedono alla disciplina della libertà personale dell’imputato è, anzi, maggiore allorché la seconda ordinanza cautelare intervenga dopo che la prima, per qualunque ragione, ha cessato di produrre i suoi effetti. Il prolungamento della restrizione della libertà personale risulta, infatti, massimo allorché il secondo titolo – anziché sovrapporsi, per un periodo più o meno lungo, al primo, confluendo, così, almeno in parte, in un unico “periodo custodiale” – sia adottato quando il precedente ha già esaurito completamente le sue potenzialità, con conseguente cumulo integrale dei due periodi di privazione della libertà personale.
         Altrettanto evidente è l’irrilevanza, sotto il profilo considerato, dello iato temporale che eventualmente intercorra tra la cessazione degli effetti della prima misura e l’applicazione della seconda. Per quanto ampio, esso non elide la circostanza che a un periodo di custodia cautelare – magari interamente patito per scadenza del termine finale – se ne sommi successivamente un altro che – alla luce della regola legale di retrodatazione – non sarebbe dovuto affatto iniziare o, comunque, avrebbe avuto una durata inferiore a quella consentita dai normali criteri di computo. Unica conseguenza della mancanza di continuità tra le misure è l’assolutamente ovvia impossibilità di tenere conto del periodo nel quale il soggetto è tornato in libertà, nella verifica della scadenza dei termini della custodia.
         6. – La conclusione – per il profilo che qui interessa – non muta, peraltro, neppure quando l’evento che determina la cessazione della prima vicenda cautelare sia costituito dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna relativa al reato che l’ha originata.
         Per escludere la lesione costituzionale denunciata non è, infatti, sufficiente evocare la fondamentale regola in materia di esecuzione penale stabilita dall’art. 657, comma 1, cod. proc. pen., che impone di detrarre la custodia cautelare subita dalla pena detentiva inflitta con la sentenza irrevocabile: meccanismo che, “trasformando” il periodo di custodia già sofferto in espiazione di pena, impedirebbe, in tesi, di “imputare” – con operazione di segno inverso – quello stesso periodo alla durata massima della custodia cautelare applicata con una diversa ordinanza.
         A prescindere da ogni altro rilievo, il ragionamento ora ricordato non vale, di nuovo, a cancellare il fatto che, anche nell’ipotesi considerata, l’adozione scaglionata nel tempo dei titoli custodiali pone l’imputato in situazione oggettivamente deteriore, rispetto a quella in cui si sarebbe trovato ove le ordinanze fossero state emesse nel medesimo contesto temporale. In quest’ultimo caso, infatti, il tempo massimo di durata si sarebbe consumato parallelamente per entrambe le misure cautelari, confluendo in un unico periodo di privazione della libertà personale. Non solo: ma, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna per il reato contestato con la prima ordinanza, nel computo del termine della custodia cautelare applicata con la seconda ordinanza si sarebbe dovuto comunque tenere conto anche del periodo nel quale la misura in questione si è sovrapposta all’esecuzione della pena inflitta per il primo reato. Ciò, in forza dell’espressa previsione dell’art. 297, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen., secondo la quale «ai soli effetti del computo dei termini di durata massima, la custodia cautelare si considera compatibile con lo stato detentivo per esecuzione di pena». Questa previsione rende palese come, se la custodia cautelare riguarda un reato diverso da quello oggetto della condanna irrevocabile, il passaggio alla fase esecutiva – e, dunque, anche l’ipotizzato fenomeno di “trasformazione” della custodia già sofferta per il reato già giudicato in espiazione di pena, a seguito della regola di detrazione prevista dall’art. 657, comma 1, cod. proc. pen. – non precluda l’operatività dell’art. 303 cod. proc. pen. – e, quindi, la rilevanza del decorso dei termini da esso previsti – per il reato ancora da giudicare.
         Anche nell’evenienza considerata sussiste, dunque, l’esigenza di prevenire possibili fenomeni di aggiramento dei termini massimi di custodia. Tale situazione potrebbe prestarsi, in effetti, ad abusi persino più gravi: quale quello di attendere, prima dell’emissione della seconda ordinanza relativa a fatti diversi, non soltanto l’esaurimento della prima vicenda cautelare, ma anche l’intera espiazione della pena inflitta per il reato cui questa si riferisce, evitando così di rendere operante la regola di computo di cui al citato art. 297, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen.
         7. – Neppure, da ultimo, è possibile ritenere che, nell’ipotesi di cui si discute, le esigenze di garanzia sottese alla disciplina delle contestazioni a catena restino integralmente soddisfatte dal principio del ne bis in idem, enunciato dall’art. 649 cod. proc. pen.
         È ben vero che il divieto di un secondo giudizio per lo stesso fatto sul quale è intervenuta una pronuncia irrevocabile – anche se diversamente considerato per il titolo, il grado o le circostanze – opera anche in rapporto alle iniziative cautelari: determinando, perciò, una preclusione radicale all’emissione di ulteriori titoli custodiali, che assorbe le finalità cui è preordinata la regola di retrodatazione dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. Ma tale assorbimento si produce esclusivamente in rapporto alle ordinanze cautelari emesse in sequenza per uno «stesso fatto»: lasciando, per converso, totalmente scoperta, sul piano della tutela, l’ipotesi – estranea allo spettro di operatività dell’art. 649 cod. proc. pen. e che viene specificamente in rilievo nel giudizio a quo – delle ordinanze sequenziali relative a «fatti diversi».
         8. – Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dunque concludere che – in rapporto a tale ipotesi – la preclusione all’applicazione del meccanismo di retrodatazione dei termini, connessa alla formazione del giudicato sui fatti oggetto della prima ordinanza cautelare in data anteriore a quella di adozione della seconda ordinanza – evento sul quale incide, peraltro, un complesso di fattori, anche casuali – viola l’art. 3 Cost., determinando, per le ragioni dianzi evidenziate, ingiustificate disparità di trattamento tra imputati che versano in situazioni eguali.
         La medesima preclusione viola, altresì, l’art. 13, quinto comma, Cost., nella misura in cui apre la via alla possibile elusione dei limiti massimi di durata della custodia cautelare prefigurati dal legislatore.
         9. – L’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. (come integrato dalla sentenza di questa Corte n. 408 del 2005) va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui – con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi – non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura.
         La censura formulata dal giudice a quo in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost. resta assorbita.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
         dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 297, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui – con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi – non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura.
         Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 luglio 2011.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2011.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: MELATTI
 
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