Versione per la stampa
1. Come spesso accade, tre parole del legislatore sono in grado di trasformare “intere biblioteche in carta straccia” (Von Kirchmann).
Prima del luglio 2010, complice una tecnica normativa non sempre ineccepibile, si era ripetutamente posta all’attenzione degli interpreti la questione attinente alla natura giuridica della confisca del veicolo; confisca prevista quale conseguenza della commissione del reato di cui all’art. 186 del Codice della Strada nella sua ipotesi più grave (accertamento alcoolimetrico superiore a 1,5 g/l).
In un primo tempo, infatti, la giurisprudenza aveva seguito una lettura maggiormente aderente al testo normativo – che richiamava espressamente l’art. 240 c.p. – collocando la confisca tra le misure di sicurezza patrimoniali. Poi, attraverso alcune piccole correzioni di rotta del legislatore ed una giurisprudenza piuttosto indecisa, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite (Cass. pen., Sez. Un., 25.02.2010, n. 23428), riconosceva la natura di sanzione penale accessoria della confisca.
Tuttavia, risolvendo alla radice la questione, le modifiche al Codice della Strada introdotte dalla legge n. 120 del 29.07.2010 affermavano (ancorché indirettamente) la natura amministrativa della confisca del veicolo.
A tal fine, risultava sufficiente l’eliminazione del riferimento all’art. 240 c.p. (come, peraltro, aveva imposto la Corte Cost. con sent. n. 196/2010) ed il contestuale richiamo alla disciplina dell’art. 224-ter del C.d.S. (inserito dalla medesima legge del luglio 2010). A sua volta, quest’ultima, richiamava le disposizioni in materia di sequestro amministrativo di veicolo contenute all’art. 213 del codice stradale.
Così, se per un verso, la novella legislativa forniva soluzione al problema (non certo indifferente sul piano pratico) del carattere amministrativo della sanzione; per un altro, trasferendo - dall’ambito penalistico a quello amministrativo - una parte delle conseguenze derivanti dalla commissione dell’illecito previsto dall’art. 186 C.d.S., generava una messe di questioni interpretative di non poco momento. Ciò, soprattutto, con riferimento al diritto intertemporale: quid iuris nel caso di reato commesso prima dell’entrata in vigore della novella del luglio 2010 e sequestro penale ancora cogente dopo tale legge?
2. I casi prospettati dalla giurisprudenza erano sostanzialmente tre:
1) totale caducazione della misura cautelare, senza alcun obbligo, per l’Autorità giudiziaria, di trasmissione degli atti a quella amministrativa, versandosi in un’ipotesi di abrogazione della legge penale (con effetti ex art, 2, c. 2, c.p.) e sussistendo un divieto di retroattività (anche) in materia “depenalizzata” (art. 1, L. 689/81);
2) caducazione dell’ordinanza (cioè del provvedimento giudiziale) ma non della misura cautelare, in quanto “il venir meno della cautela penale” (così la Suprema Corte in Cass. pen., Sez. IV, 22.09.2010, n. 38570) non implicherebbe “la caducazione del sequestro amministrativo”: ne discenderebbe, poi, rimessione in termini del ricorrente per l’eventuale opposizione all’Autorità giudiziaria (civile) indicata dal combinato disposto degli artt. 224-ter, comma 5 e 205 C.d.S.;
3) nessuna caducazione: il giudice penale, investito della questione, secondo il principio della perpetuatio iurisdictionis, dovrà unicamente valutare se l’atto compiuto (il sequestro “denaturato”) sia conforme ai requisiti sostanziali di natura amministrativa attualmente necessari oppure no (v. Cass. pen., Sez. IV, 04.11.2010, n. 40523 est. Pres. MARZANO; conforme a Cass. pen., Sez. IV, 06.10.2010, n. 41080, est. D’ISA).
Appare di tutta evidenza che, per stabilire la correttezza o meno, sul piano ermeneutico, delle tre ipotesi prospettate (e prospettabili?) occorre, preliminarmente, affinare le armi in mano all’interprete.
La prima, necessaria, constatazione obiettiva, da cui muovere nel ragionamento, è quella riportata in motivazione nella citata pronuncia (Cass. pen. n. 38570/2010, cit.) secondo cui la novella non ha intaccato la natura penale dell’illecito (anzi, a ben vedere, la stessa legge ne ha rafforzato le pene principali) ma ha proceduto – unicamente – alla depenalizzazione di una sanzione accessoria, “evocando i principi stabiliti dall’art. 2, c. 4, c.p. e dall’art. 1 legge 689/81” (ibidem).
Tuttavia, tale considerazione non pare bastevole per la comprensione dell’integrale portato della modifica di legge: la situazione che con la riforma del luglio 2010 si è venuta a delineare – “singolare e forse inedita”: così Cass. pen., Sez. IV, 06.10.2010, n. 41080 – è “diversa” da quella tipica di depenalizzazione tout court di un illecito (come interpretata a partire da Cass. pen., Sez. Un. 16.03.1994, n. 7394).
Nel caso che ci occupa, difatti, il legislatore non ha inteso trasformare un illecito penale nell’omologo amministrativo – perché la norma di cui all’art. 186 C.d.S. è, e resta, nelle ipotesi più gravi, norma penale – ma ha semplicemente “denaturato” una sanzione accessoria; tra l’altro – aggiunge la sentenza (Cass. pen. n. 41080/2010, cit.) – una sanzione “non iscrivibile al novero dell’apparato sanzionatorio tipico dell’art. 17 c.p.”.
La specificazione relativa al contesto normativo modificato, secondo la Corte di Cassazione, non può, quindi, non avere un corollario ben definito: in ossequio il principio del favor rei – scrivono ancora i Supremi Giudici (ibidem) – “il trattamento sanzionatorio” risulterà “per definizione, più favorevole per l’imputato”.
3. È proprio dall’inedita ibridazione tra natura penale e amministrativa, allora, che le prime letture della novella divergono tra loro, generando contrasti (a brevissima distanza di tempo) addirittura all’interno della medesima sezione della Suprema Corte.
Da una parte, infatti, alcune primissime pronunce (tra cui, a distanza di un giorno l’una dall’altra: Cass. pen., Sez. IV, 21.09.2010, n. 38561; Sez. IV, 22.09.2010, n. 38569; Sez. IV, 23.09.2010 n. 38591) stabilivano una sopravvenuta mancanza di giurisdizione sulla legittimità del sequestro “trasformato” da preventivo penale (art. 321, c. 2, c.p.p.) in amministrativo, con conseguente mantenimento della misura reale (ancorché non più penale) e “notificazione” all’interessato della decisione abdicativa, al fine di consentirgli un’eventuale opposizione ex art. 205 C.d.S..
Dall’altra, invece, con la pronuncia del 4 novembre 2010 (cit.. est. Pres. F. MARZANO), la Corte inaugurava un altro filone interpretativo (poi seguìto, di lì a poco, anche se su questioni parzialmente difformi, da Cass. pen., Sez. IV, n. 41080), secondo cui - essendo dalla nuova legge comunque demandata l’applicazione della sanzione amministrativa della confisca (salvo alcuni rari casi previsti dall’art. 224-ter CdS) al giudice penale in sentenza (o decreto penale) – per effetto di una sorta di ultrattività della giurisdizione penale in vista dell’inflizione finale, sarebbe “tuttora dato al giudice penale” (senza investire l’autorità amministrativa) – è scritto in sentenza – “delibare a tali fini la fattispecie, tenuto conto, peraltro, del generale principio della competenza del giudice penale ad infliggere anche le sanzioni amministrative”. Il parallelo, operato in tal caso, è con l’applicazione della sanzione accessoria amministrativa della sospensione o revoca della patente di guida.
In altre parole, secondo questo (più recente, anche se di poco) indirizzo della giurisprudenza di legittimità, il giudice penale (nel caso di sequestro disposto correttamente secondo l’allora disciplina vigente: tempus regit actum) è “in grado” e deve “valutare la sussistenza attuale degli elementi presupposti al sequestro” nella sua “connotazione amministrativa”. Svestendo, cioè, i panni del giudice penale ed indossando, per un attimo, quelli del Prefetto. Mascheramento, questo - paiono sostenere gli ermellini - piuttosto agevole, risultando l’accertamento demandato all’autorità amministrativa assolutamente coincidente “con la verifica, precedentemente operata, della sussistenza o meno del fumus commissi delicti che costituiva presupposto anche del provvedimento di cui all’art. 321, comma 2, c.p.p.”.
4. Orbene, si tralasci in questa sede il tema – pur importante – dell’applicazione, da parte del giudice penale (ovviamente su necessaria richiesta del P.M.), del sequestro preventivo ai sensi del 1° comma dell’art. 321, eventualmente anche con efficacia “parallela” a quello amministrativo imposto dal Prefetto sulla scorta delle nuove disposizioni: tale possibilità risulta difatti – e comprensibilmente – ammessa da tutta la giurisprudenza.
Si valuti, invece, con attenzione il percorso argomentativo seguito dalla Corte di Cassazione per giungere all’opzione interpretativa appena vista. Tre risultano le asserzioni di partenza del ragionamento:
1) l’ennesima (così definita in sentenza) riforma del Codice della Strada non ha dettato alcuna disciplina transitoria in relazione ai sequestri disposti sotto il vigore della precedente disciplina;
2) l’attuale confisca non può aver conservato la sua originaria natura penale, in quanto, se così fosse, ci si troverebbe di fronte ad un’evidente “aporia sistematica” e ad una “disciplina abnorme e costituzionalmente illegittima”;
3) il trattamento amministrativo (di confisca e, prima, di sequestro) è, per definizione, più favorevole all’imputato, dovendosi scindere l’apparato sanzionatorio penale tipico (ex art. 17 c.p.), rimasto immutato (anzi, aggravato), da quello meramente accessorio, per cui, secondo la Corte, non varrebbero i canoni indicati in Cass. pen., Sez. Un. n. 7394 del 16.03.1994.
I primi due pilastri del ragionamento sono pienamente condivisibili. Il terzo, invece, andrebbe probabilmente rivalutato; e ciò, sia alla luce della singolarità del caso (assolutamente inedito) sia alla luce degli effetti, ancor più singolari, derivanti dalla soluzione giuridica prescelta: quella di un giudice penale che dovrebbe vestire panni non suoi (quelli del Prefetto), in una sorta di osmosi temporanea tra ruoli diversi.
5. Molto più convincente, invece, appare la soluzione proposta da un (altrettanto) recente giurisprudenza di merito, emessa in data 24.11.2010, in un caso consimile, dal Tribunale Collegiale di Forlì (Pres. M. Dovesi, est. A. Trinci), chiamato a decidere su un appello reale proposto dal sequestratario dopo l’entrata in vigore della legge n. 120/2010.
Tale soluzione interpretativa – ampiamente argomentata e ben motivata - muoveva da un presupposto diverso da quello indicato dalla Suprema Corte, la quale, come visto, pareva escludere la sanzione accessoria amministrativa dal novero delle pene (cioè del trattamento sanzionatorio stricto sensu): il Tribunale di Forlì proponeva, invece, una lettura più ampia del concetto di “disposizioni di legge” (di cui all’art. 2 c.p.), premettendo che la valutazione in ordine al trattamento più favorevole per il reo dovrà effettuarsi sulla base di una ricognizione “in concreto” dei “risultati [pratici, n.d.r.] che deriverebbero dall’effettiva applicazione” delle disposizioni normative alla fattispecie concreta sottoposta all’esame del giudice (cfr. Cass. pen., Sez. I, 02.10.2003 n. 40915).
Aggiungeva, poi, la pronuncia forlivese, che tale valutazione in concreto della legge ritenuta più favorevole per il reo “dovrà trovare applicazione nel suo complesso”, giacché non potrà il giudice dar vita ad una crasi tra disposizioni più favorevoli della legge abrogata e di quella in vigore: diversamente opinando, l’interprete si renderebbe creatore, in maniera inammissibile, di una terza legge (cfr. Cass. pen., Sez. III, 10.02.2004, n. 23274).
E’ chiaro che il giudice della cautela potrà operare la valutazione soltanto in un’ottica prognostica di possibili (rectius: probabili) esiti dibattimentali. Ma resta in evidenza la questione cruciale: e cioè se l’applicazione di una sanzione ablativa patrimoniale (la confisca) entri o meno a far parte degli elementi da porre sulla bilancia per stabilire quale normativa risulti, in concreto, più favorevole al reo. E, in caso di risposta affermativa, quale sia il ‘peso’ di tale elemento accessorio.
6. In realtà, il Tribunale di Forlì sorvolava – in sentenza – su questo delicato problema, stabilendo la prevalenza della previgente normativa (e, di conseguenza, anche del sequestro penale finalizzato alla confisca), in ragione di un’inapplicabilità – in concreto – della misura sostitutiva della pena principale (il lavoro di pubblica utilità al posto dell’arresto) e, quindi, di un maggior favore della vecchia disciplina, avendo la recente inasprito le sanzioni ‘ordinarie’.
Ciò non toglie, tuttavia, che la risposta al quesito proposto fosse rinvenibile già nell’insegnamento giurisprudenziale (citato anche dai giudici del capoluogo romagnolo) della Suprema Corte: “la legge più favorevole” – è scritto in motivazione a Cass. pen., Sez. III, 10.02.2004, n. 23274 – “è quella che comporta il trattamento meno svantaggioso per il reo, con specifico riferimento al reale pregiudizio che viene concretamente a subire, ed allo scopo vanno considerati tutti gli elementi che in qualsiasi modo influiscono sul trattamento sanzionatorio”.
Non appare perciò possibile escludere dal novero degli elementi che “in qualsiasi modo” influiscono sul trattamento punitivo le conseguenze amministrative inserite dal giudice penale in sentenza; soprattutto quando esse concernono ponderose ablazioni patrimoniali nei confronti del condannato.
Può sembrare questione speciosa, ma, a ben guardare, è questione interpretativa dai risvolti tutt’altro che irrilevanti. Tranquillizziamo, però, i nostri pochi lettori: la risposta della giurisprudenza (o del legislatore), se mai arriverà, arriverà comunque tardiva: le questioni dettate dalla successione di leggi le avrà già infatti, in un modo o nell’altro, risolte quel galantuomo che è il tempo.
Luca Ferrini - avvocato del Foro di Forlì-Cesena, marzo 2011
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