Versione per la stampa
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, c.p.p., sollevata, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, del codice di procedura penale, promosso dal Consiglio nazionale forense nel procedimento disciplinare relativo a G. D. con ordinanza del 4 novembre 2008, iscritta al n. 64 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti l’atto di costituzione di G. D., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 novembre 2009 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi l’avvocato Giuseppe Morbidelli per Giulio Dimini e l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Il Consiglio nazionale forense, chiamato a pronunciarsi, in sede giurisdizionale, sul ricorso proposto dall’avvocato G. D. avverso la decisione con la quale il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Trieste aveva irrogato al predetto professionista la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per mesi dodici, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, del codice di procedura penale, nella parte in cui, equiparata la sentenza ex art. 444, comma 2, del medesimo codice ad una sentenza di condanna, prevede che essa abbia efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.
Il Consiglio rimettente ha premesso, in fatto, che nei confronti dell’avvocato G. D., il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Trieste, ha ritenuto di applicare la sanzione disciplinare innanzi indicata ponendo a base della stessa i medesimi fatti oggetto della sentenza di “patteggiamento” divenuta irrevocabile, con la quale nei confronti del professionista era stata applicata la pena di anni due di reclusione per reati fallimentari. La statuizione era stata infatti adottata sul rilievo che la sentenza di “patteggiamento” esplica efficacia di giudicato in sede disciplinare quanto all’accertamento del fatto, della sua illiceità e sulla commissione del fatto da parte dell’imputato, con la conseguenza, dunque, che all’organo disciplinare non residua spazio per ricostruire diversamente i fatti e la responsabilità, come, al contrario, pretendeva l’incolpato, il quale «invocava la possibilità di dimostrare, con apposita istruttoria, la sua estraneità ai fatti e la non colpevolezza». A seguito di impugnativa dinanzi al Consiglio – odierno rimettente – l’incolpato, oltre a prospettare una “lettura costituzionalmente orientata” degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, cod. proc. pen. (nel senso di ritenere priva di effetti preclusivi la sentenza di “patteggiamento” che non enunci gli accertamenti compiuti in ordine alla sussistenza del fatto, della sua illiceità e della responsabilità dell’imputato), insisteva per essere ammesso a provare fatti e circostanze atte ad escludere la propria responsabilità disciplinare, sollevando, «strumentalmente a ciò», eccezione di illegittimità costituzionale dei ricordati artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3, secondo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.
In punto di rilevanza, il Consiglio osserva che – tenuto conto della propria competenza a riesaminare anche nel merito la decisione impugnata e della possibilità di disporre, a tal fine, anche indagini istruttorie – le prove sollecitate dall’incolpato appaiono «in linea astratta, ammissibili e rilevanti in rapporto allo scopo che si prefigge il ricorrente». Al loro esame è però di ostacolo la disciplina censurata, sicché «l’eventuale rimozione per incostituzionalità dell’anzidetta interferenza, restituendo al giudice disciplinare l’autonomia di apprezzamento discrezionale della fattispecie, permetterebbe di assumere prove rivolte a dimostrare l’irrilevanza disciplinare della condotta». Né potrebbe farsi leva – osserva il Consiglio – sulla interpretazione adeguatrice suggerita dal ricorrente, essendo essa contrastata, sia dalla ratio della riforma operata con la legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), introduttiva delle previsioni contestate – che «fu voluta per esigenze di moralizzazione dei comportamenti dei dipendenti della pubblica amministrazione» –, sia dalla giurisprudenza dello stesso Consiglio nazionale forense e della Corte di cassazione.
In punto di non manifesta infondatezza, il Consiglio nazionale forense, dopo aver ripercorso le modifiche normative introdotte – in tema di effetti della sentenza di “patteggiamento” sui giudizi disciplinari – dalla legge n. 97 del 2001 e dalla legge 12 giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti) e rilevato che le sentenze di questa Corte n. 394 del 2002 e n. 186 del 2004 non rilevano agli effetti della odierna questione, osserva che la stessa si presenterebbe non manifestamente infondata, anzitutto in riferimento al principio di ragionevolezza. Infatti – osserva l’ordinanza – il sistema censurato finisce per equiparare, «sotto il profilo della efficacia probatoria nel giudizio disciplinare, due tipi di pronunce strutturalmente ed ontologicamente difformi e cioè la sentenza di condanna a seguito di dibattimento e quella di applicazione della pena su richiesta delle parti». La prima, infatti, si fonda su un accertamento positivo di responsabilità a seguito di contraddittorio; la seconda, invece, si fonda solo sulla insussistenza di cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., tanto che – puntualizza il provvedimento di rimessione – tale sentenza non giustifica la revoca della sospensione condizionale della pena in precedenza accordata. Del resto, osserva ancora il Collegio rimettente, ad ulteriore testimonianza della profonda diversità che caratterizza le due pronunce poste a raffronto, starebbe anche la tesi della giurisprudenza che esclude l’applicabilità, alla sentenza di patteggiamento, dell’istituto della revisione.
Dal combinato disposto degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, cod. proc. pen., emergerebbe, poi, un ulteriore profilo di irragionevolezza, giacché, mentre alla sentenza di patteggiamento viene assegnata efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare, tale effetto viene invece escluso nel giudizio civile ed amministrativo. Tale differenziazione – osserva l’organo rimettente – sarebbe priva di base razionale, giacché le sanzioni disciplinari sono in grado di incidere (in misura anche più ampia di quanto può derivare da un procedimento civile o amministrativo) su beni costituzionalmente protetti, come il diritto alla autodeterminazione in materia di lavoro, con effetti non soltanto di ordine economico, ma «anche di gratificazione personale e professionale». La scelta del legislatore di riconoscere al soggetto “patteggiante” il pieno diritto alla prova in sede di giudizio civile ed amministrativo e precluderlo – compromettendo il diritto di difesa – in un «contesto processuale che assume rilevanza anche superiore perché involge beni fondamentali della persona», sarebbe, pertanto, in contrasto con il canone della ragionevolezza di cui all’art. 3, secondo comma, Cost. Da qui la violazione, anche, dell’art. 24 Cost. e del principio del giusto processo «declinabile in questo caso nella garanzia del contraddittorio (art. 111, comma 2, Cost)». Ciò, tenuto conto della natura giurisdizionale del procedimento davanti al Consiglio nazionale forense e delle attribuzioni anche di merito che a quest’ultimo sono riconosciute e che gli consentono le iniziative istruttorie ritenute necessarie. Né varrebbe osservare, in contrario, che il contraddittorio è rinunciabile e che l’imputato vi rinuncia implicitamente quando sceglie il rito premiale di cui all’art. 444 cod. proc. pen. Infatti – conclude il Consiglio – la «rinuncia ex art. 111, comma 5, Cost. non può che configurarsi come atto espresso e consapevole e riferito al contesto (processuale) in cui detto atto viene compiuto; non vi può pertanto essere spazio per un’abdicazione implicita maturata in un contesto autonomo e separato rispetto al procedimento disciplinare qual è quello della giurisdizione penale».
2. – Nel giudizio di costituzionalità si è costituito l’avvocato G. D., depositando comparsa, nella quale si è nella sostanza riportato agli argomenti svolti dal Consiglio nazionale forense, chiedendo l’accoglimento della questione, con riserva di ulteriori deduzioni.
3. – Ha inoltre spiegato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, la quale ha chiesto dichiararsi infondate «le questioni» sollevate dal Consiglio nazionale forense. Ad avviso della difesa erariale, nel “patteggiamento” l’imputato accetta, come elementi probatori, quelli acquisiti durante le indagini, «rinunciando al suo diritto di “difendersi provando” ed allo stesso principio di non colpevolezza; in tal modo – deduce l’Avvocatura – ammettendo sostanzialmente la sua responsabilità». L’imputato, quindi, conosce le conseguenze delle sue scelte, tra le quali vi è anche «la impossibilità di contestare l’accusa disciplinare fondata sui medesimi fatti oggetto dell’imputazione penale “patteggiata”». E’ ben vero, poi, che dibattimento e “patteggiamento” sono assai diversi fra loro; ma per il giudice resta sempre la possibilità di pronunciare il proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen., così come uguale è la conoscenza dell’imputato circa le conseguenze che scaturiscono dai due diversi riti. Non sarebbe infine conferente il paragone con i giudizi civili e amministrativi, «poiché in essi non riverberano profili di colpevolezza e poiché in essi rileva l’accertamento dei fatti commessi che ovviamente manca nelle sentenze c.d. di patteggiamento».
4. – In prossimità della udienza, ha depositato memoria la parte privata G. D., nella quale ha diffusamente articolato le ragioni che militerebbero a sostegno della illegittimità costituzionale della disposizione censurata, ripercorrendo i temi già sviluppati nel provvedimento di rimessione. Si rileva, anzitutto, che risulterebbe del tutto irragionevole la differenziazione di trattamento che scaturisce dalla sentenza di applicazione della pena tra giudizi civili e amministrativi, rispetto ai quali la sentenza stessa non dispiega efficacia vincolante, e il giudizio disciplinare, per il quale, invece, la sentenza spiega piena efficacia, posto che in quest’ultimo giudizio vengono in considerazione pregiudizi economici e morali che coinvolgono direttamente il valore della dignità umana. Sarebbe, poi, vulnerato il pieno diritto alla prova nel procedimento disciplinare, a differenza di ciò che accade per il giudizio civile o amministrativo, e conseguentemente compromesso anche il diritto al contraddittorio, di cui all’art. 111 Cost. Dubbi di costituzionalità, quelli prospettati, che sarebbero emersi anche nel corso dei lavori preparatori della legge n. 97 del 2001. Si lamenta, poi, – evocandosi la violazione dell’art. 97 Cost. – che la normativa censurata comporterebbe una sostanziale restaurazione dei meccanismi di automatismo sanzionatorio, che, invece, la giurisprudenza costituzionale ha da tempo censurato, compromettendo i canoni di adeguatezza e proporzionalità che devono presiedere alla applicazione della sanzione. «Adeguatezza – si puntualizza – che non può raggiungersi senza la valutazione degli specifici comportamenti messi in atto commettendo l’illecito che solo un procedimento ad hoc di delibazione disciplinare può assicurare». Viene infine prospettata la illegittimità costituzionale della disposizione oggetto di impugnativa, anche in riferimento agli artt. 2, 4 e 33 Cost., in quanto il prospettato automatismo «impinge su ordinamenti professionali autonomi, che costituiscono formazioni sociali, cui si accede tramite esami di Stato (ex art. 33, comma 5, Cost.)», e non su appartenenti alla pubblica amministrazione, «per i quali il potere conformativo della legge è senz’altro più intenso»; senza tener conto del coinvolgimento del diritto al lavoro (art. 4 Cost.) e del diritto allo svolgimento della propria personalità nelle formazioni sociali (art. 2 Cost). «Diritti – conclude la memoria – che non sono certo cedevoli, tanto più in assenza di una sentenza di condanna, così come presupposta dall’art. 27, comma 2, Cost.».
Considerato in diritto
1. – Il Consiglio nazionale forense, in sede giurisdizionale, solleva questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, del codice di procedura penale, nella parte in cui, equiparata la sentenza di cui all’art. 444 dello stesso codice ad una sentenza di condanna, prevede che essa abbia efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale ed alla affermazione che l’imputato lo ha commesso. A parere del Consiglio rimettente, la disciplina censurata contrasterebbe, anzitutto, con l’art. 3 della Costituzione, sotto un duplice profilo. Si ritiene, infatti, irrazionale, la scelta operata con la legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche) di attribuire alla sentenza di “patteggiamento” «la stessa efficacia del giudicato in senso stretto (scaturente, cioè, dalla celebrazione del dibattimento) con riguardo al (solo) procedimento disciplinare, finendo, in pratica, per assegnare il medesimo valore ad una pronuncia che contiene un pieno accertamento positivo e ad una che si alimenta di una mera verifica negativa; in tal modo operandosi un’ingiustificata ed irrazionale parificazione effettuale di situazioni ontologicamente diverse». Sotto altro profilo, si reputa parimenti irrazionale la scelta del legislatore di assegnare alla sentenza di patteggiamento efficacia nel giudizio disciplinare, escludendola, invece, per i giudici civili ed amministrativi. Considerato, infatti, che il procedimento disciplinare «produce conseguenze economiche e mortificazioni esistenziali, questi effetti possono senz’altro essere posti sullo stesso piano (se non superiore) di quello su cui si apprezzano gli effetti di un procedimento civile o amministrativo», coinvolgendo, comunque beni fondamentali della persona.
Risulterebbe inoltre violato l’art. 24 Cost., in quanto il combinato disposto delle disposizioni censurate determinerebbe, nella specie, una violazione del diritto costituzionale di difesa, essendo precluso «al giudice disciplinare di neutralizzare l’interferenza prodotta dalla sentenza irrevocabile di cd. patteggiamento che lo obbliga a conferire a quel fatto ed alla responsabilità dell’agente i tratti morfologici che ne risultano disegnati in sede penale, senza possibilità di scostamento».
Si configurerebbe, infine, un contrasto anche con l’art. 111, secondo comma, Cost. sotto il profilo del giusto processo, «declinabile come garanzia del contradditorio», rispetto al quale non può venire in discorso una rinuncia, ai sensi del quinto comma dell’art. 111 Cost., in quanto tale rinuncia «non può che configurarsi come atto espresso e consapevole e riferito al contesto (processuale) in cui detto atto viene compiuto», mentre non potrebbe esservi «spazio per un’abdicazione implicita maturata in un contesto autonomo e separato rispetto al procedimento disciplinare, quale è quello della giurisdizione penale».
2. – La questione non è fondata.
Il nucleo delle censure che il Collegio rimettente propone, ruota, infatti, attorno a due premesse argomentative e sistematiche che non possono essere condivise. Da un lato, si denuncia la irragionevolezza intrinseca che caratterizzerebbe la scelta normativa di perequare, agli effetti del giudizio disciplinare, la «efficacia probatoria» che scaturisce da due tipi di pronunce fra loro divergenti quanto a natura ed a caratteristiche strutturali, quali sono, appunto, la pronuncia di «condanna a seguito di dibattimento e quella di applicazione della pena su richiesta delle parti». Dall’altro lato, si lamenta l’ulteriore incoerenza rappresentata dal fatto che, a fronte della medesima sentenza di patteggiamento, si assegni alla stessa una efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare, mentre identici effetti sono esclusi nel giudizio civile ed in quello amministrativo.
Quanto al primo profilo, la riscontrata aporia di sistema risiederebbe, in particolare, nella circostanza che, mentre la sentenza di condanna pronunciata all’esito del dibattimento si fonda su un accertamento positivo di responsabilità, alimentato dalla esaustiva delibazione del materiale di prova raccolto nel contraddittorio fra le parti, la sentenza che applica la pena su richiesta si radica, invece, soltanto sulla riscontrata assenza di cause di non punibilità, a norma dell’art. 129 del codice di rito. A conferma di tale assunto, il Consiglio rimettente evoca due elementi che univocamente contrassegnerebbero la richiamata differenziazione, qualificata come «ontologica», tra i due “tipi” di sentenze poste a raffronto. Proprio a dimostrare, infatti, la minor “pregnanza” probatoria che caratterizzerebbe l’in sedella sentenza di patteggiamento – osserva l’ordinanza di rimessione – viene richiamata la tesi, affermata dalla giurisprudenza di legittimità (si cita, al riguardo, la sentenza «Cass. pen. Sez. unite 26.2.2007 [recte: 1997], n. 3600»), secondo la quale la sentenza di patteggiamento non giustificherebbe la revoca della sospensione condizionale della pena in precedenza accordata. Così come – rileva ancora l’ordinanza –, e ancora una volta proprio in considerazione della diversità «ontologica» che presenta la sentenza di patteggiamento rispetto alla sentenza di condanna pronunciata all’esito del dibattimento, si giustifica l’opinione giurisprudenziale che esclude, per la prima, l’istituto della revisione.
Né l’uno né l’altro degli accennati rilievi può ritenersi, però, condivisibile. A proposito del problema relativo alla revocabilità della sospensione condizionale della pena ad opera della sentenza di patteggiamento, la più recente giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione, ribaltando il precedente orientamento, citato dal Consiglio rimettente, alla luce delle profonde modifiche subite nel corso del tempo dall’istituto del patteggiamento, è infatti pervenuta alla affermazione del principio di diritto secondo il quale «la sentenza emessa all’esito della procedura di cui agli artt. 444 e segg. c.p.p. poiché è, ai sensi dell’art. 445, comma 1-bis, equiparata “salvo diverse disposizioni di legge a una pronuncia di condanna” costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma dell’art. 168, 1° comma, n. 1, c.p., della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa» (Cass., Sez. un., 29 novembre 2005, n. 17781/06).
Quanto, invece, alla revisione, è direttamente intervenuto il legislatore, il quale, modificando l’art. 629 del codice di procedura penale, attraverso l’art. 3 della legge 12 giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti), ha appunto stabilito la possibilità di proporre richiesta di revisione, consentita «in ogni tempo a favore dei condannati», anche per le sentenze «emesse ai sensi dell’art. 444, comma 2»; così ponendo i “condannati” a seguito di patteggiamento sullo stesso piano dei “condannati” a seguito di procedimento ordinario, in riferimento a tutte le ipotesi di revisione, ivi compresa, evidentemente, anche quella prevista dall’art. 630, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., che si realizza nei casi in cui «dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’articolo 631».
Ciò, dunque, spiega la ragione per la quale le Sezioni unite della Corte di cassazione, nella pronuncia che si è dianzi richiamata, all’esito di una diffusa analisi delle mutazioni subite dall’istituto del patteggiamento, siano pervenute alla conclusione di ritenere che, pur non potendosi affermare che quei mutamenti abbiano condotto ad un «processo di vera e propria identificazione tra i due tipi di pronuncia», gli stessi stanno comunque «univocamente a significare che il regime della equiparazione, ora codificato alla stregua della normativa complementare più volte menzionata, non consente di rifuggire dall’applicazione di tutte le conseguenze penali della sentenza di condanna che non siano categoricamente escluse». Spetta dunque al legislatore, in questa prospettiva, prescegliere, nei confini che contraddistinguono il normale esercizio della discrezionalità legislativa, quali siano gli effetti che – in deroga al principio “di sistema” che parifica le due sentenze – diversificano, fra loro, la sentenza di condanna pronunciata all’esito del patteggiamento rispetto alla condanna pronunciata all’esito del giudizio ordinario. Una logica, dunque, del tutto antitetica rispetto a quella presupposta dal Collegio rimettente, il quale, invece, muove dalla erronea tesi di ritenere che gli effetti del patteggiamento debbano “ontologicamente” differenziarsi da quelli della sentenza ordinaria, salvo le deroghe – espressamente previste – che “assimilino” le conseguenze derivanti dai due tipi di pronunce.
3. – In tale quadro di riferimento, pertanto, le scelte adottate dal legislatore sul versante dei rapporti fra giurisdizioni, non possono affatto reputarsi, per ciò che qui rileva, manifestamente irragionevoli o prive di una qualsiasi causa giustificatrice. Se da un lato, infatti, con l’avvento del nuovo codice di rito è tramontato il principio della prevalenza della giurisdizione penale, a tutto vantaggio della autonomia dei procedimenti e delle giurisdizioni e della rigorosa limitazione delle questioni pregiudiziali, è altrettanto vero che una “ricomposizione” di sistema doveva essere prefigurata proprio sul versante dei rapporti tra il giudicato penale e le diverse (ma interferenti) sfere di giurisdizione civile, amministrativa o disciplinare davanti alle pubbliche autorità. Ciò ad evitare, evidentemente, da un lato, conflitti e contrasti tra giudicati; e, dall’altro, la perdita di acquisizioni processuali, che avrebbe negativamente inciso sulla economia dei giudizi.
In questa prospettiva, vanno dunque colte le ragioni per le quali le modifiche apportate, in parte qua, all’art. 653 cod. proc. pen., lungi dal discostarsi da quel quadro d’assieme, ne rappresentano, a ben guardare, il naturale sviluppo. Mutata, infatti, la configurazione originaria del patteggiamento come rito circoscritto alle vicende di criminalità “minore”, ed assunta una dimensione più “matura”, anche per ciò che attiene allo spazio delibativo riservato al giudice e, conseguentemente, alla relativa “base fattuale” – basti pensare ai nuovi e più ampi poteri in tema di confisca ed a quelli previsti in tema di cosiddetto “patteggiamento allargato” –, ben si potevano prefigurare corrispondenti ampliamenti anche sul versante degli effetti “esterni” del giudicato scaturente dal rito speciale, se riferiti al giudizio disciplinare davanti alle pubbliche autorità, per lo specifico risalto degli interessi coinvolti.
D’altra parte, la ratio posta a fondamento della legge n. 97 del 2001, è nota ed è stata rimarcata anche da questa Corte. Nell’osservare, infatti, che «con le novità introdotte dalla legge n. 97 del 2001, sia la sentenza penale irrevocabile di condanna, sia la sentenza di applicazione della pena su richiesta sono destinate ad esplicare effetti nel giudizio disciplinare», si è rilevato che, in tal modo, il legislatore ha inteso assicurare «non solo una sostanziale coerenza tra sentenza penale ed esito del procedimento amministrativo, ma, soprattutto, una linea di maggiore rigore per garantire il corretto svolgimento dell’azione amministrativa» (v. sentenza n. 186 del 2004). Un rigore, d’altronde, espressamente evocato nei lavori preparatori della citata legge n. 97 del 2001, al punto che lo stesso relatore della iniziativa legislativa non mancò di sottolineare come la opzione prescelta, «pur incidendo negativamente sulla portata deflattiva del contenzioso penale dell’istituto del patteggiamento, (aveva) il sicuro e positivo effetto di impedire che soggetti la cui credibilità è minata dall’applicazione della pena patteggiata, (potessero) continuare a rivestire responsabilità nelle amministrazioni pubbliche».
A fronte di tali obiettivi, destinati a preservare valori di indiscutibile risalto, la disciplina impugnata si presenta del tutto coerente, giacché, da un lato, eliminando qualsiasi riferimento alla sentenza “pronunciata in seguito a dibattimento” – che compariva nel testo originario dell’art. 653 cod. proc. pen. –, ha parificato fra loro tutti i giudicati penali derivanti da qualsiasi tipo di sentenza: sia essa pronunciata a seguito di patteggiamento, o a seguito di giudizio abbreviato, sia essa pronunciata all’esito del dibattimento; dall’altro, ha accomunato, agli stessi fini, i vari giudicati, vuoi di condanna, vuoi di assoluzione. In sostanza, tanto nella ipotesi in cui il diritto al contraddittorio sia stato integralmente esercitato – attraverso la scelta del giudizio ordinario –, quanto nella eventualità in cui l’imputato abbia invece liberamente scelto di rinunciarvi (secondo quanto espressamente prevede l’art. 111, quinto comma, Cost.), attraverso la opzione per il giudizio abbreviato o il patteggiamento, le conseguenze che si producono, rispetto al giudizio disciplinare, saranno le stesse, proprio perché la “fonte pregiudicante” è stata del tutto ragionevolmente configurata in termini simmetrici, sia per ciò che attiene al “tipo” (sentenza pronunciata in sede di giudizio dibattimentale ovvero all’esito dei ricordati procedimenti alternativi), sia per quanto concerne il relativo epilogo (di assoluzione o di condanna).
Va infatti sottolineato, a quest’ultimo riguardo, che, ove il giudice, chiamato a delibare la richiesta di patteggiamento, pronunci sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., tale statuizione – a differenza di quanto scaturiva dal “vecchio” testo dell’art. 653 cod. proc. pen. – ha effetto di giudicato in sede disciplinare, «quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale o che l’imputato non lo ha commesso». Il che, evidentemente, vale comunque a “controbilanciare”, sul versante degli “interessi” del patteggiante, la tesi della palese irragionevolezza denunciata nella ordinanza di rimessione.
4. – Non può ritenersi fondato neppure il secondo profilo di irragionevolezza denunciato nella ordinanza di rimessione.
È ben vero, infatti, che il legislatore, nell’introdurre la previsione attraverso la quale è stato sancito l’effetto “pregiudicante” che la sentenza di patteggiamento dispiega in riferimento al giudizio disciplinare davanti alle pubbliche autorità, ha mantenuto invece ferma la previgente disciplina con riferimento al giudizio civile o amministrativo di danno, essendo rimasto a tal proposito inalterato l’art. 651 cod. proc. pen., che, appunto, riserva quell’effetto alle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate in seguito a dibattimento. Ma tale scelta non può affatto ritenersi indice di una incoerenza normativa, giacché nel giudizio civile o amministrativo di danno si versa in tema di giudizio contenzioso tra parti pariteticamente contrapposte, per le quali gli effetti extrapenali del giudicato di condanna devono ovviamente tenere conto della possibilità che entrambe le parti abbiano avuto di “misurarsi” in contraddittorio in sede penale.
Se così non fosse, infatti, la sentenza di condanna che avesse, ad esempio, accertato un concorso di colpa e quindi condannato l’imputato ad una pena diminuita e ad un corrispondente minor danno da risarcire, produrrebbe effetti pregiudicanti in sede civile senza alcuna garanzia di contraddittorio per il danneggiato, ove questi non fosse stato posto in condizione di esercitare le proprie facoltà, costituendosi parte civile, come appunto avviene nel caso del patteggiamento. Prova ne sia, d’altra parte, che il comma 2 dello stesso art. 651, espressamente subordina l’efficacia di giudicato, in sede di giudizio di danno, della sentenza pronunciata all’esito del giudizio abbreviato, alla non opposizione della parte civile, ove questa non abbia accettato il rito prescelto.
Tutto ciò, ovviamente, non vale per i rapporti tra patteggiamento e giudizio disciplinare, avuto riguardo alla natura di tale giudizio ed alla identità soggettiva della “parte”chiamata a partecipare ai rispettivi procedimenti: nell’uno quale imputato e, nell’altro, quale incolpato in sede disciplinare.
5. – La questione deve ritenersi non fondata anche in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost. La scelta del patteggiamento, infatti, rappresenta un diritto per l’imputato – espressivo, esso stesso del più generale diritto di difesa (v., al riguardo, l’excursus contenuto nella ordinanza n. 309 del 2005) –, al quale si accompagna la naturale accettazione di tutti gli effetti – evidentemente, sia favorevoli che sfavorevoli – che il legislatore ha tassativamente tracciato come elementi coessenziali all’accordo intervenuto tra l’imputato ed il pubblico ministero ed assentito dalla positiva valutazione del giudice. Effetti tra i quali – per quel che si è detto, non irragionevolmente – il legislatore ha ritenuto di annoverare anche il valore di giudicato sul fatto, sulla relativa illiceità e sulla responsabilità, ai fini del giudizio disciplinare davanti alle pubbliche autorità. La circostanza, invero, che l’imputato, nello stipulare l’accordo sul rito e sul merito dellaregiudicanda, “accetti” una determinata condanna penale, chiedendone o consentendone l’applicazione, sta infatti univocamente a significare che l’imputato medesimo ha ritenuto, a quei fini, di non contestare “il fatto” e la propria “responsabilità”: con l’ovvia conseguenza di rendere per ciò stesso coerente, rispetto ai parametri di cui si assume la violazione, la possibilità che, intervenuto il giudicato su quel “fatto” e sulla relativa attribuibilità allo stesso imputato, simili componenti del giudizio si cristallizzino anche agli effetti del giudizio disciplinare.
Non sembrano neppure conducenti, infine, i rilievi svolti dalla parte privata, laddove ha teso a rimarcare la circostanza che, nella specie, mancando un rapporto di pubblico impiego, la ratio della norma, di cui qui si discute, verrebbe meno. Ciò che rileva, infatti, è la qualità pubblica dell’organo e del procedimento disciplinare e non lo specifico status di chi è assoggettato a quel procedimento, giacché è solo in ragione del primo aspetto che si giustifica il rapporto tra i “giudicati” e le “giurisdizioni”. D’altra parte, se ha natura pubblica l’organo chiamato a procedere disciplinarmente, e se – nel caso in questione – il relativo procedimento ha i connotati della “giurisdizionalità”, al punto che il collegio disciplinare è legittimato a sollevare questione di costituzionalità, ciò è segno evidente della rilevanza pubblica di quel procedimento e delle sanzioni che da esso vengono irrogate, rendendo, quindi, del tutto inconferente l’esistenza, a monte, di un rapporto di pubblico impiego. Né ciò, per altro verso, fa venir meno la ratio della norma censurata, giacché, se l’obiettivo perseguito è stato quello di impedire il “disdoro” che per l’immagine pubblica deriverebbe dalla presenza di funzionari infedeli che, malgrado il patteggiamento, continuassero “indisturbati” ad esercitare le stesse attribuzioni, il medesimo “disdoro” ben può riguardare anche ordini e collegi professionali, a fronte di patteggiamenti per fatti che si riflettano – quali illeciti disciplinari – sulle stesse categorie professionali.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Consiglio nazionale forense con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 2009.
Francesco AMIRANTE, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 dicembre 2009
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A cura del dott. Luigi Levita - Giudice del Tribunale di Sant'Angelo dei Lombardi
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