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Penale.it - Corte Costituzionale, Sentenza 19 ottobre 2009 (dep. 29 ottobre 2009), n. 274

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Corte Costituzionale, Sentenza 19 ottobre 2009 (dep. 29 ottobre 2009), n. 274
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Illegittimità costituzionale art. 443, comma 1, c.p.p., come modificato dall’art. 2 della l. 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui esclude che l’imputato possa proporre appello contro le sentenze di assoluzione per difetto di imputabilità, derivante da vizio totale di mente

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
-      Francesco                        AMIRANTE                                 Presidente
-      Ugo                                 DE SIERVO                                  Giudice
-      Paolo                               MADDALENA                                    "
-      Alfio                                FINOCCHIARO                                  "
-      Alfonso                           QUARANTA                                        "
-      Franco                             GALLO                                                 "
-      Luigi                                MAZZELLA                                         "
-      Gaetano                           SILVESTRI                                          "
-      Maria Rita                       SAULLE                                               "
-      Giuseppe                         TESAURO                                            "
-      Paolo Maria                     NAPOLITANO                                    "
-      Giuseppe                         FRIGO                                                  "
-      Alessandro                      CRISCUOLO                                       "
-      Paolo                               GROSSI                                                "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 443, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promosso dalla Corte d’appello di Napoli nel procedimento penale a carico di G.M. con ordinanza dell’11 marzo 2008, iscritta al n. 326 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2008.
Udito nella camera di consiglio del 23 settembre 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza del 22 febbraio 2008, depositata il successivo 11 marzo, la Corte d’appello di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 443, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), «nella parte in cui esclude che», nel giudizio abbreviato, «l’imputato possa proporre appello contro le sentenze di assoluzione pronunziate ai sensi dell’art. 88 del codice penale (proscioglimento per vizio totale di mente)».
            La Corte rimettente riferisce di essere investita dell’appello proposto dai difensori dell’imputato contro la sentenza emessa il 28 giugno 2007 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli, a seguito di giudizio abbreviato. Detta sentenza aveva assolto l’imputato dal reato di tentato omicidio in danno della convivente, in quanto non imputabile per vizio totale di mente, applicando al medesimo, ai sensi dell’art. 222 cod. pen., la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per la durata minima di cinque anni.
            Con l’atto di appello, i difensori avevano chiesto che il fatto venisse qualificato come lesione personale, non avendo la persona offesa corso pericolo di vita; che fosse riconosciuta la desistenza, ai sensi dell’art. 56, terzo comma, cod. pen.; che venisse infine applicata una misura di sicurezza meno afflittiva, così come consentito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2003.
            All’udienza camerale, di fronte alla richiesta del Procuratore generale della Repubblica di dichiarare inammissibile l’appello alla luce della nuova formulazione dell’art. 443, comma 1, cod. proc. pen., i difensori avevano eccepito l’illegittimità costituzionale di tale norma, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
            Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che la disposizione censurata esclude, in via generale, l’appello dell’imputato contro le sentenze di proscioglimento: con la conseguenza che la decisione sull’ammissibilità del gravame viene a dipendere dalla soluzione della questione stessa. La sentenza che dichiara il difetto di imputabilità ai sensi dell’art. 88 cod. pen., pur presentando aspetti peculiari, è qualificata, difatti, dall’art. 530 cod. proc. pen. come sentenza di assoluzione: dato letterale, questo, che non consentirebbe alcuna interpretazione del novellato art. 443 cod. proc. pen. atta a superare la preclusione censurata.
            Né soccorrerebbe, nella specie, l’art. 680, comma 2, cod. proc. pen., che prevede la competenza del tribunale di sorveglianza sulle impugnazioni contro le sentenze di condanna o di proscioglimento concernenti le disposizioni che riguardano le misure di sicurezza. Per costante giurisprudenza di legittimità, infatti, detta disposizione si applica – conformemente al tenore letterale di detta norma e dell’art. 579, commi 1 e 2, cod. proc. pen. – solo quando l’impugnazione investa in via esclusiva il capo della sentenza concernente le misure di sicurezza: mentre, nel giudizio a quo, il gravame della difesa è volto a contestare anche la qualificazione giuridica del fatto.
            Riguardo, poi, alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente osserva come la sentenza di assoluzione emessa ai sensi dell’art. 88 cod. pen. abbia connotazioni particolari, che valgono a differenziarla dalla generalità delle altre pronunce assolutorie. Essa presuppone, difatti, che il giudice abbia accertato la sussistenza del «fatto-reato», la sua riferibilità all’imputato «in termini materiali e di colpevolezza» e l’assenza di cause di giustificazione: sicché, in presenza di tutti i presupposti per una condanna, l’assoluzione viene pronunciata solo perché l’imputato era affetto da vizio totale di mente al momento del fatto. Al tempo stesso, poi, la sentenza in parola «comporta l’applicazione di una sanzione particolarmente invasiva e limitativa della libertà personale, quale il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia per una durata massima non fissata dalla legge, ma soggetta al riesame ai sensi dell’art. 208 cod. pen.».
            Risulterebbe, pertanto, di tutta evidenza come l’imputato sia portatore di un rilevante interesse a vedere rivalutate, anche nel merito, la sussistenza dei presupposti della pronuncia, la ricorrenza degli estremi per l’applicazione della misura di sicurezza e l’adeguatezza della misura applicata rispetto alle accertate condizioni di salute.
            La preclusione dell’appello, introdotta dall’art. 2 della legge n. 46 del 2006, si risolverebbe, di conseguenza, in una menomazione del diritto di difesa, tutelato dall’art. 24, secondo comma, Cost. La soppressione del potere di appello non potrebbe ritenersi compensata, infatti, dall’ampliamento dei motivi di ricorso per cassazione, operato dalla stessa legge n. 46 del 2006: giacché – come rilevato dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 26 e n. 320 del 2007 – quale che sia l’effettiva portata dei nuovi e più ampi casi di ricorso, il rimedio non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito consentito dall’appello.
            Né, d’altro canto, la preclusione censurata potrebbe trovare giustificazione nella scelta del giudizio abbreviato, operata dallo stesso imputato. Come riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 363 del 1991, difatti, il potere di impugnazione dell’imputato, in quanto esplicazione di valori fondamentali, quali il diritto di difesa e l’interesse a far valere la propria innocenza, non potrebbe essere sacrificato in vista delle finalità di speditezza ed economia processuale, proprie del suddetto rito semplificato.
            La disposizione violerebbe, altresì, in parte qua, l’art. 111, secondo comma, Cost. A seguito delle declaratorie di incostituzionalità degli artt. 1 e 2 della legge n. 46 del 2006, di cui alle citate sentenze n. 26 e n. 320 del 2007, il pubblico ministero può attualmente appellare le sentenze di proscioglimento pronunciate tanto nel giudizio ordinario che a seguito di giudizio abbreviato: donde una asimmetria di poteri inconciliabile con il principio costituzionale di parità delle parti processuali.
            Risulterebbe leso, da ultimo, anche l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza. In contrasto con tale canone, difatti, il vigente testo dell’art. 443 cod. proc. pen. impedisce all’imputato di appellare le sentenze di assoluzione per vizio totale di mente, che determinano l’applicazione di una misura di sicurezza limitativa della libertà personale e di durata non prefissata nel massimo; mentre gli consente di proporre appello contro le sentenze di condanna alla sola pena della multa, obiettivamente meno afflittiva.
Considerato in diritto
            1. – La Corte d’appello di Napoli dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dell’art. 443, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consente all’imputato di proporre appello contro le sentenze di assoluzione per difetto di imputabilità derivante da vizio totale di mente, emesse a seguito di giudizio abbreviato.
            Ad avviso della Corte rimettente, la norma censurata violerebbe il diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), privando l’imputato della possibilità di far valere doglianze di merito contro una sentenza che – come quella considerata – per un verso, presuppone l’accertamento del «fatto-reato» e della sua riferibilità all’imputato; e, per altro verso, comporta l’applicazione di misure di sicurezza particolarmente afflittive, di durata massima non prefissata. La preclusione denunciata non potrebbe essere giustificata dalla scelta del giudizio abbreviato, operata dallo stesso imputato, giacché il diritto di difesa di quest’ultimo – di cui il potere di appello è espressione – non sarebbe suscettibile di venir sacrificato, per il suo valore preminente, in vista delle finalità deflattive proprie del rito semplificato.
            Risulterebbe leso, inoltre, il principio di parità delle parti del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), stante l’asimmetria dei poteri dell’imputato rispetto a quelli del pubblico ministero, il quale, a seguito delle declaratorie di incostituzionalità di cui alle sentenze n. 26 e n. 320 del 2007, è attualmente abilitato ad appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse tanto nel giudizio ordinario che all’esito del giudizio abbreviato.
            Sarebbe violato, infine, il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), posto che l’art. 443 cod. proc. pen., nel testo attualmente in vigore, consente all’imputato di proporre appello contro le sentenze di condanna anche alla sola multa: pena obiettivamente meno afflittiva rispetto alla misura di sicurezza applicabile con la sentenza di assoluzione per vizio totale di mente.
            2. – In via preliminare, va rilevato come i presupposti interpretativi su cui la Corte rimettente basa tanto il giudizio di rilevanza della questione che le censure di costituzionalità appaiano senz’altro condivisibili.
            Il vigente testo dell’art. 443, comma 1, cod. proc. pen. è la risultante della modifica operata dall’art. 2 della legge n. 46 del 2006 (che ha soppresso l’inciso limitativo finale, già presente nella norma censurata, «quando l’appello tende ad ottenere una diversa formula») e della successiva sentenza n. 320 del 2007 di questa Corte (che ha rimosso la limitazione ivi prevista al potere di impugnazione nei confronti del pubblico ministero). Esso stabilisce la radicale inappellabilità, da parte dell’imputato, delle sentenze di proscioglimento emesse in esito al giudizio abbreviato: genusche abbraccia, alla luce della sistematica del codice di rito (si veda l’art. 530 cod. proc. pen., incluso nella sezione dedicata, appunto, alla «sentenza di proscioglimento»), anche le sentenze di assoluzione per difetto di imputabilità dovuto a vizio totale di mente (art. 88 cod. pen.).
            Pienamente plausibile appare, altresì, l’ulteriore assunto della Corte rimettente, secondo cui non soccorre – almeno nel caso di specie – l’art. 680, comma 2, cod. proc. pen., ove si prevede la competenza del tribunale di sorveglianza sulle impugnazioni contro le sentenze di condanna o di proscioglimento concernenti le disposizioni che riguardano le misure di sicurezza. Ammessa pure l’estensibilità al giudizio abbreviato della clausola di salvezza degli artt. 579 e 680 cod. proc. pen., presente nell’art. 593, comma 1, cod. proc. pen. con riferimento all’appello nel giudizio ordinario, è dirimente il rilievo che – secondo il corrente indirizzo della giurisprudenza di legittimità (che riflette, peraltro, la chiara lettera dei citati artt. 579 e 680) – la competenza del tribunale di sorveglianza (e, dunque, anche la residua appellabilità avanti ad esso delle sentenze che qui interessano) resterebbe comunque circoscritta alle impugnazioni che attengono, in via esclusiva, al capo relativo alle misure di sicurezza. Nella specie, per contro, l’appello proposto dalla difesa dell’imputato ha un contenuto più ampio, investendo anche la qualificazione giuridica del fatto e il mancato riconoscimento della desistenza, ai sensi dell’art. 56, terzo comma, cod. pen.
            3. – Nel merito la questione è fondata, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.
3.1. – Il tema oggetto di scrutinio va affrontato alla luce dei principi ispiratori del rito alternativo in cui la limitazione censurata si innesta: principi che impediscono una automatica estensione all’ipotesi considerata degli argomenti in base ai quali questa Corte, con sentenza n. 85 del 2008, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 593, comma 1, cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 1 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui esclude che l’imputato possa appellare le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio ordinario (fatta eccezione per talune limitate ipotesi).
            Il giudizio abbreviato si fonda, difatti, come è noto, sulla «libera e consapevole accettazione», da parte dell’imputato – quale contropartita per un trattamento premiale sul piano sanzionatorio (riduzione di un terzo della pena eventualmente inflitta) – di «limitazioni di diritti e facoltà […], altrimenti riconosciuti nel rito ordinario» (sentenza n. 288 del 1997). Tra i “sacrifici” richiesti all’imputato figura – a fianco del consenso ad essere giudicato sulla base degli atti raccolti nelle indagini preliminari, con conseguente rinuncia al contraddittorio nella formazione della prova in sede dibattimentale – anche l’accettazione preventiva di limitazioni alla facoltà di appello. Ciò è nella logica di un rito alternativo che, per un verso, persegue obiettivi di semplificazione e accelerazione dei processi; e, per altro verso, si fonda – ormai in via esclusiva – sulla volontà dello stesso imputato.
            Tuttavia, le limitazioni all’appello dell’imputato, per poter essere considerate costituzionalmente compatibili, debbono risultare comunque basate su criteri razionali, nel confronto con i casi di perdurante appellabilità, e debbono trovare, altresì, «un fondamento ragionevolmente commisurato … al rilievo costituzionale dell’interesse inciso» (sentenza n. 363 del 1991). Come più volte rilevato da questa Corte, difatti, pur in assenza di un riconoscimento costituzionale della garanzia del doppio grado di giurisdizione di merito, il potere di appello dell’imputato si presenta correlato al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), che gli conferisce una più accentuata «forza di resistenza» di fronte a «sollecitazioni di segno inverso», legate alla realizzazione di obiettivi di speditezza processuale (sentenza n. 26 del 2007; si vedano, altresì, le sentenze n. 298 del 2008 e n. 98 del 1994).
            In questa prospettiva, la Corte dichiarò costituzionalmente illegittima, per contrasto con l’art. 3 Cost., l’originaria preclusione dell’appello dell’imputato contro le sentenze di condanna a pena che comunque non dovesse essere eseguita, sancita dall’art. 443, comma 2, cod. proc. pen. (sentenza n. 363 del 1991). Il criterio che discriminava, quanto alla facoltà di appello, i soggetti condannati a seguito di giudizio abbreviato – ossia la concreta eseguibilità o meno della pena inflitta – faceva perno, difatti, su «un elemento estrinseco alla natura del reato commesso e ai caratteri della pena irrogata»: trascurando così – irrazionalmente – «ogni riferimento agli aspetti che più sono destinati a caratterizzare la responsabilità dell’imputato e le conseguenze dell’azione criminosa, quali il titolo del reato, il tipo di sanzione, la misura della pena edittale».
            La Corte ritenne, per contro, che i tre requisiti ora indicati risultassero «pienamente rispettati» dalla preclusione relativa alle sentenze con le quali fossero applicate sanzioni sostitutive, originariamente contemplata dall’art. 443, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. La minore gravità dei titoli di reato per i quali operano le sanzioni sostitutive, la minore afflittività di esse e i livelli necessariamente più bassi delle pene edittali di riferimento escludevano, difatti, «vizi di irragionevolezza», consentendo di concludere che la previsione rientrava «negli spazi di discrezionalità legittimamente utilizzabili dal legislatore per realizzare l’obiettivo della rapida definizione del giudizio abbreviato» (sentenza n. 288 del 1997).
            3.2. – Circa il caso che qui interessa, questa Corte ha già avuto modo di rilevare, nella citata sentenza n. 85 del 2008, come «la categoria delle sentenze di proscioglimento» – che la norma censurata assoggetta ad un regime unitario, quanto alla sottrazione all’appello dell’imputato – non costituisca un genus unitario, ma abbracci «ipotesi marcatamente eterogenee, quanto all’attitudine lesiva degli interessi morali e giuridici del prosciolto».
            Per questo verso, del tutto particolare si presenta, in effetti, la sentenza di assoluzione per vizio totale di mente. Lungi dall’assumere una valenza pienamente liberatoria, detta pronuncia postula l’accertamento della sussistenza del fatto di reato, della sua riferibilità all’imputato – in termini tanto materiali che psicologici – e dell’assenza di cause di giustificazione: non distinguendosi, dunque, sotto tale profilo, da una sentenza di condanna.
            Non soltanto per questa ragione, ma anche e soprattutto per il motivo che impone di adottare la formula assolutoria – ossia l’incapacità di intendere e di volere al momento del fatto, dovuta a totale infermità mentale – la sentenza in questione è idonea a causare all’imputato un pregiudizio di ordine morale particolarmente intenso, persino superiore a quello che può derivare da una sentenza di condanna (sentenza n. 85 del 2008).
            Dalla pronuncia in questione possono conseguire, altresì, rilevantissimi pregiudizi di ordine giuridico, segnatamente allorché, a seguito dell’accertata pericolosità sociale dell’imputato, venga applicata – o possa essere applicata con provvedimento successivo (art. 205, secondo comma, cod. pen.) – una misura di sicurezza, consistente, in specie, nel ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (art. 222 cod. pen.) ovvero – per effetto della sentenza n. 253 del 2003 di questa Corte – nella diversa misura, prevista dalla legge, che il giudice individui come idonea ad assicurare adeguate cure all’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale. S’intende come queste misure, limitative della libertà personale e di durata non predeterminata nel massimo, in quanto soggette al meccanismo del riesame della pericolosità, possano risultare, in concreto, di gran lunga più afflittive della pena irrogata con una sentenza di condanna.
Non è superfluo aggiungere, peraltro, che nei casi in cui non sia applicabile al prosciolto per vizio totale di mente una misura di sicurezza, in ragione della natura del reato o dei livelli della pena edittale, l’art. 222, primo comma, cod. pen. prevede comunque che «la sentenza di proscioglimento» sia «comunicata all’autorità di pubblica sicurezza», in vista della sottoposizione del soggetto ad opportuni controlli.
            3.3. – Sul versante opposto – quello, cioè, dei casi in cui l’impugnazione è ammessa – si deve di contro registrare come, per effetto di novelle legislative successive al ricordato intervento di questa Corte (sentenza n. 363 del 1991), l’art. 443 cod. proc. pen. non contempli più alcun limite all’appello dell’imputato contro le sentenze di condanna: onde può formare oggetto di un suo gravame nel merito anche la sentenza di condanna alla sola pena della multa o che applichi una sanzione sostitutiva.
            Emerge da ciò una evidente violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost. Appare, in effetti, irrazionale e lesivo del diritto di difesa che l’imputato possa dolersi nel merito della condanna per un reato bagatellare alla sola pena della multa (anche condizionalmente sospesa), e non sia abilitato, invece, ad appellare l’assoluzione per vizio totale di mente, anche se relativa ad un reato di particolare gravità (nel caso di specie, tentato omicidio) ed a cui si riconnetta l’applicazione di una misura di sicurezza limitativa della libertà personale (nella specie, ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario per un periodo minimo di cinque anni).
            Con particolare riguardo all’ipotesi che interessa, il criterio sulla cui base risultano attualmente discriminati i casi in cui l’appello dell’imputato è consentito e quelli in cui è inibito – vale a dire la circostanza che si tratti di sentenza di condanna o di proscioglimento – non tiene conto, in effetti, mutatis mutandis, dei requisiti giustificativi del sacrificio dell’appello nel giudizio abbreviato enucleati dalle citate sentenze n. 288 del 1997 e n. 363 del 1991.
            L’assoluzione per totale infermità di mente – assimilabile, come detto, ad una condanna, quanto alla attribuzione del fatto all’imputato – può avere, infatti, ad oggetto qualunque tipo di reato, ivi compresi quelli di maggiore allarme sociale; può comportare l’applicazione di misure che, anche se non punitive, risultano marcatamente afflittive (oltre che, in ogni caso, un pregiudizio di ordine morale di particolare intensità); prescinde, infine, dall’entità della pena edittale prevista per il reato oggetto di giudizio. L’interesse dell’imputato a contestare, anche nei profili di merito, i presupposti della pronuncia emessa nei suoi confronti subisce, dunque, una limitazione intrinsecamente irrazionale, in rapporto all’assetto complessivo delle preclusioni dell’appello nel giudizio abbreviato, e priva di adeguata giustificazione nelle caratteristiche e nelle finalità proprie di tale rito.
            3.4. – La residua censura della Corte rimettente, riferita all’art. 111, secondo comma, Cost., resta assorbita.
            4. – L’art. 443, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2 della legge n. 46 del 2006, va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui esclude che l’imputato possa proporre appello contro le sentenze di assoluzione per difetto di imputabilità, derivante da vizio totale di mente (art. 88 cod. pen.).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
            dichiara l’illegittimità costituzionale art. 443, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui esclude che l’imputato possa proporre appello contro le sentenze di assoluzione per difetto di imputabilità, derivante da vizio totale di mente.
            Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 29 ottobre 2009.

 
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