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Penale.it - Silvia Gioia, Natura giuridica e regime successorio della prescrizione. Si può riconoscere attitudine interruttiva della prescrizione, all'avviso di conclusioni delle indagini di cui all'art. 415-bis c.p.p.?

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Silvia Gioia, Natura giuridica e regime successorio della prescrizione. Si può riconoscere attitudine interruttiva della prescrizione, all'avviso di conclusioni delle indagini di cui all'art. 415-bis c.p.p.?
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La quaestio sulla natura giuridica della prescrizione ha importanti risvolti applicativi, perché a seconda della soluzione data, sarà ad essa applicabile il regime di cui all'art. 2 c. p. ovvero il principio del tempus regit actum.
La prescrizione è un istituto di portata generale che invade l'intero ordinamento giuridico, e che per il diritto penale, come ricordato dalla più attenta dottrina e giurisprudenza, trova il suo fondamento razionale nell'interesse generale a non perseguire più determinati reati rispetto ai quali il decorso di un certo lasso di tempo, fa venir meno la pretesa punitiva del reo e l'allarme sociale. Il trascorrere del tempo inoltre incide anche sulle misure di prevenzione, che sono tanto meno efficaci quanto più tardi si fa luogo all'accertamento del reato e alla sua punibilità.
La prolungata inerzia dei pubblici poteri, mentre da un lato manifesta la volontà dello Stato a non perseguire più determinati fatti-reato, determinando ex art. 157 c.p. la estinzione del reato, dall'altro è la risposta all'esigenza avvertita da più parti costituita dalla ragionevole durata del processo tutelata oggi dall'art. 111 Cost. e dall'art. 6 della Convenzione europea dei Diritto dell'uomo.
Il legislatore del 1930, collega il decorso del tempo alla estinzione del reato, introducendo una rilevante novità rispetto al previgente codice Zanardelli per il quale l'inutile decorso del tempo comportava l'estinzione dell'azione penale. Questa riforma ha indotto molti a ritenere che l'istituto della prescrizione avesse natura sostanziale, ritenendo applicabile l'articolo 2 del c.p.
Secondo un'opinione minoritaria invece la prescrizione avrebbe natura processuale, per cui essa opererebbe come causa sopravvenuta di improcedibilità.
La prima ricostruzione ha avuto riscontri nella giurisprudenza che ha affermato che la differenza tra norme processuali e norme sostanziali sta nel loro contenuto, nel senso che appartengono alla prima categoria tutte quelle disposizioni che hanno per oggetto il precetto e la sanzione, mentre sono della seconda le norme che stabiliscono le modalità di svolgimento del processo. Così, in sintonia con la migliore dottrina, la giurisprudenza fa leva sulla funzione della norma: è norma processuale quella che è preordinata all'accertamento della responsabilità di un soggetto, mentre è norma sostanziale quella che è diretta a stabilire le condizioni di esistenza di un reato e la specie di sanzione applicabile. In quest'ottica per la tesi prevalente, sono da considerarsi sostanziali tutte quelle norme che determinano le cause e le condizioni per le quali può sorgere o venir meno la pretesa punitiva dello Stato; per cui le norme che concernono il decorso, l'interruzione o la sospensione della prescrizione, devono essere considerate norme sostanziali, perché incidono sulla applicabilità della sanzione stessa.
Seguendo questa impostazione le norme sulla prescrizione sono assoggettate al principio costituzionale della irretroattività della norma di sfavore che regola la successione di leggi nel tempo del diritto penale.
Il fondamento costituzionale del principio di irretroattività della norma sfavorevole è disciplinato dall'art. 25 comma 2, per la quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, che eleva a rango costituzionale il generale principio di irretroattività stabilito dall'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile e che trova conferma, a livello di legge ordinaria, nell'art. 2 comma 1 del c.p. L'irretroattività è quindi un corollario del principio di legalità e risponde all'esigenza garantista di non punire un soggetto per un fatto che al momento della commissione non costituiva reato.
La norma penalistica, dopo aver enunciato al comma 1 la irretroattività della norma sfavorevole, ai successivi commi 2, 3 e 4 è improntata al principio di retroattività della norma favorevole. Al riguardo occorre evidenziare che il legislatore cogliendo l'occasione per la riformulazione dei reati di opinione è intervenuto con l'art. 14 della legge 24.02.2006 n. 85, modificando l'art. 2 sotto il profilo strutturale.
A seguito della modifica legislativa il comma 1 continua a disciplinare l'ipotesi della irretroattività della norma sfavorevole; il comma 2 invece, - a differenza del primo che fa riferimento ad ipotesi di prima incriminazione - esprime la retroattività della norma abrogatrice nei casi di abolitio criminis, disponendo che nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore non costituisce reato. Quindi il fatto commesso nel vigore della vecchia norma non costituisce reato e se c'è stata condanna ne cessano gli effetti. È evidente la ratio ispirata al favor rei  e al principio di uguaglianza per cui non è ragionevole punire per un fatto che non costituisce più reato.
Il novum normativo si rinviene nel comma 3 che sancisce che, se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria ai sensi dell'art. 135.
Il comma 4 dell'art. 2 si riferisce alla successione di leggi modificative di una norma penale. L'articolo in questione infatti dopo aver disciplinato le ipotesi di retroattività della legge sfavorevole e di retroattività della legge favorevole, si occupa dei casi in cui le norme introdotte dal legislatore non cancellano né introducono norme penali, ma vanno ad incidere su norme preesistenti, appunto modificandole. Il comma 4 dispone infatti che se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che vi sia stata sentenza irrevocabile di condanna. 
Al riguardo, si sono posti problemi a livello applicativo, del discrimen delle ipotesi di mera modificazione di una legge penale precedente, da quelle di autentica abrogazione. Si tratta invero del dibattuto tema della differenza tra abolitio criminis e abrogatio sine abolitio, che si verifica ogni qual volta la nuova norma si inserisce in un contesto normativo già disciplinato, andando ad incidere su di esso, con demolizione di soli alcuni tratti della fattispecie. Il problema è allora quello della esatta individuazione dell'ambito applicativo del comma 2 e del comma 4 dell'art. 2. Ove infatti si tratterà di abrogatio sine abolitio, non si potrà applicare il comma 2 ma il comma 4, sicché la legge successiva più favorevole non potrà retroagire in caso di passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Infatti è proprio rispetto alle sentenze di condanna che avrà effetto l'applicazione del comma 2 o del comma 4, perché optare per l'una o per l'altra significa eseguire o meno la pena inflitta: in caso di abrogazione il giudicato viene travolto e cessano gli effetti penali della condanna Per risolvere la questione dell'applicabilità del secondo o del quarto comma si ravvisano tre orientamenti fondamentali: secondo una prima opzione dottrinale - cd. teoria della doppia punibilità in concreto – occorre valutare se il fatto concreto sia sussumibile nella vecchia che nella nuova normativa, in caso positivo si applicherà la abrogatio sine abolitio, altrimenti si ricorerrà alla abolitio criminis. A questa tesi si è obiettato che così ragionando si violerebbe il divieto di retroattività della nuova norma incriminatrice, perché si finirebbe per dare rilievo a fatti che prima non erano reato.
Un secondo orientamento – cd. tesi del rapporto strutturale - ravvisa la necessità di effettuare un confronto strutturale tra le norme, in tal modo ove tra le due permanga un'area di illiceità comune si applicherà il comma 4, ex adverso il comma 2. Questa opzione ermeneutica fa perno sul rapporto di genere a specie che c'è tra la vecchia e la nuova normativa, quando la norma successiva presenti elementi di specialità rispetto alla precedente di carattere generale, nella quale è contenuta, ovvero quando una norma successiva ampli la norma precedente.
Per un'ulteriore tesi si preferisce parlare di continuità normativa, ritenendo necessario accompagnare il principio di specialità con una valutazione del giudice caso per caso.
In buona sostanza l'art. 2 del c.p. trova applicazione esclusivamente per le norme di natura sostanziale, operando invece per le norme processuali il diverso principio del tempus regit actum, secondo cui ad ogni singolo atto si applica la legge vigente al momento incui è stato applicato. Si tratta della applicazione dell'art. 11 delle preleggi, secondo cui la legge non dispone che per l'avvenire, essa non ha effetto retroattivo.
In questa prospettiva la ricostruzione della prescrizione in termini sostanzialistici, implica la assoggettamento della stessa ai principi della successione penale delle norme di cui all'art. 2 c.p. e di conseguenza al principio di irretroattività della norma sfavorevole. Ciò posto una norma che abbrevierà i termini di prescrizione è una norma di favore, parimenti la norma che allunga il termine prescrizionale è una norma sfavorevole che potrà disporre solo per i reati futuri.
Sul punto, si distinguono due ipotesi in cui la norma successiva allunghi i termini prescrizionali, a seconda che la norma intervenga quando è già decorso il termine per prescrivere, ovvero ancora non sia trascorso. Sul primo punto nulla quaestio, perché la pretesa punitiva dello stato è ormai estinta.
Quanto al secondo caso, quando la legge interviene ad allungare i termini prescrizionali, la giurisprudenza anche costituzionale sembra orientata nel ritenere che la legge successiva è destinata a retroagire. L'orientamento prevalente si basa sulla ratio dell'art. 2 che è diretta ad assicurare al cittadino che, alla commissione di determinati atti, non segua una norma incriminatrice e non invece di garantire che siano rispettati i calcoli circa il tempo necessario a prescrivere un reato.
La questione della successione di norme penali ha assunto particolare importanza a seguito della novella legislativa 251 del 2005 (ex Cirielli), con particolare riferimento alla norma transitoria dell'art. 10.  
La legge ora in oggetto ha modificato la decorrenza del termine prescrizionale in caso di continuazione dei reati (art. 158, comma 1 c.p.), il tempo e i criteri necessari a prescrivere (art. 157 c.p.), le cause di sospensione del corso della prescrizione (art. 159), i limiti ai tempi della prescrizione in caso di atti interruttivi della stessa ( art. 160 comma 3)
Il comma secondo dell'art. 10, della ex Cirielli, riguarda la disciplina intertemporale e prevede che “ferme restando le disposizioni dell'art. 2 c.p. quanto alle altre norme della presente legge, le disposizioni dell'art. 6 (che modificano il regime della prescrizione) non si applicano ai procedimenti e ai processi in corso, se i nuovi termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli previgenti; il comma 3 invece dispone “che se i termini di prescrizione risultano più brevi, gli stessi si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti al momento della entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché ai processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di Cassazione”.
Il comma 3 della disposizione de qua ha suscitato il dibattito circa la sua compatibilità con il principio di retroattività della norma favorevole sancito dall'art. 2 del c.p.. Ci si è chiesti se il principio di retroattività in esso contenuto è applicabile alle norme sulla prescrizione, e nel caso di risposta positiva, se esso abbia fondamento costituzionale, con conseguente illegittimità della norma in discussione. Infine sull'assunto del rango non costituzionale della norma ci si è interrogati circa le condizioni di derogabilità dell'art. 2 comma 4.
Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale, che ha dichiarato la incostituzionalità dell'art. 10 comma 3, nella parte in cui individua nella dichiarazione dell'apertura del dibattimento, il momento limite per l'applicazione della norma più favorevole al reo, nella specie della prescrizione breve.
Il primo problema che si è posto è stato quello di stabilire se tra le norme più favorevoli di cui al comma 4 rientrasse la sola misura della pena, ovvero anche altre disposizioni che incidono su di essa. Come già visto il problema concerne la natura giuridica della prescrizione. La Consulta, dopo aver ribadito l'orientamento giurisprudenziale sulla natura sostanziale della prescrizione, ritiene di conseguenza ad essa applicabile il principio del favor rei, enunciato dal comma 4.
Ciò posto il problema che si pone è di stabilire il rango del principio di retroattività della norma favorevole. Alcuni hanno affermato che il principio ha una copertura costituzionale nell'art. 25 comma 2 della costituzione, che ha introdotto il principio del favor rei, cui farebbe capo da un lato la retroattività della legge favorevole, e dall'altro la irretroattività della legge sfavorevole. Si è detto che non importa che la norma costituzionale faccia riferimento solo alla irretroattività della norma sfavorevole, perché la stessa costituzione conterrebbe principi espressi e principi taciti e tra questi ci sarebbe il principio di retroattività della norma favorevole. Ne seguirebbe, aderendo a questa tesi la iilegittimità del comma 3 perché in contrasto con l'art. 25 comma 2 della costituzione.
Questo orientamento minoritario sia in dottrina che in giurisprudenza, è stato contestato da chi osserva che l'art. 25 comma 2 fa riferimento alla sola legge irretroattiva e poi rimette al legislatore ordinario la facoltà di disciplinare il regime intertemporale delle norme. Di conseguenza il regime di cui all'art. 10 comma 3 sarebbe perfettamente legittimo
La tesi da ultimo enunciata è stata seguita anche dalla giurisprudenza costituzionale, che afferma come la disciplina della lex mitior non riceve nell'ordinamento la stessa tutela accordata al reo per le norme sfavorevoli, che a norma dell'art. 25 cost. sono sempre irretroattive. La giurisprudenza chiarisce le motivazioni della diversità di rango del principio della irretroattività della norma sfavorevole e quello della retroattività della norma favorevole.
In buona sostanza il primo principio è il retaggio della garanzia che l'ordinamento deve ad ogni consociato, di prevedere in anticipo le conseguenze penali della propria condotta, avuto riguardo anche ai principi di colpevolezza e della funzione preventiva della pena.
Si evince che il principio di irretroattività ha la sua giustificazione nell'evitare vanificare le aspettative dei cittadini, ove il legislatore decidesse di sottoporre a pena fatti che al momento della commissione non costituivano reato, e ciò non solo per le norme di incriminazione ex novo, ma anche per le norme modificative in senso peggiorativo di precedenti disposizioni penali.
In senso opposto si evidenzia che il principio di irretroattività non ha alcun collegamento con il principio di autodeterminazione, perché interviene quando il fatto è già stato commesso e l'autore si è già determinato sullo sfavorevole panorama legislativo.
Questa impostazione seguita dalla giurisprudenza, anche se esclude la natura costituzionale del principio di retroattività, tuttavia ammette che esso può trovare copertura nel principio di uguaglianza, desumibile dall'art. 3 Cost. che impone lo stesso trattamento sanzionatorio per tutti i fatti. Tuttavia tale principio è suscettibile di deroghe ogni qual volta sussistono vincoli o condizioni tali da giustificare la sua non applicabilità. 
La stessa giurisprudenza è orientata nel ritenere che deroghe al principio de quo possono esistere solo se supportate da un ragionevole motivo, senza che vengono violati i principi di parità di trattamento, o meglio che vengano create situazioni discriminatorie.
Sulla questine della ragionevolezza dell'art. 10 comma 3 si sono stati dibattiti giurisprudenziali, posizionati su due fronti principali.
Per un primo orientamento l'apertura del dibattimento o l'inizio di un giudizio di impugnazione, disposta dall'art. 10, comma 3 è perfettamente coerente con i principi costituzionali di ragionevolezza e non discriminazione.
Questa impostazione ha ricevuto diverse contestazioni perché non ha tenuto conto della circostanza che in tal modo verrebbe violato il principio di ragionevolezza. Infatti per scelte processuali diverse gli stessi imputati per l'identico reato, potrebbero trovarsi a beneficiare della prescrizione più breve ed altri no. Inoltre il legislatore nella norma transitoria non ha fatto distinzioni tra reati per i quali è previsto il dibattimento e reati in cui tale fase processuale non c'è.
La giurisprudenza in definitiva è giunta a dichiarare la incostituzionalità della norma transitoria in questione, poiché l'apertura del dibattimento non è il connotato di tutti i procedimenti penali di primo grado, né esso è incluso tra quelli fondamentali cui il legislatore ha ancorato l'effetto interruttivo del decorso della prescrizione.
Infatti gli atti idonei a interrompere la prescrizione, sono indicati nell'elenco di cui all'art. 160 c.p.p.
L'esigenza di interruzione dei termini della prescrizione, con un aumento degli stessi, è stato previsto dal legislatore nell'art. 157 c.p., allorché siano stati posti in essere atti fondamentali del procedimento penale, che rendessero ancora attuale l'interesse dello Stato alla pretesa punitiva. L'interruzione della prescrizione si distingue dalla sospensione, perché mentre nella prima i termini cominciano a decorrere ex novo, nella seconda, ricominciano a decorrere dal momento in cui si erano interrotti.
La giurisprudenza considera l'elenco di cui all'art. 160 tassativo, perché comprende tutti gli atti fondamentali del procedimento, in modo tale da scongiurare l'ampliamento dello stesso da parte degli interpreti, scelta resa necessaria anche dalla natura sostanziale dell'istituito.
La dottrina distingue gli atti interruttivi della prescrizione in quattro categorie, a seconda della natura decisoria, coercitiva, probatoria, o propulsiva cui assolvono gli atti.
Alcuni orientamenti dottrinari e giurisprudenziali hanno contestato la tassatività dell'elenco degli atti interruttivi della prescrizione: ad esempio, una parte della dottrina ha obiettato che non tutti gli atti contenuti nell'elenco di cui all'art. 160 c.p.p., sono atti processuali fondamentali; la tesi fa riferimento a due atti in particolare, la convalida del fermo e l'interrogatorio reso dal pm su richiesta dell'indagato. Si è tuttavia da altri osservato che la convalida del fermo è un atto necessario perché rientra tra gli atti coercitivi, mentre l'interrogatorio reso dal pm è comunque un atto fondamentale perché contiene la volontà dello Stato di perseguire il reato, lo stesso ha una funzione probatoria perché all'imputato è contestato il fatto rendendogli noti gli elementi di fatto su cui si basa.
Altri ancora hanno ritenuto l'elenco dell'art. 160, incompleto, perché mancante di qualche atto processuale fondamentale, come l'art. 415-bis del c.p.p. relativo all'avviso di conclusioni delle indagini preliminari.
Una parte della giurisprudenza ha detto che la mancata inclusione nell'elenco di questo atto, è stato frutto non di una scelta legislativa ma di un imperfetto coordinamento legislativo. I sostenitori di questa tesi non hanno tuttavia tenuto conto dell'orientamento già consolidato in giurisprudenza che aveva evidenziato che la mancata inclusione dell'art. 415-bis era stata frutto di una intenzione del legislatore. Lo stesso infatti più volte ha avuto la possibilità di intervenire sull'articolo 160, (da ultimo la ex Cirielli) in occasione delle modifiche apportate al codice di procedura penale, ma non lo ha fatto, come a voler ribadire che l'elenco di cui all'art. 160 costituisce un numerus clausus.
Inoltre opinando diversamente, si finirebbe per violare i principi di tassatività, riserva di legge, legalità della legge penale.
Non si potrebbe ricorrere nemmeno al procedimento analogico, per il principio del divieto di analogia in malam partem secondo il dettato dell'art. 14 delle preleggi.
La stessa giurisprudenza costituzionale infatti ha sancito il divieto di pronunce additive in malam partem, come quelle volte ad integrare gli effetti interruttivi e sospensivi della prescrizione, perchè incompatibili con il principio di riserva di legge in materia penale. Lo stesso divieto, si è detto valere anche per la giurisprudenza di legittimità che non può integrare in malam partem l'elenco tassativo di atti di cui all'art. 160.
La giurisprudenza che ha opinato in senso contrario ha evidenziato che l'inserimento del 415-bis tra gli atti che determinano l'interruzione della prescrizione, non è frutto di un procedimento interpretativo analogico o estensivo perché, si è detto, un atto nominato qual'è quello dell'art. 375 c.p.p. (invito a presentarsi davanti al pubblico ministero), è ontologicamente contenuto nell'avviso di conclusioni delle indagini preliminari. Si tratterebbe quindi, per tale indirizzo ermeneutico di coordinare il 160 c.p. con il predetto avviso. Queste argomentazioni tuttavia sono state contestate dalla dottrina e dall'orientamento ormai consolidato della giurisprudenza perché in contrasto con i principi dalla stessa da tempo enunciati. Infatti l'orientamento minoritario, attraverso il concetto di atto equipollente, finisce ad ogni modo per porre in essere un procedimento analogico in malam partem, vietato in ambito penale.
Inoltre si evidenzia l'errore in cui incorre l'indirizzo minoritario, nel considerare l'avviso di cui al 415-bis c.p.p. atto equipollente o analogo ad altri atti contenuti nel 160 c.p. Escluso che trattasi di atto avente natura decisoria (come la sentenza di condanna), coecitiva (come l'applicazione di misure cautelari), probatoria (come l'interrogatorio dell'imputato), esso avrebbe dovuto avere funzione di propulsione del procedimento (come il decreto di citazione a giudizio). L'orientamento consolidato esclude anche questa alternativa, ritenendo che l'avviso de quo, assolve ad una mera funzione informativa nel rispetto dell'art. 111 della cost. che impone di porre l'indagato nella condizione di difendersi prima ancora che intervenga un vero atto di interruzione della prescrizione, quale il decreto di citazione a giudizio, mettendolo in condizione di conoscere l'attività del pubblico ministero per poter predisporre la propria linea difensiva. Inoltre, si aggiunge che è errato equiparare il 375 c.p.p. alla facoltà di presentarsi al pm contenuta nel 415-bis, perché sono atti diversi quanto all'iniziativa, rimessa nel primo all'indagato e nel secondo al pm.
La soluzione prospettata dalla Suprema Corte, oltre ad essere in linea con l'impostazione consolidata dalle sezione unite (sentenza Brembatti), è anche ancorata ai principi costituzionali fondamentali in materia penale, quali il principio di legalità con i suoi corollari della riserva di legge e di analogia in malam partem. Si tratta in verità di voler evitare che il ricorso al concetto di atti equipollenti per integrare il catalogo previsto dal 160 c.p. sia diretto invece alla estensione in malam partem, come insegna anche dalla giurisprudenza costituzionale. 
In definitiva la giurisprudenza nell'esaminare tutte le questioni ora esposte ha ribadito la natura sostanziale dell'istituto della prescrizione.
Avv. Silvia Gioia - www.pandettistica.blogspot.com, marzo 2009
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