Versione per la stampa
Illegittimità costituzionale dell’art. 405, comma 1-bis, c.p.p. (aggiunto dall’art. 3 l. 20 febbraio 2006, n. 46 - Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, c.d. "Pecorella-bis").
Il pubblico ministero, ancorché privo di ulteriori elementi a carico dell'indagato, può legittimamente esercitare l'azione penale (e non richiedere l'archiviazione) anche qualora la Suprema Corte si sia pronunciata negativamente circa la sussitenza di gravi indizi per le misure cautelari.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 405, comma 1-bis,del codice di procedura penale, aggiunto dall’art. 3 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì nel procedimento penale a carico di L.R. ed altri, con ordinanza del 22 novembre 2007, iscritta al n. 72 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2008.
Udito nella camera di consiglio del 28 gennaio 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 405, comma 1-bis, del codice di procedura penale, aggiunto dall’art. 3 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), in forza del quale «il pubblico ministero, al termine delle indagini, formula richiesta di archiviazione quando la Corte di cassazione si è pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ai sensi dell’articolo 273, e non sono stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini».
Il giudice rimettente riferisce che – nell’ambito di un più ampio procedimento penale, dal quale era derivato, per separazione, il procedimento a quo – la Corte di cassazione, con quattro sentenze emesse tra il 21 giugno e il 26 luglio 2005, aveva rigettato i ricorsi del pubblico ministero avverso le ordinanze del Tribunale di Bologna, con cui erano state annullate in sede di riesame, per carenza dei gravi indizi di colpevolezza, le misure cautelari applicate ad alcune delle persone sottoposte alle indagini. I ricorsi del pubblico ministero erano stati respinti, a seconda dei casi, o perché basati su valutazioni attinenti al merito, inammissibili in sede di legittimità; o per la ritenuta infondatezza delle censure mosse alla motivazione del provvedimento impugnato; ovvero, ancora, per entrambe le ragioni ora indicate.
Poiché, in tutti i casi, la Corte di cassazione – confermando la decisione del tribunale del riesame – si era «pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ai sensi dell’art. 273» cod. proc. pen., il pubblico ministero, in applicazione del comma 1-bis dell’art. 405 del medesimo codice, aggiunto dall’art. 3 della legge n. 46 del 2006, aveva formulato richiesta di archiviazione: rappresentando, tuttavia, che in assenza di tale disposizione egli avrebbe chiesto il rinvio a giudizio degli indagati e denunciando altresì il contrasto della disposizione stessa con il principio di ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost.
Ad avviso del giudice a quo, il comma 1-bis dell’art. 405 cod. proc. pen. violerebbe non soltanto il parametro costituzionale evocato dalla pubblica accusa, ma anche gli artt. 111, secondo comma, e 112 Cost.
La disposizione impugnata determinerebbe, in specie, «un’indebita dilatazione […] della valutazione dei gravi indizi di colpevolezza effettuabile, in sede di legittimità, in punto di misure cautelari». Per consolidata giurisprudenza, infatti, la valutazione del peso probatorio degli indizi, ai fini dell’adozione delle misure cautelari personali, è compito riservato al giudice del merito e può essere contestata, con ricorso per cassazione, unicamente sotto il profilo della sussistenza, adeguatezza e logicità della motivazione.
La norma sottoposta a scrutinio trascurerebbe, dunque, la circostanza che il sindacato della Corte di cassazione in ordine ai gravi indizi di colpevolezza, richiesti dall’art. 273 cod. proc. pen., è sempre vincolato alle risultanze investigative considerate dal giudice di merito e delle quali si dà conto nel provvedimento impugnato: con la conseguenza che detto sindacato non comporterebbe di necessità la considerazione di tutti gli elementi indiziari acquisiti nel corso delle indagini, in quanto il giudice del merito potrebbe averne trascurati alcuni nel ragionamento seguito. Il pubblico ministero non potrebbe essere privato, tuttavia, dell’opportunità di far valere tali risultanze, non considerate, nel seguito del procedimento, anzitutto mediante la richiesta di rinvio a giudizio o la citazione a giudizio.
Sotto diverso profilo, poi, la regola dettata dall’art. 405, comma 1-bis, cod. proc. pen. non terrebbe conto della differenza intercorrente tra gli elementi che giustificano la richiesta di rinvio a giudizio o la citazione a giudizio e i gravi indizi che legittimano l’applicazione di una misura cautelare. Questi – dovendo risultare idonei a fondare, secondo la giurisprudenza di legittimità, un giudizio di qualificata probabilità sulla responsabilità dell’indagato in ordine ai reati addebitatigli – avrebbero, infatti, una maggiore «pregnanza» dei primi: e ciò, in considerazione sia della diversa fase del procedimento in cui le misure cautelari ordinariamente intervengono (e, cioè, «quella iniziale delle indagini preliminari»); sia della gravità intrinseca delle misure stesse, le quali sono applicate a prescindere dal contraddittorio tipico del giudizio.
Per tali aspetti, la norma impugnata si rivelerebbe dunque lesiva tanto dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost.; quanto del precetto di obbligatorietà dell’azione penale, enunciato dall’art. 112 Cost., venendo a limitare indebitamente l’autonomia del pubblico ministero nell’esercizio di tale azione.
La circostanza che – ad avviso del rimettente – la disposizione censurata non impedisca comunque al giudice per le indagini preliminari di respingere la richiesta di archiviazione e di disporre, quindi, l’«imputazione coatta», non basterebbe a fugare i dubbi di legittimità costituzionale. La richiesta “obbligata” di archiviazione da parte del pubblico ministero comporterebbe, difatti, «passaggi processuali» che possono risultare privi di giustificazione, in contrasto con le esigenze di economia processuale e con il principio di ragionevole durata del processo, espresso dall’art. 111, secondo comma, Cost.: quali, in specie, la fissazione dell’udienza prevista dall’art. 409, comma 2, cod. proc. pen., l’imputazione coatta o l’indicazione di ulteriori indagini da compiere. Queste, d’altro canto, sarebbero finalizzate unicamente a raccogliere «ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini» – conformemente a quanto prevede la norma impugnata – con conseguente compromissione anche del principio di terzietà del giudice, sancito dallo stesso art. 111, secondo comma, Cost.
Considerato in diritto
1. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione, dell’art. 405, comma 1-bis, del codice di procedura penale, aggiunto dall’art. 3 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), il quale stabilisce che «il pubblico ministero, al termine delle indagini, formula richiesta di archiviazione quando la Corte di cassazione si è pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ai sensi dell’articolo 273, e non sono stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini».
Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata trascurerebbe la circostanza che il sindacato della Corte di cassazione sulla gravità indiziaria, richiesta dall’art. 273 cod. proc. pen., si esercita per il tramite della motivazione del provvedimento impugnato: onde il vaglio del giudice di legittimità non si estenderebbe necessariamente a tutti gli elementi indiziari acquisiti nel corso delle indagini, in quanto il giudice di merito potrebbe averne trascurati alcuni nello svolgere le proprie argomentazioni.
Sotto diverso profilo, poi, il legislatore non avrebbe tenuto conto della differenza tra gli elementi che giustificano la richiesta di rinvio a giudizio o la citazione a giudizio e quelli che legittimano l’applicazione di una misura cautelare. I secondi – dovendo risultare idonei a fondare un giudizio di qualificata probabilità di condanna dell’indagato – avrebbero, infatti, una maggiore «pregnanza» dei primi: e ciò, in considerazione sia della diversa fase del procedimento in cui le misure cautelari normalmente intervengono (vale a dire «quella iniziale delle indagini preliminari»); sia della gravità delle misure stesse, le quali sono applicate a prescindere dal contraddittorio tipico del giudizio.
Per tali aspetti, la norma impugnata si rivelerebbe lesiva tanto dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost.; quanto del precetto di obbligatorietà dell’azione penale, enunciato dall’art. 112 Cost., venendo a limitare indebitamente l’autonomia del pubblico ministero nelle scelte circa l’esercizio di detta azione.
La circostanza che – secondo l’interpretazione accolta dal rimettente – la disposizione censurata non impedisca comunque al giudice per le indagini preliminari di respingere la richiesta di archiviazione e di disporre, quindi, la formulazione dell’imputazione, non basterebbe a rendere la norma conforme a Costituzione. L’obbligo del pubblico ministero di chiedere l’archiviazione comporterebbe, infatti, il dovere del giudice di compiere attività che possono rivelarsi prive di giustificazione, in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111, secondo comma, Cost.: quali la fissazione dell’udienza prevista dall’art. 409, comma 2, cod. proc. pen., l’imputazione coatta o l’indicazione di ulteriori indagini suppletive, le quali, d’altra parte, risulterebbero finalizzate unicamente a raccogliere altri «elementi a carico della persona sottoposta alle indagini» – secondo quanto prevede la norma impugnata – con conseguente lesione anche del principio di terzietà del giudice, enunciato dallo stesso art. 111, secondo comma, Cost.
2. – In riferimento agli artt. 3 e 112 Cost., la questione è fondata.
3. – Introducendo un vincolo legale del tutto innovativo alle determinazioni del pubblico ministero in punto di esercizio dell’azione penale, la norma impugnata stabilisce che l’organo dell’accusa, «al termine delle indagini», debba formulare richiesta di archiviazione allorché ricorrano due condizioni: una di segno positivo, rappresentata dal fatto che «la Corte di cassazione si [sia] pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza», ai sensi dell’art. 273 cod. proc. pen.; l’altra di segno negativo, costituita dalla circostanza che «non [siano] stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini».
Emerge dai lavori parlamentari – e segnatamente dalla relazione alla proposta di legge n. 5301, i cui contenuti sono stati trasfusi nell’emendamento che ha inserito la disposizione nella legge n. 46 del 2006 – che lo scopo della norma sarebbe di evitare, contrastando una prassi in assunto diffusa, che il pubblico ministero, pure in assenza di sopravvenienze investigative, eserciti «caparbiamente» l’azione penale in relazione a prospettazioni accusatorie la cui inconsistenza sarebbe già stata acclarata dalla Corte di cassazione in occasione dello scrutinio di iniziative cautelari. Si tratterebbe, in sostanza, di un rimedio preventivo, volto, per un verso, ad alleggerire il carico di lavoro dei giudici dell’udienza preliminare e del dibattimento; e, per altro verso, ad evitare che l’indagato venga inutilmente sottoposto a processo in situazioni nelle quali l’esito liberatorio risulterebbe già scontato, a fronte del «qualificato vaglio» del giudice di legittimità sulla insussistenza della gravità indiziaria.
4. – Nel perseguire tale obiettivo, la disposizione censurata pone una regola che rovescia il rapporto fisiologico tra procedimento incidentale de libertate e procedimento principale.
Sino all’introduzione della nuova norma non si era mai dubitato, in effetti, che la pronuncia emessa in sede cautelare, ancorché all’esito definitivo di una impugnazione, avesse una portata rigorosamente circoscritta al procedimento incidentale de libertate, senza poter vincolare né il pubblico ministero, quanto alle determinazioni relative all’esercizio dell’azione penale né il giudice dell’udienza preliminare, ai fini del rinvio a giudizio né, ancora, il giudice del dibattimento, con riguardo alla decisione sul merito della regiudicanda (si veda, al riguardo, già Corte di cassazione, sezioni unite, 12 ottobre 1993, n. 20).
Interferenze tra procedimento cautelare e procedimento principale erano considerate ammissibili solo in direzione inversa, sulla base del cosiddetto principio di assorbimento: nel senso, cioè, che il raggiungimento di certi stadi decisori nel procedimento principale era idoneo ad incidere in modo preclusivo – positivamente o negativamente – sulla verifica del fumus commissi delicti, richiesto ai fini dell’applicazione delle misure cautelari personali (si veda, al riguardo, la sentenza di questa Corte n. 71 del 1996).
Il principio di “impermeabilità” del procedimento principale agli esiti del procedimento cautelare ha, in effetti, un preciso fondamento logico-sistematico. Esso non discende, difatti, unicamente dal rilievo che la valutazione operata in un procedimento a cognizione sommaria e a carattere accessorio, quale quello cautelare, non può, in linea logica, condizionare gli sviluppi del procedimento a cognizione piena cui il primo è strumentale. Detto principio rappresenta anche e soprattutto il naturale riflesso dell’impostazione accusatoria del vigente codice di rito, che riserva alla fase processuale l’accertamento della responsabilità dell’imputato. Tale impostazione rinviene oggi un esplicito referente costituzionale nei principi del «giusto processo» enunciati dall’art. 111 Cost., e segnatamente in quello per cui la prova si forma nel contraddittorio tra le parti, salve le eccezioni prefigurate dal quinto comma del medesimo articolo.
L’esclusione di effetti condizionanti del giudizio cautelare sul procedimento principale vale difatti a scandire, salvaguardandola, la distinzione tra la fase delle indagini preliminari – nella quale non opera il principio del contraddittorio nella formazione della prova, come non opera in genere per l’applicazione delle misure cautelari – e quella del processo. Essa trova significativa eco, altresì, nella necessaria diversità fra il giudice dell’incidente cautelare e il giudice chiamato a pronunciarsi sul merito dell’imputazione, conseguente al regime delle incompatibilità (art. 34 cod. proc. pen., quale risultante a seguito degli interventi di questa Corte).
5. – Con la norma impugnata, viceversa, il legislatore riconosce a determinate pronunce emesse in sede cautelare un’efficacia preclusiva sul procedimento principale. Più in particolare, la norma attribuisce a talune ipotesi “qualificate” di cosiddetto giudicato cautelare (sentenze della Corte di cassazione sull’insussistenza della gravità indiziaria) una valenza condizionante che – lungi dall’esaurirsi (secondo la corrente elaborazione giurisprudenziale del suddetto istituto) nel mero impedimento alla riproposizione, rebus sic stantibus, di istanze al giudice della cautela basate su motivi già dedotti – viene ad incidere sulla stessa possibilità di apertura del processo, inibendo l’atto di esercizio dell’azione penale.
Significativa, riguardo all’intento di configurare una vera e propria preclusione, è la collocazione della norma all’interno di quelle dell’art. 405 del codice di rito che disciplinano proprio l’«inizio dell’azione penale».
Sul tema va osservato che, sebbene non possa escludersi, pregiudizialmente ed in assoluto, la compatibilità costituzionale di disposizioni che, in particolari frangenti o per particolari aspetti, agiscano nella direzione considerata, è tuttavia evidente che l’inversione dell’ordinario rapporto tra procedimento cautelare e procedimento principale debba esprimersi in una regola rispondente a solidi canoni di razionalità, quanto a presupposti ed effetti: e ciò, avuto specificamente riguardo al fondamento di detto rapporto, quale dianzi evidenziato.
L’esigenza di razionalità risulta, d’altra parte, ancor più pregnante allorché l’intervento si traduca, come nella situazione in esame, in una previsione impeditiva dell’esercizio dell’azione penale. Secondo quanto più volte affermato da questa Corte, il principio di obbligatorietà dell’azione penale, espresso dall’art. 112 Cost., non esclude che l’ordinamento possa subordinare l’esercizio dell’azione a specifiche condizioni (tra le altre, sentenze n. 114 del 1982 e n. 104 del 1974; ordinanza n. 178 del 2003).
Affinché l’art. 112 Cost. non sia compromesso, tuttavia, simili canoni debbono risultare intrinsecamente razionali e tali da non produrre disparità di trattamento fra situazioni analoghe: e ciò, alla luce dello stesso fondamento dell’affermazione costituzionale dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, come elemento che concorre a garantire – oltre all’indipendenza del pubblico ministero nello svolgimento della propria funzione – anche e soprattutto l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale (sentenze n. 88 del 1991 e n. 84 del 1979).
6. – La regola dettata dall’art. 405, comma 1-bis, cod. proc. pen. si presenta, al contrario, di per sé irragionevole per un triplice ordine di profili.
6.1. – Il primo e fondamentale di essi risiede nella diversità tra le regole di giudizio che presiedono alla cognizione cautelare e quelle che legittimano l’esercizio dell’azione penale.
In ambito cautelare, la valutazione dei «gravi indizi di colpevolezza» implica, infatti – per consolidata giurisprudenza di legittimità e come affermato, in più occasioni, anche da questa Corte (sentenze n. 131 del 1996 e n. 432 del 1995; ordinanza n. 314 del 1996) – un giudizio prognostico di elevata probabilità di colpevolezza, giudizio peraltro di tipo “statico”, in quanto basato sui soli elementi già acquisiti dal pubblico ministero ed essenzialmente funzionale agli scopi della misura, vale a dire alla soddisfazione delle esigenze cautelari allo stato degli atti e durante il procedimento.
Di contro, alla luce dell’art. 125 disp. att. cod. proc. pen. – secondo cui il pubblico ministero chiede l’archiviazione per infondatezza della notizia di reato quando gli elementi acquisiti «non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio» – la decisione sull’esercizio dell’azione penale si fonda su una valutazione di utilità del passaggio alla fase processuale: valutazione a carattere “dinamico”, che tiene conto anche di quanto può ritenersi ragionevolmente acquisibile nella fase dibattimentale, quale sede istituzionalmente preordinata alla formazione della prova nel contraddittorio delle parti e, dunque, ad un possibile sviluppo, in chiave probatoria e ai fini della decisione di merito sulla regiudicanda, degli elementi raccolti in fase investigativa. In altre parole, la valutazione di tali elementi ha luogo «non nell’ottica del risultato dell’azione, ma in quella della superfluità o no dell’accertamento giudiziale» e dei suoi precipui obbiettivi, rappresentando «la traduzione in chiave accusatoria del principio di non superfluità del processo» (sentenza n. 88 del 1991; in senso analogo, sentenze n. 478 e n. 319 del 1993, ordinanza n. 252 del 1991).
A causa della diversità dei valori in gioco – limitazioni alla libertà personale a fini cautelari, da un lato, e apertura della fase processuale ai fini del giudizio di merito, dall’altro – la gravità indiziaria richiesta dall’art. 273 cod. proc. pen. si propone come un criterio il cui metro di accertamento è eterogeneo rispetto a quello della sostenibilità dell’accusa in giudizio: per certi aspetti anche più rigoroso, per certi altri più debole, in ragione sia della possibilità che taluni degli atti di indagine unilateralmente acquisiti dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero e considerati per la misura cautelare risultino inutilizzabili in sede di giudizio, sia per l’eventualità che la loro valenza e il loro significato cedano o si trasformino, in uno o altro senso, attraverso la dialettica dell’assunzione probatoria dibattimentale.
Gli esiti delle due valutazioni (per la cautela e per l’azione) possono bensì coincidere in concreto: ma possono anche darsi ipotesi nelle quali la mancanza dei gravi indizi non implica l’inutilità del processo, intesa come insostenibilità dell’accusa in giudizio; così come, a rovescio, ipotesi in cui la prognosi di colpevolezza, sottesa alla ritenuta gravità indiziaria, non trovi poi corrispondenza in una condanna legittimata dalle prove acquisite nel dibattimento.
Proprio in tale prospettiva, questa Corte (sentenza n. 71 del 1996) dichiarò costituzionalmente illegittimi, per violazione degli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., gli artt. 309 e 310 cod. proc. pen., nella parte in cui – secondo la costante interpretazione adottata all’epoca dalla giurisprudenza di legittimità – precludevano al giudice dell’impugnazione cautelare (riesame o appello) il controllo sulla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, allorché nei confronti della persona colpita dalla misura fosse stato emesso il decreto che dispone il giudizio. La Corte osservò, difatti, che la delibazione sottesa al rinvio a giudizio è eterogenea rispetto all’apprezzamento della gravità indiziaria, non sviluppandosi secondo un canone prognostico di colpevolezza o di innocenza, ma attenendo soltanto alla “necessità del dibattimento”. Il decreto che dispone il giudizio non poteva ritenersi, quindi, «assorbente» rispetto alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza: con la conseguenza che precludere l’esame di questi ultimi nelle impugnazioni de libertate equivaleva ad introdurre nel sistema un limite «irragionevolmente discriminatorio e … gravemente lesivo del diritto di difesa».
Questa conclusione resta valida anche dopo la legge 16 dicembre 1999, n. 479: l’arricchimento dei contenuti dell’udienza preliminare e la modifica dell’art. 425 cod. proc. pen., operati da detta legge (che ha mutato, altresì, i presupposti di accesso al giudizio abbreviato, sopprimendo il requisito del consenso del pubblico ministero), non escludono, infatti, che la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza abbia tuttora «ben altra consistenza qualitativa e quantitativa rispetto alla regula iuris propria del rinvio a giudizio» (Cassazione, sezioni unite, 30 ottobre 2002, n. 39915).
La disposizione impugnata con l’ordinanza in epigrafe è venuta, nella sostanza, a riproporre – per così dire, “a rime invertite” – il medesimo assetto già censurato dalla citata sentenza n. 71 del 1996. Essa impone, difatti, al pubblico ministero di chiedere l’archiviazione a fronte dell’accertamento, operato da altro organo giudiziario in sede cautelare, di una situazione probatoria – l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza – che, di per sé, non lo obbligherebbe necessariamente all’inazione.
L’innesto sull’art. 405 cod. proc. pen., volto a cambiare le regole di giudizio che presiedono all’archiviazione e all’esercizio dell’azione penale per farle coincidere con quelle proprie del giudizio cautelare, si pone nella prospettiva di una vera e propria modifica di sistema, idonea a svuotare di significato l’accertamento dibattimentale dell’accusa e, quindi, lo stesso impianto del codice di rito del 1988; e ciò, in palese contraddizione logico-sistematica con le previsioni degli artt. 425 cod. proc. pen. e 125 disp. att. cod. proc.pen., peraltro non toccate dalla riforma.
6.2. – Sotto un secondo profilo, la norma censurata si rivela incongruente in quanto trascura la diversità, strutturata come fisiologicamente possibile, della base probatoria delle due valutazioni a confronto.
Il pubblico ministero fruisce, infatti – pacificamente – di un potere selettivo riguardo agli elementi da sottoporre al giudice della cautela (salvo che per quelli a favore dell’imputato: art. 291, comma 1, cod. proc. pen.): potere che trova il suo metro di esercizio nel vaglio comparativo tra gli interessi, talora confliggenti, ad ottenere la misura richiesta e, nello stesso tempo, a non pregiudicare, con una prematura e ampia rivelazione degli elementi acquisiti, le indagini ancora in corso, specialmente quelle riguardanti più indagati e più ipotesi d’accusa. Al contrario, le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale debbono essere prese sulla base di tutto il materiale investigativo.
Ne deriva che la decisione de libertate della Corte di cassazione può fondarsi su un panorama probatorio diverso e anche più ridotto rispetto a quello da sottoporre al giudice per il controllo su quelle determinazioni. La circostanza, tuttavia, che il pubblico ministero fosse già in possesso di altri elementi, oltre a quelli vagliati in sede di gravame cautelare, atti a dimostrare – eventualmente, anche in modo evidente – la fondatezza della notitia criminis, non varrebbe ad escludere, ai sensi della disposizione censurata, l’obbligo di chiedere comunque l’archiviazione: la norma è, difatti, assolutamente inequivoca nello stabilire che la pronuncia della Corte di cassazione resta priva di efficacia preclusiva solo qualora l’ulteriore materiale d’accusa sia stato acquisito «successivamente» ad essa. Con la conseguenza che la selezione del materiale allegato alla richiesta di misura cautelare, operata dal pubblico ministero sulla base di un apprezzamento del tutto discrezionale, rischia di avere – a parità di situazioni concrete – un effetto condizionante sull’esercizio o meno dell’azione penale.
6.3. – In terzo luogo, infine, va osservato che la Corte di cassazione, quando si pronuncia in materia cautelare, non accerta in modo diretto la mancanza del fumus commissi delicti. In ragione delle caratteristiche proprie del giudizio di legittimità – non alterate, sotto l’aspetto che interessa, dall’ampliamento dei motivi di ricorso attuato dalla stessa legge n. 46 del 2006 [nuovo art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen.] – il sindacato de libertate della Corte di cassazione, precipuamente in materia di gravità indiziaria, si esercita indirettamente mediante il controllo sulla motivazione del provvedimento impugnato (così come, del resto, è avvenuto nel procedimento a quo), del tutto residuali e comunque occasionali essendo le situazioni in cui, invece, può direttamente incidere su tale gravità, ad esempio escludendo l’utilizzabilità di uno o più degli elementi indiziari valorizzati dal giudice di merito.
Ciò implica che l’eventuale annullamento del provvedimento impugnato non svela automaticamente l’oggettiva inesistenza dei gravi indizi di colpevolezza: alcuni elementi, benché già acquisiti, potrebbero non essere stati valorizzati nella motivazione del provvedimento impugnato, perché sfuggiti al giudice della cautela o perché, più semplicemente, egli potrebbe avere male motivato sul punto. Al riguardo, non può in effetti trascurarsi la circostanza che – almeno per quanto attiene ai profili del fatto – la pronuncia sull’impugnazione cautelare si basa su un accertamento a carattere sommario, operato nel quadro di un procedimento caratterizzato (specie quanto al riesame) da cadenze temporali compresse.
7. – Tutte le considerazioni sinora svolte conducono alla conclusione della illegittimità costituzionale della norma censurata, a nulla rilevando che essa configuri solo una preclusione per il pubblico ministero all’esercizio dell’azione penale senza quindi vincolare – secondo la corrente esegesi, condivisa dal rimettente - la valutazione del giudice investito della richiesta di archiviazione: il quale, pertanto – ove ritenga insussistenti le ipotesi previste dagli artt. 408 e 411 cod. proc. pen. e dall’art. 125 disp. att. cod. proc. pen. – conserva il potere di respingere la richiesta stessa, disponendo che il pubblico ministero svolga indagini supplementari o che formuli l’imputazione, benché secondo le più lunghe e obbligate cadenze di un percorso anomalo e improprio.
La norma infatti altera la logica dell’istituto dell’archiviazione, che per ratiostorica e per il modo in cui è disciplinato, si propone come uno strumento di controllo volto a verificare, in funzione di garanzia dell’osservanza del precetto dell’art. 112 Cost., che l’azione penale non venga indebitamente omessa (si veda, in particolare, la già citata sentenza n. 88 del 1991 di questa Corte): laddove, per contro, nella prospettiva offerta dalla norma stessa, detto istituto assumerebbe l’opposto obiettivo di impedire che l’azione penale venga inopportunamente esercitata, anticipando, in pratica, la funzione di “filtro” che dovrebbe essere propria dell’udienza preliminare.
Ovviamente, il legislatore ben può modificare la fisionomia e la funzione degli istituti processuali. Nella specie, tuttavia, per piegare l’archiviazione alla diversa logica sopra indicata, la norma impugnata fa venir meno la condizione minimale di coerenza di qualsiasi meccanismo di controllo – in virtù della quale il parametro di valutazione deve essere il medesimo per il controllato ed il controllore – introducendo una irrazionale frattura tra le regole sulla domanda e le regole sul giudizio. Essa costringe, infatti, una parte processuale – il pubblico ministero – a chiedere un provvedimento negatorio del proprio potere di azione anche quando è ragionevolmente convinta che, alla stregua della regola di giudizio applicabile dal giudice, tale provvedimento non si giustifichi. A sua volta, il giudice, investito della richiesta di archiviazione, viene legittimato, in modo altrettanto paradossale e secondo il citato percorso anomalo, ad imporre a detta parte proprio la condotta (l’esercizio dell’azione penale) che la norma le vieta di tenere.
Per altro verso, qualora il giudice – disattendendo l’eventuale “segnalazione” contraria (secondo cui, in difetto della preclusione di legge, avrebbe esercitato l’azione) fattagli (come nel caso di specie) dall’organo dell’accusa in contemporanea con la richiesta coatta di archiviazione – disponesse comunque l’archiviazione stessa, il pubblico ministero resterebbe privo di qualsiasi rimedio; il decreto di archiviazione emesso de plano non sarebbe, difatti, in alcun modo impugnabile.
Si manifesta, di conseguenza, una ingiustificata disparità di trattamento fra fattispecie identiche sul piano sostanziale. A parità di condizioni, le scelte del pubblico ministero in punto di iniziative cautelari (richiesta o meno della misura, selezione del materiale, esaurimento dei gradi di impugnazione) e la motivazione del provvedimento de libertate possono condizionare l’assetto del potere di azione. A seconda dei casi, l’organo dell’accusa, pur volendosi determinare all’esercizio dell’azione penale non ostante il “giudicato cautelare” per esso negativo, si troverà costretto a chiedere l’archiviazione, senza potersi dolere in alcun modo del provvedimento del giudice che la disponga; ovvero, in difetto di proprie iniziative cautelari, potrà esercitare senza alcun impedimento tale azione: sicché, ove si tratti di reato per il quale è prevista la citazione diretta, vedrà senz’altro soddisfatta la sua pretesa all’instaurazione del processo; mentre, quando si tratti di reato per il quale è prevista l’udienza preliminare, potrà comunque fruire del diritto di impugnare l’eventuale sentenza di non luogo a procedere (art. 428 cod. proc. pen.).
In siffatta prospettiva, la richiesta “coatta” di archiviazione, prevista dalla disposizione censurata, finisce per trasformarsi in una sorta di sanzione extra ordinem per le iniziative cautelari inopportune dell’organo dell’accusa: sanzione peraltro inaccettabile sul piano costituzionale, perché discriminante tra le posizioni degli indagati in rapporto ad attività addebitabili all’organo dell’accusa.
8. – Si deve concludere, pertanto, che – a prescindere da ogni giudizio di opportunità dell’obiettivo che il legislatore si era prefisso – esso è stato comunque perseguito con strumenti lesivi dei parametri espressi dagli artt. 3 e 112 Cost.
L’art. 405, comma 1-bis, cod. proc. pen. va dichiarato, quindi, costituzionalmente illegittimo.
Le residue censure del giudice rimettente, riferite all’art. 111, secondo comma, Cost. esclusivamente con riguardo ai principi di ragionevole durata del processo e di terzietà del giudice, restano assorbite.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 405, comma 1-bis, del codice di procedura penale, aggiunto dall’art. 3 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 aprile 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2009.
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