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Penale.it - Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza 10 luglio 2008 (dep. 23 settembre 2008), n. 36522

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Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza 10 luglio 2008 (dep. 23 settembre 2008), n. 36522
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In relazione alla condanna da sentenza straniera scontata in Italia si può beneficiare dell'indulto

RITENUTO IN FATTO

1. – Con sentenza del 19/7/1999 la Corte d’appello di Milano, in applicazione della Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983 sul trasferimento delle persone condannate ed agli effetti dell’esecuzione della pena in Italia, riconosceva la sentenza 15/6/1989 della Crown Court di Strafford (U.K.), con la quale N. N. era stato condannato alla pena dell’ergastolo per omicidio volontario, determinando in trenta anni di reclusione la pena da eseguirsi nello Stato italiano.

Con ordinanza del 31/5/2007 la stessa Corte dichiarava inapplicabile al N. l’indulto di cui alla legge n. 241 del 2006, richiamando l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che aveva costantemente escluso l’applicabilità dell’indulto alle persone condannate all’estero e trasferite in Italia per l’espiazione della pena ai sensi della citata Convenzione, sul duplice assunto che lo Stato di esecuzione è vincolato alla natura e alla durata della sanzione stabilite dallo Stato di condanna e che la modifica della durata della pena in senso favorevole al condannato è ipotesi eccezionale, prevista dall’art. 12 della Convenzione solo per effetto di “grazia, amnistia e commutazione della pena”, ma non di indulto, istituto ivi non contemplato e diverso dalla commutazione della pena.

2. – Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il N. , il quale ne ha chiesto l’annullamento denunziando la violazione dell’art. 606, lett. b)-c)-e) c.p.p., in relazione agli artt. 174 c.p., 9, 12 e 14 della Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983, 672 c.p.p. ed alla legge n. 241 del 2006.

Sostiene il ricorrente, anche con successiva memoria difensiva, che nell’espressione “commutazione della pena” di cui al citato art. 12 è ricompreso l’indulto, istituto che non trova un equivalente nella terminologia anglosassone né in quella francese, essendo comunque manifesta la volontà di consentire nella fase esecutiva del giudicato straniero l’applicazione della generalità dei benefici che hanno ad effetto la riduzione della pena e che sono previsti dalla legislazione sostanziale e processuale sia dello Stato di condanna sia dello Stato in cui la persona condannata è trasferita, cui l’art. 9 affida l’esclusiva responsabilità dell’esecuzione. Un’interpretazione difforme da quella invocata, ad avviso del ricorrente, esporrebbe la legge di ratifica della Convenzione a dubbi di costituzionalità, sottoponendo la persona condannata all’estero e trasferita in Italia ad un trattamento irragionevolmente deteriore rispetto alla persona giudicata e condannata in Italia.

3. – La Prima Sezione, ritenuto di dover condividere la soluzione interpretativa difforme dal costante indirizzo di legittimità, che motiva l’inapplicabilità dell’indulto alla persona condannata all’estero e trasferita in Italia con riguardo alla formulazione letterale e alla natura eccezionale del citato art. 12 della Convenzione, sul rilievo che esso, in effetti, designa con i termini “grazia, amnistia e commutazione della pena” qualsiasi istituto corrispondente nei singoli ordinamenti all’esercizio di un potere di clemenza, in forma individuale o generalizzata, con ordinanza del 12/3 – 22/5/2008, sussistendo una situazione di potenziale contrasto giurisprudenziale, ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, cui il ricorso è stato assegnato dal Primo Presidente per l’odierna udienza in camera di consiglio.

Anche la Procura Generale presso questa Corte, convenendo con la tesi del ricorrente e sottolineando la precipua finalità della Convenzione di dare ingresso in sede di esecuzione della pena a qualsivoglia trattamento più favorevole al condannato, ha modificato le precedenti conclusioni ed ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO

1. – Le Sezioni Unite sono chiamate a rispondere al quesito “se sia applicabile l’indulto (di cui, nella specie, alla legge 31 luglio 2006, n. 241) alle persone condannate all’estero e trasferite in Italia per l’espiazione della pena con la procedura stabilita dalla Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983 sul trasferimento delle persone condannate, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 25 luglio 1988, n. 334”.

Sulla questione di diritto la Corte di cassazione ha da tempo espresso un orientamento interpretativo univoco nel senso che, ai sensi degli artt. 9 e 12 della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, non è applicabile il beneficio dell’indulto in favore di persona condannata all’estero e detenuta in Italia (Cass., Sez. I, 29 gennaio 2008 n. 10266, Nogarin; Sez. I, 20 dicembre 2007 n. 2106, PG in proc. Falcone; Sez. I, 5 dicembre 2007 n. 47005, Lenti; Sez. I, 31 ottobre 2007 n. 42420, Adesso, rv. 237971; Sez. I, 25 ottobre 2007 n. 40804, P.G. in proc. Perinato; Sez. I, 11 aprile 2007 n. 19444, Greco; Sez. VI, 21 marzo 2007 n. 17804, Melina, rv. 236583; Sez. I, 14 marzo 2007 n. 19076, P.G. in proc. Poma, rv. 238434; Sez. I, 23 gennaio 2007 n. 17583, Cutrona, rv. 236510; Sez. IV, 14 dicembre 2000, Di Cesare, rv. 217967; Sez. I, 28 febbraio 1997, Giacon, rv. 207188; Sez. VI, 7 ottobre 1994, P.G. in proc. Falci, rv. 199937; Sez. I, 22 giugno 1994, Pileggi, rv. 198914).

Le ragioni addotte a sostegno dell’ormai consolidata soluzione ermeneutica possono essere sinteticamente individuate: a) nel vincolo sancito dall’art. 10 della Convenzione per lo Stato di esecuzione, il quale deve, in linea di principio, conformarsi alla natura giuridica e alla durata della sanzione così come stabilite dallo Stato di condanna; b) nell’argomento di ordine letterale desunto dalla circostanza che l’art. 12 della Convenzione autorizza lo Stato di esecuzione alla modifica della durata della pena in senso favorevole al condannato unicamente nei casi di concessione della grazia o dell’amnistia e di commutazione della pena, senza includere il diverso istituto dell’indulto; c) nell’impossibilità di assimilare l’indulto agli istituti previsti dall’art. 12, aventi ciascuno un preciso significato tecnico-giuridico; d) nella natura eccezionale e di stretta interpretazione della previsione contenuta nell’art. 12, non suscettibile perciò di interpretazione analogica o estensiva.

Si aggiunge, in una delle più recenti elaborazioni del tema (Sez. I, n. 42420/07, Adesso, cit.), che il lemma “commutazione” assume nell’ordinamento interno un preciso significato tecnico giuridico: l’art. 174 c.p. stabilisce che “l’indulto … condona in tutto o in parte la pena inflitta, ovvero la commuta in una altra specie di pena stabilita dalla legge”, con l’effetto alternativo di estinguere, in tutto o in parte, la pena (condono), ovvero di trasformarla in un’altra sanzione meno afflittiva prevista dalla legge (commutazione); sicché l’art. 12 della Convenzione farebbe riferimento solo a una delle due forme dell’indulto, la commutazione della pena, ma non anche al condono, istituto questo peculiare del nostro ordinamento e non comune alla generalità degli ordinamenti degli Stati firmatari della Convenzione.

2. – E però, deve darsi atto che la linea interpretativa stabilmente seguita dalla Corte di cassazione è decisamente criticata dalla dottrina e non ha incontrato il consenso unanime della giurisprudenza di merito, non mancando in quest’ultima decisioni (App. Caltanissetta, 9/5/2002, XXX; App. Roma, 21/9/2006, Baraldini e App. Catanzaro, 1/12/2006, Vizza, in Foro It., 2007, II, 60) che, in aperto e consapevole dissenso dalla giurisprudenza di legittimità, hanno affermato posizioni favorevoli all’applicazione dell’indulto ai condannati trasferiti in Italia per l’espiazione di pene inflitte all’estero.

Le Sezioni Unite, alla stregua di un’attenta valutazione delle ragioni addotte a sostegno dell’una o dell’altra tesi, opportunamente rimeditate con riguardo alle osservazioni critiche sia della Sezione rimettente sia del Procuratore Generale, ritengono che l’indirizzo, pur costantemente enunciato finora dalla giurisprudenza di legittimità, non possa essere condiviso e che l’opposta soluzione sia sorretta da argomenti maggiormente affidabili sul piano logico e sistematico.

3. – Mette conto preliminarmente di sottolineare che il metodo interpretativo da adottare per l’esatta ricostruzione del contenuto delle norme della Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983 sul trasferimento delle persone condannate deve ispirarsi alle direttive contenute nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, stipulata il 23 maggio 1969, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 12 febbraio 1974, n. 112, che stabilisce criteri ermeneutici non sovrapponibili a quelli utilizzati per l’interpretazione delle disposizioni dell’ordinamento interno.

Con particolare riguardo alla disciplina dettata dagli artt. 31 (“Regola generale di interpretazione”), 32 (“Mezzi complementari di interpretazione”) e 33 (“Interpretazione dei trattati autenticati in due o più lingue”) della sezione 3 della parte III di detta Convenzione, sulla “interpretazione dei trattati”, rilevano i seguenti criteri: qualsiasi espressione di un trattato dev’essere interpretata “in buona fede”; si presume, salvo diversa e certa intenzione delle parti, che il significato obiettivo di un determinato termine coincida con il “senso ordinario” dello stesso; questo va ricercato nel “contesto” ed alla luce dello “scopo” e dell’ “oggetto” del trattato; il “contesto” comprende, oltre al testo, il preambolo ed ogni altro accordo o strumento ad esso assimilato intervenuto tra le parti, come ad esempio il Rapporto esplicativo; sono consentiti mezzi complementari di interpretazione per ottenere la conferma o il chiarimento del senso risultante dall’operazione ermeneutica svolta sulla base dei criteri principali.

Si ritiene altresì pacificamente che costituisca regola generale d’interpretazione dei trattati, implicitamente inclusa nell’art. 31 par. 1, il principio “ut res magis valeat quam pereat”, in base al quale, tra più significati attribuibili ad una determinata espressione, deve privilegiarsi quello che consente alla norma di produrre un determinato effetto, piuttosto che quello che la rende superflua; e si aggiunge che tutti i principi elencati devono essere presi in considerazione nel loro complesso, non potendo ritenersi completa un’interpretazione che escluda uno di essi, dovendo tutti, cumulativamente, concorrere a determinare l’esatto significato della singola disposizione in esame.

4. – La Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate, adottata il 21 marzo 1983, fu sottoposta alla ratifica parlamentare mentre era in corso l’esame del disegno di legge governativo sugli “effetti delle sentenze penali straniere ed esecuzione all'estero delle sentenze penali italiane”, presentato nella IX Legislatura (S/1741), ripresentato nella successiva Legislatura (S/774) e poi abbandonato all’esito della ratifica della Convenzione e in vista dell’approvazione del nuovo codice di rito. Va rimarcato, per quanto possa rilevare ai fini della ricostruzione storica del problema interpretativo in esame, che nel disegno di legge si prevedeva, tra l’altro, all’art. 20 che “sono regolate dalla legge italiana l’estinzione delle pene conseguenti al riconoscimento della sentenza straniera e la concessione della grazia, dell’amnistia e dell’indulto”.

La Convenzione di Strasburgo costituisce uno strumento elaborato dal Consiglio d’Europa allo scopo (esplicitato sia nel Preambolo sia nel Rapporto esplicativo) di facilitare il trasferimento nello Stato di cittadinanza delle persone condannate all’estero mediante una procedura semplice, rapida e flessibile.

La cooperazione, in un quadro uniforme che riserva ai singoli accordi in forma semplificata tra gli Stati di volta in volta interessati la decisione sul trasferimento dell’esecuzione, è diretta alla buona amministrazione della giustizia ed a favorire il reinserimento sociale e la riabilitazione dei condannati nell’ambiente sociale d'origine (finalità, questa, che il Rapporto esplicativo, par. 23, definisce “primary purpose” della Convenzione), rilevandosi altresì che il rimpatrio dei detenuti nello Stato di nazionalità, condizionato dal consenso del detenuto e giustificato da ragioni umanitarie (difficoltà di comunicazione, alienazione dalla cultura e dalle tradizioni locali, assenza di contatti con i familiari), deve comunque costituire “the best interest of the prisoners as well as of the governments” (Rapporto esplicativo, par. 9).

Una volta raggiunto tra gli Stati interessati l’accordo per il trasferimento della persona condannata, l’art. 9 della Convenzione indica due, alternativi, meccanismi opzionali di riconoscimento della sentenza ai fini dell’esecuzione: la continuazione (art. 10) o la conversione della pena (art. 11).

Lo Stato di esecuzione, mentre con la prima procedura prosegue idealmente l’esecuzione della condanna già iniziata presso lo Stato che l’ha pronunciata, pur con taluni possibili adattamenti, con la seconda procedura di riconoscimento (“exequatur”) sostituisce il titolo esecutivo originario con una propria decisione, senza entrare nel merito dei fatti accertati, così che l’esecuzione non è più basata direttamente sulla sentenza dello Stato di condanna.

Nella legge 25 luglio 1988, n. 334 di ratifica ed esecuzione della Convenzione è stato indicato (art. 3) nella “continuazione” il meccanismo scelto dall’Italia, mentre la legge 3 luglio 1989, n. 257, recante, tra l’altro, norme di attuazione della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, stabilisce che nel determinare la pena la corte d’appello applica i criteri previsti nell’art. 10 della Convenzione (art. 3, comma 2) e che tale corte è equiparata, a ogni effetto, al giudice che ha pronunciato sentenza di condanna in un procedimento penale ordinario (art. 4, comma 1): disposizioni, queste, che vanno infine integrate con l’art. 738, comma 1 c.p.p., per il quale “le pene ... conseguenti al riconoscimento sono eseguite secondo la legge italiana”.

4.1. – Qualunque sia l’opzione prescelta, l’esecuzione della pena è regolata dalla legge dello Stato di esecuzione (art. 9, par. 3): riferimento questo che va interpretato “in a wide sense”-“au sense large”, così da comprendere “ad esempio, le regole per l’ammissibilità alla liberazione condizionale”, dovendo essere chiaro che la direttiva comporta che “the administering State alone shall be competent to take all appropriate decisions” (Rapporto esplicativo, par. 47).

L’art. 10, a sua volta, stabilisce, quanto al meccanismo della continuazione, che lo Stato di esecuzione è vincolato alla natura giuridica e alla durata della condanna come determinate dallo Stato di condanna. Ciò comporta “che la condanna da eseguire, soggetta ad ogni ulteriore decisione dello Stato di esecuzione, ad esempio sulla liberazione condizionale o sulla riduzione della pena (“remission” – “remise de peine”), corrisponda all’ammontare dell’originaria sentenza, tenuto conto del periodo già sofferto e di ogni riduzione maturata nello Stato di condanna prima del trasferimento” (Rapporto esplicativo, par. 49). Attese le differenze tra i sistemi penali degli Stati aderenti, la Convenzione consente anche a quelli che optano per la continuazione di “adattare” la sanzione (“merely to adapt the sanction”), purché vengano rispettati certi limiti: la pena così adattata deve, possibilmente, corrispondere a quella imposta, non dovendo in ogni caso essere più grave, per natura o durata, e non deve eccedere la pena edittale massima prevista per lo stesso fatto dallo Stato di esecuzione (Rapporto esplicativo, par. 50).

Circa i rapporti tra la regola stabilita dall’art. 9, par. 3 e il vincolo posto dall’art. 10 per lo Stato di esecuzione di rispettare la quantità di pena imposta dallo Stato di condanna, questa Corte ha in più occasioni affermato che, se va rispettata la “durata della sanzione” nell’adattamento della pena, per le modalità di trattamento penitenziario e per le misure ad esso relative nella fase dell’esecuzione deve tuttavia applicarsi la normativa vigente nello Stato di esecuzione (Cass., Sez. I, 30 marzo 1999, Di Carlo, rv. 213490 e Sez. VI, 7 ottobre 2003 n. 42996, Mazzucchetti, rv. 228190, in tema di liberazione anticipata e, rispettivamente, di affidamento in prova). L’unico divieto concerne l’applicabilità di una misura più grave per natura o durata della sanzione imposta nello Stato di condanna, mentre non esiste il divieto di imporre una pena in misura meno grave rispetto a quella dello Stato di condanna (Cass., Sez. VI, 13 gennaio 1999 n. 180, P.G. in proc. van Dijck, rv. 212568).

Sulla portata della regola indicata dall’art. 9, par. 3 della Convenzione va segnalato anche il Rapporto al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sulla Raccomandazione 1527 (2001) del 27 giugno 2001, approvato il 23 gennaio 2003 (doc. CM/AS(2003) Rec1527final, Appendice, punto 9, iii), con il quale s’invitava il Comitato: a fare chiarezza che la Convenzione non è designata ad essere usata per l’immediata liberazione della persona condannata una volta rimpatriata; a chiedere agli Stati contraenti di non rifiutare il trasferimento a motivo della possibilità del condannato di beneficiare di una liberazione anticipata nello Stato di esecuzione; a specificare la soglia minima della pena che deve essere scontata (per esempio, il 50%), sotto la quale gli Stati possono rifiutare legittimamente il trasferimento, ma sopra la quale dovrebbero facilitarlo.

Alla base di tale Raccomandazione vi era, tra l’altro, il Rapporto del Committee on Legal and Human Rights del Consiglio d’Europa del 7 giugno 2001 (doc. n. 9117 del 7/6/2001 “Operation of the Council of Europe. Convention on the Transfer of Sentenced Persons – critical analysis and recommendations”, parte II, p. D, par. 24 e ss.), che, nell’illustrare le problematiche attinenti alle differenze esistenti nelle modalità di esecuzione della pena negli ordinamenti degli Stati interessati, rilevava che il meccanismo della Convenzione comporta, sulla base dell’art. 9 par. 3, che la pena da scontare possa essere ridotta rispetto a quella imposta in origine: ciò in quanto l’esecuzione è governata dalla legge dello Stato che accoglie la persona trasferita, che è l’unico competente ad adottare tutte le decisioni “on remission of sentence, parole, early release etc.”, determinando un trattamento più clemente e la liberazione anticipata del condannato.

4.2. – L’art. 12 della Convenzione prevede che ogni Parte può accordare “pardon, amnesty or commutation of the sentence” – “la grâce, l'amnistie ou la commutation de la peine”, conformemente alla Costituzione e alle proprie leggi. Il Rapporto esplicativo, par. 59, chiarisce che, benché lo Stato di esecuzione sia l’unico responsabile per l’esecuzione della pena, “inclusa ogni decisione correlata (ad esempio, la decisione di sospendere l’esecuzione)”, i relativi provvedimenti possono essere accordati anche dallo Stato di condanna, sicché la norma costituisce un’eccezione alla regola stabilita dall’art. 9, par. 3 della Convenzione.

Sull’ampiezza del potere attribuito ad entrambi gli Stati dall’art. 12, mentre l’Italia non ha espresso alcuna riserva, hanno avanzato dichiarazioni procedurali soltanto l’Azerbaijan, per cui le decisioni riguardanti l’applicazione di “pardons and amnesties” in relazione a sentenze pronunciate in tale Stato dovranno essere concordate con le competenti autorità, e la Germania, che si è riservata il diritto di trasferire un condannato solo a condizione che, sulla base di una dichiarazione fatta caso per caso o in via generale dallo Stato di esecuzione, il “pardon” sarà concesso da quest’ultimo solo in accordo con le competenti autorità tedesche.

L’art. 14 della Convenzione prevede che lo Stato di esecuzione debba porre termine all’esecuzione della condanna non appena lo Stato di condanna l’abbia informato di qualsiasi provvedimento che tolga carattere esecutivo alla stessa, quali ad esempio quelli indicati al citato art. 12 (Rapporto esplicativo, par. 63 ).

In ogni caso, lo Stato di esecuzione è tenuto ad informare lo Stato di condanna sullo stato dell’esecuzione (art. 15), in particolare quando ritiene cessata l’esecuzione della condanna, ovvero in caso di “sentence served, remission, conditional release, pardon, amnesty, commutation” – “condamnation purgée, remise, libération conditionnelle, grâce, amnistie, commutation” (Rapporto esplicativo, par. 64 ).

4.3. – Al fine di migliorare le modalità di cooperazione contenute nella Convenzione di Strasburgo del 1983, nell’ambito del programma di misure per l’attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni penali tra gli Stati appartenenti all’Unione Europea, è stata elaborata la proposta – non ancora formalmente approvata (per il testo più recente v. doc. n. 5602/08 del 21 aprile 2008 - COPEN 12) - di Decisione quadro “relativa all'applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione Europea” (doc. Consiglio UE n. 5597/05 del 24/1/2005). In essa si esplicitano talune regole già contenute nella suddetta Convenzione, come quella dell’esecuzione della pena secondo la legislazione dello Stato di esecuzione (art. 17), rimarcandosi che le autorità dello Stato di esecuzione sono le sole competenti a prendere le decisioni concernenti le “modalità” di esecuzione e a stabilire tutte le misure che ne conseguono, compresa la liberazione anticipata o condizionale. Qualora lo richieda, lo Stato di condanna può ottenere informazioni in ordine alle disposizioni applicabili in materia di liberazione anticipata o condizionale, per revocare la richiesta di trasferimento. In ordine ai provvedimenti di clemenza, l’art. 19 conferma che “l’amnistia o la grazia possono essere concesse dallo Stato di emissione nonché dallo Stato di esecuzione”.

Identiche disposizioni sono contenute nella Decisione quadro 2005/214/GAI del Consiglio, approvata il 24 febbraio 2005 e relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie, rispetto alla quale la legge 25 febbraio 2008, n. 34 (legge comunitaria 2007) reca la delega al Governo per l’adozione del decreto legislativo di attuazione, nel senso di “prevedere che eventuali provvedimenti di amnistia o grazia possano essere concessi sia dallo Stato di decisione che dallo Stato italiano” (art. 32, lett. m).

4.4. – Il quadro normativo di riferimento in materia di trasferimento di persone condannate va integrato, infine, con il richiamo delle disposizioni contenute in alcuni Trattati bilaterali sottoscritti dall’Italia.

Nel trattato di cooperazione per l’esecuzione delle sentenze penali con la Thailandia del 28 febbraio 1984, ratificato con legge 27 luglio 1988, n. 369, si stabilisce che lo Stato ricevente può applicare le proprie leggi e le procedure che regolano le modalità di esecuzione della detenzione o delle altre forme di restrizione della libertà, della sospensione condizionale e di “parole”, nonché quelle che regolano la “riduzione dei termini di detenzione” a seguito di provvedimento di “parole”, di liberazione condizionale o di “altro” tipo di provvedimento (“or otherwise”). Si prevede inoltre che spetta “anche” allo Stato trasferente il potere di graziare il condannato o di commutargli la pena.

Nel trattato con il Perù del 24 novembre 1994, ratificato con legge 24 marzo 1999, n. 90, si prevede all’art. 10 che lo Stato trasferente si riserva la facoltà di condonare la pena o concedere amnistia o grazia alla persona condannata e che l’esecuzione della pena della persona trasferita dev’essere effettuata conformemente alle norme del regime penitenziario dello Stato ricevente, ivi compresi i benefici contemplati dalla sua legislazione e quelli concessi dallo Stato trasferente.

Nel trattato con Hong Kong del 18 dicembre 1999, ratificato con legge 11 luglio 2002, n. 149, si stabilisce all’art. 6 che si applicano le leggi e le procedure dello Stato di esecuzione in ordine alla riduzione del periodo di reclusione, ai provvedimenti di “parole”, remissione, commutazione, liberazione condizionale ed “altro”.

Nel trattato per l'esecuzione delle sentenze penali tra Italia e Cuba del 9 giugno 1998, ratificato con legge 18 luglio 2000, n. 207, si prevede all’art. 12 che “ognuno degli Stati potrà concedere grazia, amnistia o indulto alla persona condannata, in conformità alle sue leggi, comunicandolo immediatamente all’altro Stato”.

5. – Tanto premesso, le Sezioni Unite ritengono, in primo luogo, che il dato letterale che fa leva sull’omessa menzione dell’indulto nel testo dell’art. 12 della Convenzione di Strasburgo del 1983 non assuma decisivo rilievo ermeneutico, atteso che: - la Convenzione è redatta nelle due lingue ufficiali del Consiglio di Europa; - la traduzione in lingua italiana non è ufficiale; - l’ “indulto”-“condono”, totale o parziale, della pena ai sensi dell’art. 174 comma 1 c.p. (diverso dall’indulto meramente commutativo, pure unitariamente delineato nella medesima norma), a differenza della grazia, dell’amnistia e della commutazione della pena, corrisponde ad un istituto ignoto ovvero definito in termini non analoghi negli ordinamenti degli altri Stati contraenti, in particolare del Regno Unito e della Francia.

Il Rapporto esplicativo chiarisce, infatti, che rientra nei poteri dello Stato di esecuzione ogni decisione di “remission of the penalty” – “remise de peine” (par. 49 e 64) ed è interessante rilevare che con tale espressione sia stata tradotta la nozione di “indulto” in taluni documenti dell’Unione Europea elaborati in lingua italiana (lingua ufficiale): ad esempio, nella proposta di decisione del Consiglio che istituisce il sistema europeo di informazione sui casellari giudiziari (ECRIS: doc. n. COM(2008) 332 del 27 maggio 2008), fra i parametri comuni di misure incidenti sulla condanna soggetta ad iscrizione, è previsto, nella versione italiana, l’indulto (“remission of the penalty” – “remise de peine”), oltre alla grazia e all’amnistia.

Del pari, l’indulto previsto dalla legge italiana è identificato nella “remise de peine” dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu, 13 maggio 1980, Artico c. Italia, par. 45; Cedu, 10 luglio 2003, Grava c. Italia, par. 31 ss.; Cedu, 2 marzo 2006, Pilla c. Italia, par. 19), come in altri documenti di fonte internazionale.

Definisce “remise de peine” (d’origine parlementaire) l’indulto secondo la legge italiana uno studio comparativo condotto dal Senato francese nel 2007 sugli istituti clemenziali previsti in taluni Stati europei (Les documents de travail du Sénat, série Législation Comparée, l’amnistie et la grâce, doc. LC 177, 1 octobre 2007), rilevando che in Italia e in Portogallo sono previste forme di remises de peine da parte del Parlamento, simili alla “grazia collettiva” (pardon collective), che, tradizionalmente concessa dal Presidente della Repubblica in occasione della festa nazionale francese, comporta una “remise partielle de peine” per le persone detenute o condannate da calcolarsi sulla pena da scontare; secondo tale studio, anche in Belgio e in Olanda si è fatto ricorso a grazie collettive, accordate dal Re. E la Corte di cassazione francese (Cour de cassation, Chambre Criminelle, 10 marzo 1998, n. 97-81.151), in relazione al trasferimento di un condannato dal Regno Unito, ha sostenuto che, in base agli artt. 9, par. 3, e 10, par. 1 della Convenzione di Strasburgo, alla residua pena da scontare si applica la legislazione francese, escludendo peraltro nella specie, ma solo ratione temporis, l’applicazione di una “remise de peine résultant du décret de grace collective” emanato prima del trasferimento del condannato in Francia.

In particolare, circa la figura del “collective pardon”, risulta dai documenti del Consiglio d’Europa che tale istituto, distinto dall’amnistia, è previsto oltre che in Italia (così è definito l’indulto ex l. n. 241 del 2006) in Austria, Armenia, Belgio, Francia, Moldovia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Macedonia.

I “collective pardons” sono presi in considerazione nell’Appendice par. 23 alla Raccomandazione R(99)22 adottata il 30 settembre 1999 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, riguardante il sovrapopolamento delle carceri, che, nell’incoraggiare lo sviluppo di misure per ridurre la durata delle pene da scontare, indica la preferenza per misure individuali come il provvedimento di parole, rispetto a misure collettive per lo svuotamento delle carceri (amnesties, collective pardons).

L’eterogeneità degli istituti di clemenza previsti dalle legislazioni dei Paesi europei è stata rilevata, d’altra parte, sia dalla Commissione europea nel Libro verde sul ravvicinamento, il reciproco riconoscimento e l’esecuzione delle sanzioni penali nell’Unione europea (doc. n. COM(2004) 334 del 30 aprile 2004, par. 3.1.8., pag. 36), per cui “le legislazioni degli Stati membri sull’amnistia e la grazia differiscono considerevolmente”, sia dall’Avvocato Generale della Corte di giustizia delle C.E.E. nelle conclusioni presentate l’8 aprile 2008 nella causa C-297/07 (parte D, par. 80), riguardante la questione pregiudiziale dell’applicazione del principio di ne bis in idem in caso di mancata esecuzione della pena per effetto di “amnistia”. Con questo termine, ha osservato l’Avvocato Generale, si definisce, in un’accezione ampia, “qualsivoglia misura di perdono o remissione delle pene, inclusa la grazia” (tradotta in lingua italiana “indulto” dal testo originario in spagnolo), che si caratterizza per l’individualità, a differenza di altre misure di clemenza rivolte ad un gruppo di persone, senza che ne sia alterata la comune “efficacia estintiva dello ius puniendi” in tutti gli Stati.

E’ altresì significativo rilevare che il Portogallo, che ha un istituto di clemenza simile all’indulto (c.d. pardon parlamentare o generale), ha previsto nella legislazione sulla cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale (legge n. 144 del 31 agosto 1999 e succ. modd., art. 101) che, in caso di trasferimento dell’esecuzione in Portogallo, l’amnistia, il “perdão genérico” e la grazia possono essere concessi da entrambi gli Stati.

In definitiva, emerge chiaramente dall’indagine comparativistica la non perfetta sovrapponibilità degli istituti dell’amnistia e della grazia, coprendo le rispettive nozioni situazioni affatto eterogenee nei vari Stati, sicché il mero dato testuale, che fa leva sull’omessa menzione dell’indulto nell’art. 12 della Convenzione, appare sprovvisto di reale incidenza ermeneutica per la soluzione della questione giuridica controversa.

La ricostruzione sistematica della reale portata della disciplina va piuttosto affidata ai più solidi criteri ermeneutici costituiti dalla “equivalenza giuridica degli istituti” e dalla “ratio” della disciplina dettata dalla Convenzione, nella prospettiva della razionalità e dell’organicità del sistema fondato sulla fonte sopranazionale e multilaterale e nel rispetto del metodo interpretativo desumibile dalle direttive della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.

6. – D’altra parte, la tesi contraria all’applicazione dell’indulto non è suffragata neppure dall’asserita natura eccezionale e di stretta interpretazione della disposizione di cui all’art. 12 della Convenzione, dal momento che il regime giuridico dell’esecuzione per i condannati trasferiti in Italia è disegnato alla stregua della regola fondamentale enunciata dall’art. 9 par. 3, secondo cui “l’esecuzione della condanna è regolata dalla legge dello Stato di esecuzione e questo Stato è l’unico competente a prendere ogni appropriata misura al riguardo” e in forza del quale le modalità di esecuzione della pena devono conformarsi ai principi fondamentali dell’ordinamento dello Stato italiano.

Che la disciplina degli artt. 9 e 10 della Convenzione faccia salvo l’ordinamento giuridico dello Stato di esecuzione, i suoi principi e le sue regole costituzionali è stato perentoriamente affermato dal Giudice delle leggi (Corte cost., sent. n. 73 del 2001), che, chiamato a pronunciarsi, nella vicenda del trasferimento dagli Stati Uniti della cittadina italiana Silvia Baraldini, sulla legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 25 luglio 1988, n. 334, nella parte in cui, nel dare esecuzione alla Convenzione del 1983, consentirebbe di derogare, mediante la stipulazione degli accordi di trasferimento, all’applicazione di istituti a tutela di diritti fondamentali della persona, ha così ricostruito il sistema e lo spirito della Convenzione di Strasburgo: a) lo Stato di condanna può potestativamente prestare o negare il consenso al trasferimento del condannato, quando ritenga che il regime legale dell’esecuzione penale nel potenziale Paese di esecuzione, rispettivamente, sia o non sostanzialmente equivalente a quello previsto dal proprio ordinamento e, perché possa prendere le proprie determinazioni con cognizione di causa, dev’essere informato circa i caratteri di tale regime nello Stato di esecuzione; b) lo Stato di esecuzione, a sua volta, è vincolato alla natura giuridica e alla durata della sanzione, qual’è prevista nell'ordinamento dello Stato di condanna, “ma non al di là del limite superato il quale si determinerebbe una rottura del proprio ordinamento”, essendo possibile per evitare tale conseguenza, in caso di disomogeneità degli ordinamenti, operare l’adattamento che la salvaguardia dei principi fondamentali di quello interno, in particolare le sue regole costituzionali, rende strettamente necessario; c) è chiaramente esclusa, tuttavia, “l’eventualità che il soggetto trasferito sia sottoposto a un vero e proprio regime di esecuzione speciale e personale, concernente i diritti, oltre che i doveri, che lo riguardano come detenuto”.

Va segnalato al riguardo che alla Baraldini è stato applicato l’indulto ex L. n. 241 del 2006 dalla Corte d’appello di Roma, con ordinanza irrevocabile del 21/9/2006, cit., e che il Ministero della Giustizia, sulla richiesta di collaborazione avanzata in un caso analogo dalla Corte d’appello di Caltanissetta, aveva già espresso l’avviso, con nota del 4 dicembre 2001, che la mancata indicazione dell’indulto all’interno della norma dell’art. 12 della Convenzione si giustifica, secondo gli uffici ministeriali, con il fatto che non è previsto, nelle legislazioni dei Paesi aderenti alla Convenzione di Strasburgo, un istituto che produca gli stessi effetti né si rinviene, sul piano della terminologia francese e anglosassone, un’espressione equivalente, non potendosi escludere che nel termine “commutazione” vada ricompreso anche l’indulto, in quanto “appare logicamente innegabile che il più contenga il meno”.

La tesi favorevole all’esclusione del carattere tassativo della disciplina posta dall’art. 12, dovuta alla semplificazione delle formule, necessariamente comprensive di istituti equivalenti in un contesto multilaterale, trova, d’altra parte, determinante sostegno nelle numerose, precise ed inequivoche indicazioni contenute del Rapporto esplicativo.

Ed invero: - nel par. 47, ribadito il criterio per cui l’esecuzione della condanna è regolata dalla legge dello Stato di esecuzione, viene precisato che il riferimento a tale legge deve essere interpretato in senso ampio, sì da ricomprendervi, “per esempio”, la liberazione condizionale, misura pure non elencata nell’art. 12 della Convenzione; - il par. 59 avverte che nel riconoscimento al solo Stato di esecuzione della responsabilità dell’esecuzione della condanna è compresa, “per esempio”, la facoltà di disporne la sospensione; - il par. 64, in riferimento all’art. 15 della Convenzione riguardante le informazioni sull’esecuzione della pena, contiene l’elencazione di varie cause che determinano la cessazione dell’esecuzione (“per esempio”: espiazione della pena, remissione della stessa, liberazione condizionale, grazia, amnistia, commutazione), delle quali alcune non sono certo riconducibili ai singoli istituti menzionati dall’art. 12.

7. – A conclusione dei precedenti rilievi esegetici ritengono le Sezioni Unite che non sia rispondente alla corretta interpretazione dell’art. 12, né tantomeno allo spirito e alle finalità della Convenzione di Strasburgo, la tesi che esclude l’applicazione dell’indulto in base alla pretesa natura eccezionale e tassativa della disciplina ivi contenuta.

Puntuali e decisivi argomenti logici e sistematici militano, per contro, a favore della tesi che – in contrasto con la soluzione accolta dalla pur costante giurisprudenza di legittimità – interpreta il citato art. 12 nel senso che gli Stati contraenti hanno fatto riferimento alla grazia, all’amnistia e alla commutazione della pena non con l’intento di limitare i benefici concedibili ai condannati, ma per designare qualsiasi, equivalente, istituto che, nell’ambito dei singoli ordinamenti, corrisponde all’esercizio di un potere di clemenza, sia in forma individuale che generalizzata, diretto alla sostanziale riduzione della pena.

E’ stato lucidamente osservato, in proposito, che l’amnistia può essere rappresentata come un cerchio concentrico di dimensioni maggiori rispetto all’indulto, essendo quest’ultimo compreso nel primo, di guisa che, agli effetti della disciplina dell’art. 12, tracciare distinzioni tra i due istituti significa introdurre discriminazioni non ragionevoli, restando priva di qualsiasi, plausibile, base logica una soluzione che ammetta l’applicazione dell’amnistia (che estingue il reato e, di riflesso, la relativa pena) e, contemporaneamente, neghi l’applicazione dell’indulto, che ha effetti ben più contenuti, incidendo soltanto sulla pena.

Va infine rilevato che l’eventuale interpretazione di segno difforme potrebbe indurre ad un rilievo d’incostituzionalità della legge di ratifica della Convenzione, in quanto esporrebbe il cittadino italiano condannato all’estero che sia stato trasferito in Italia per l’esecuzione della condanna ad un trattamento (irragionevolmente) deteriore rispetto agli altri detenuti, italiani e stranieri, i quali potrebbero beneficiare nella fase esecutiva della generalità degli istituti clemenziali e dei benefici previsti dalle rispettive legislazioni: e ciò nonostante lo scopo dichiarato del trasferimento del condannato che è quello di favorirne il reinserimento sociale nel Pese d’origine.

8. – Di talché, aderendo alla soluzione ermeneutica prospettata sia dalla Sezione rimettente che dal Procuratore Generale, può enunciarsi il seguente principio di diritto: “E’ applicabile l’indulto (di cui, nella specie, alla legge 31 luglio 2006, n. 241) alle persone condannate all’estero e trasferite in Italia per l’espiazione della pena con la procedura stabilita dalla Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983 sul trasferimento delle persone condannate, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 25 luglio 1988, n. 334”.

E, poiché la ratio decidendi dell’ordinanza impugnata non risulta coerente col principio di diritto suindicato, il ricorso va accolto disponendosi, di conseguenza, l’annullamento con rinvio del provvedimento impugnato.
P. Q. M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte d’appello di Milano.
 
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